venerdì 23 luglio 2021

A CLASSIC HORROR STORY: TRA DIVERTISSEMENT E SFOGO CREATIVO

 Dopo molti tentativi fallimentari di resuscitare il cinema di genere nostrano pare che finalmente i tempi siano maturati. Come già accennato durante l'analisi di The End? L'inferno fuori (Daniele Misischia, 2018) molto del repertorio stilistico e narrativo d'oltreoceano è in corso di rielaborazione da parte delle nuove leve della cinematografia italiana, dall'horror al cinecomic, passando per il revenge movie. Proprio alla prima categoria mostra di essere maggiormente legato Roberto De Feo, che esordisce al lungometraggio con il gotico The Nest- Il nido (2019) per poi scrivere e dirigere tra 2020 e 2021, in piena pandemia, A Classic Horror Story, con l'aiuto di Paolo Strippoli. Distribuito in tutto il mondo attraverso Netflix, il film si aggiudica il premio per la miglior regia al prestigioso Taormina Film Fest e al momento svetta tra le prime posizioni dei contenuti più visti sulla piattaforma on-demand. Un risultato di grande prestigio per una produzione del nostro paese, ancor di più se di genere, accompagnato però anche da alcune recensioni non del tutto lusinghiere. Come quasi sempre accade nella vita la verità si situa metà strada tra entusiasmo scrosciante e snobbismo sprezzante e adesso scoprirete perché.

La pellicola inizia come un tipico road movie, con un gruppo di sconosciuti che si trova a viaggiare insieme tramite un app di carpooling, in direzione Calabria. I viaggiatori in questione sono Elisa (Matilda Lutz), laureata alla Bocconi che intende interrompere una gravidanza scomoda per la propria carriera, i fidanzati Mark (Will Merrick) e Sofia (Yulia Sobol), il burbero medico Riccardo (Peppino Mazzotta) e il proprietario del camper Fabrizio (Francesco Russo), studente di cinema e videoblogger. Durante la notte il veicolo, per evitare un animale sulla carreggiata, finisce fuori strada, con il conducente momentaneo, Mark, gravemente ferito. Quando tutti riprendono i sensi in seguito allo schianto il gruppo si trova in un bosco sperduto, il cui unico segno di civiltà è rappresentato da una sinistra casa, disabitata ma decorata con dipinti legati alla leggenda locale di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che avrebbero salvato la popolazione del Sud Italia dalla povertà in cambio di sacrifici umani. Il bosco nel corso della notte viene popolato proprio da presunti adoratori di queste figure, pronti a sacrificare le vite dei protagonisti.

Svelare ulteriori dettagli della trama di A Classic Horror Story sarebbe un delitto grave almeno quanto quelli che avvengono nel corso della pellicola, per motivi che chiunque l'abbia già vista può facilmente comprendere. Il film, difatti, può essere diviso in due macrosezioni, rese ancor più evidenti da un colpo di scena che ribalta non solo le certezze nei confronti dei personaggi e di quanto accaduto precedentemente, bensì anche circa le scelte formali e i messaggi che esse veicolano. La trasformazione del lungometraggio in un incastro di scatole cinesi, reminiscente dei sequel di Scream (Wes Craven, 1996), mette in luce quanto fosse assolutamente volontaria la costante messa in scena di evidenti riferimenti a capisaldi dell'horror americano, da Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, Tobe Hooper, 1974) fino ai più contemporanei Wrong Turn- Il bosco ha fame (Wrong Turn, Rob Schmidt, 2003) e Il rituale (The Ritual, David Bruckner, 2017), con cui condivide l'ambientazione boschiva, i frequenti campi lunghi e lunghissimi e persino alcune specifiche inquadrature. Come farà notare Elisa, evidentemente scelta fin dall'incipit come final girl, nella seconda parte dell'opera, l'abbondanza di citazioni cinefile è sfacciatamente esibita, cosa che rende assolutamente giustificata la svolta metafilmica finale, che si concentra principalmente in un duro attacco verso l'inesistente industria culturale italiana, la diffidenza del pubblico verso le produzioni nostrane e la fascinazione cieca nei confronti dei lavori stranieri. Purtroppo si tratta di argomentazioni fin troppo conosciute nel 2021, ribadite nelle più disparate sedi da tanti altri addetti ai lavori o semplici appassionati, rese per di più ancora meno interessanti da una esplicitazione di queste tematiche che sfocia nel didascalismo, quasi a offendere l'intelligenza dello spettatore.

Molto più sottile e degna di nota è, invece, la dialettica che viene a crearsi tra il film nel film e il mondo reale. La cura maniacale nel dare vita a una summa di tutti i topoi immortalati da decenni di cinema orrorifico americano acuiscono il contrasto con la dimensione italiana in cui vivono i personaggi, fatto di modeste spiagge libere, famiglie meridionali tutt'altro che cool e una 'ndrangheta che non ah proprio niente da spartire con il fascino criminale reso celebre da Hollywood. La sequenza finale esemplifica ai massimi livelli proprio tale dicotomia tra due modi intendere il cinema e, forse, anche la vita stessa: quello patinato, archetipico e superficiale statunitense contro quello italiano, più ancorato al reale e a una lunga tradizione culturale e antropologica. Alla luce di tali riflessioni assume pieno significato la totale sottomissione di tutta la prima parte della pellicola alla lezione d'oltreoceano, così da rendere ancora più straniante e artefatto tale idea di horror quando viene a scontrarsi con la quotidianità nostrana. Un ulteriore strumento, questa volta fortunatamente affermato con i mezzi più potenti che la settima arte mette a disposizione (le immagini), atto a criticare l'esagerata esterofilia dello spettatore medio quando si tratta di cinema horror. Da questo di vista non può non strappare un sorriso beffardo l'ultimissima sequenza, che si prende il lusso di sbeffeggiare anche Netflix stesso, oltre alla passione tutta contemporanea verso la violenza esplicita e i giudizi trancianti privi di qualunque analisi pregressa da parte dei leoni da tastiera.

Estraniandomi dal fanatismo che viene deriso dal film stesso, non posso che consigliare la visione di A Classic Horror Story a ogni appassionato del genere, pur sottolineandone quei limiti che gli impediscono di trasformarsi da irriverente divertissement in grande cinema. Le interpretazioni del cast e la folgorante fotografia, d'altro canto, varrebbero da sole la visione, con una cura per la composizione delle inquadrature che mette davvero in imbarazzo un'alta percentuale delle produzioni americane.

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