sabato 3 luglio 2021

HALLOWEEN - THE BEGINNING: L'EMARGINAZIONE SOCIALE GENERA MOSTRI

 Dopo un decennio commercialmente rianimato soltanto dalla rivoluzione metacinematografica di Scream (Wes Craven, 1996), i primi anni Duemila vedono un riemergere dell'interesse spettatoriale nei confronti dell'horror americano, specialmente nelle sue declinazioni più gore. Senza addentrarmi in complesse e controverse riflessioni, peraltro già affrontate con efficacia da molta saggistica, sul rapporto tra il periodo del post-11 settembre e il successo di di pellicole incentrate su paranoia e tortura, è importante sottolineare come un contesto così favorevole al genere porti anche al ritorno di molte saghe storiche, soprattutto attraverso pratiche di rielaborazione dei modelli originali come remake e reboot. All'interno di questa folta schiera di opere, spesso poco coraggiose e qualitativamente inferiori alle aspettative, trova un posto di particolare rilievo il tentativo di appropriazione del franchise di Halloween da parte di Rob Zombie, musicista metal al tempo sulla cresta dell'onda cinematograficamente grazie a La casa dei 1000 corpi (House of 1000 Corpses, Rob Zombie, 2003) e La casa del diavolo (The Devil's Rejects, 2005). Nonostante la saga dedicata a Michael Myers sia già stata in parte resettata con il campione di incassi Halloween - 20 anni dopo (Halloween H20: 20 Years Later, Steve Miner, 1998), il cineasta decide di tornare ai fatti raccontati nel 1978 da Carpenter, ampliandone al contempo il segmento dedicato all'infanzia del serial killer mascherato. Una scelta premiata da ottimi riscontri al box office, accompagnati però da recensioni perlopiù negative. Uno dei tanti casi di distanza tra visione del pubblico e della critica che adesso proverò a sviscerare.

Divisa nettamente in due macrosequenze, la pellicola mostra inizialmente l'inesorabile trasformazione del problematico bambino Michael Myers (Daeg Faerch) in una furia omicida di appena dieci anni, capace, dopo aver seviziato diversi animali, di uccidere nell'arco di un solo giorno (ovviamente il 31 di ottobre) uno dei bulli che lo prendeva di mira, il patrigno (William Forsythe), la sorella maggiore e il suo ragazzo. L'unica superstite alla strage, insieme alla sorellina molto piccola, è sua madre (Sheri Moon Zombie), che nei mesi successivi continua, amorevolmente, a fare visita al figlio durante la detenzione in un istituto psichiatrico, sotto le cure del dottor Loomis (Malcom McDowell). Dopo un primo periodo di collaborazione con il medico Michael uccide un'infermiera in presenza della signora Myers, portandola al suicidio. Quindici anni dopo lo psichiatra abbandona il proprio paziente ormai cresciuto, dedicandosi alla promozione di un libro basato proprio su di lui, ma durante la notte di Halloween il killer fugge dalla clinica, con l'obiettivo di tornare nella propria città, dove vive, ignara di tutto, sua sorella Laurie (Scout Taylor-Compton), adottata dalla famiglia Strode.

La spartizione in due blocchi di lunghezza quasi perfettamente identica, insieme al titolo, chiarisce immediatamente le intenzioni dietro Halloween - The Beginning (Halloween, Rob Zombie, 2007) rielaborare quanto narrato nel leggendario film carpenteriano donando al villain un background ben più approfondito e, soprattutto, umano. Il Michael Myers del 1978 era una figura avvolta nel più totale mistero, simbolo di un male impossibile da comprendere attraverso la razionalità, inafferrabile al punto da far sì che un bambino, simbolo per antonomasia dell'innocenza, possa tramutarsi nella personificazione dei mostri delle fiabe, del tutto privi di motivazioni per i loro comportamenti in quanto nati con l'unico scopo di insegnare ai più giovani la necessità di confrontarsi con le tante avversità che la vita ci riserva. Al contrario l'assassino scritto da Zombie, autore a tutto tondo dell'opera in analisi, diventa un tale agente del male solamente dopo un lungo percorso di vita reale, scandito da evidenti problemi psicologici e dall'influenza nefasta di un ambiente sociale totalmente avulso alla sua condizione di salute mentale precaria. La scelta di introdurre all'interno della trama il personaggio di Loomis ancora prima che il celeberrimo massacro avvenga mostra proprio come, secondo il regista, Michael sia una persona fragile e che, con delle tempestive e adeguate cure, avrebbe potuto iniziare un percorso di riabilitazione che avrebbe evitato la discesa verso gli inferi che segue. Un abbandono alle più violente e oscure pulsioni del bambino che vengono palesemente accelerate da un milieu assolutamente abusivo: una provincia americana ritratta in tutto il suo squallore culturale ed etico, abbandonato a sé dalle istituzioni politiche e orfano anche di quella su cui dovrebbe reggersi l'intero sistema sociale occidentale, ossia la famiglia. Proprio il disfunzionale focolare domestico in cui vive il villain finisce per essere l'obiettivo della sua brutalità proprio in funzione dell'influenza negativa che dimostra verso il suo crollo nervoso, rendendo molto efficace e interessante l'idea postmoderna di ambientare le vicende nel pieno degli anni Settanta. Un decennio caratterizzato dall'esplosione di una cinematografia indipendente americana, in buona parte anche horror, in cui la ribellione giovanile si rivolge in prima istanza proprio contro la famiglia tradizionale, vista come sineddoche dell'intero sistema di valori patriarcali ormai vetusti e inadatti alle generazioni successive.

Altrettanto interessante risulta l'importanza riposta verso le maschere. Oggetti carichi di significati fin dalla notte dei tempi, a maggior ragione nella lunghissima storia della rappresentazione di sé, questi volti antropici che si sovrappongono a quello naturale di chi le indossa diventano per il giovane Myers quel rifugio da un mondo che lo disprezza e che non gli ha mai donato una minima possibilità di qualsivoglia vita degna di tale nome. Un mezzo per evadere dalle mura che lo imprigionano, parafrasando la tutt'altro che banale frase rivoltagli dall'inserviente Cruz (Denny Trejo), uno dei pochissimi a trattare Michael come un essere umano in quanto, non a caso, ne ha condiviso la condizione di recluso per problemi di natura mentale. Grazie a una costruzione psicologica del villain di tale portata, Zombie riesce a donare anche maggiore interesse empatico alla successiva metà del film, dove lo stalking nei confronti di Laurie e gli omicidi di adolescenti innocenti vengono vissuti dallo spettatore con tutt'altro coinvolgimento emotivo rispetto alla pura eccitazione sensoriale per i truculenti metodi di esecuzione scelti dal killer tipica dei vari Venerdì 13. A tal proposito basti pensare al personaggio di Annie (la stessa Danielle Harris protagonista di alcuni sequel della saga), figlia dello sceriffo già presente nell'originale, che, tramite alcune oculate scelte narrative e di inquadrature, diventa una vittima per la quale il pubblico è naturalmente portato a empatizzare, specie nel momento in cui viene scorta dal padre in fin di vita, a differenza di quanto accade nel franchise dedicato a Jason Voorhees. 

Un risultato reso possibile, come già anticipato, non solo dalle coraggiose scelte narrative, bensì anche da un registro visuale che lavora costantemente su precisi riferimenti cinematografici, innestando un dialogo con gli spettatori basato in buona parte anche sulle loro pregresse conoscenze in ambito horror.  L'abbondante ricorso alla camera in spalla e la scelta di non distogliere lo sguardo della cinepresa anche dinanzi ai momenti più efferati richiamano proprio quel cinema indipendente influenzato dalla Controcultura diffusosi nel corso della New Hollywood, citando spesso opere fondamentalmente incentrate nell'attacco agli orrori della perbenista società americana e della presunta tranquilla vita di provincia come Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, Wes Craven, 1977) o L'ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, Wes Craven, 1972), del quale cita le inquadrature naturalistiche nel corso dell'esplosione della violenza carnale. In maniera analoga a quanto occorre ogni volta che Myers indossa una maschera, la mdp mostra una maggiore e quasi incontrollata tendenza a muoversi bruscamente a ogni apparizione di "The Shape" (così viene definito l'assassino nel corso della saga), come a voler sottolineare la trasformazione di una situazione umana e stabile e in qualcosa di irrazionale e animalesco.

Un risultato finale dunque  certamente lontano dalla minimale perfezione del capolavoro girato nel 1978 ma in buona parte per volontà del proprio autore, capace di donare una personalità ben evidente a un reboot tanto sfrontato da distanziarsi consapevolmente da una pietra di paragone fin troppo ingombrante per qualunque epigono.

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