venerdì 12 luglio 2019

MOONLIGHT: LA RICERCA DI SE STESSI IN UNO SPECCHIO D'ACQUA

A distanza di circa tre anni viene ricordato (purtroppo) per lo più a causa della défaillance di Warren Beatty durante la cerimonia degli Academy Awards del 2017 e per le, sempre più tediose polemiche sul buonismo hollywoodiano: parlo di Moonlight, seconda opera di Barry Jenkins diretta nel 2016 e vincitrice di numerosi premi in tuto il mondo, tra cui appunto l'Oscar per il miglior film. Tralasciando le polemiche postume, tipiche dei social network, non si può certo negare l'enorme clamore che ha accompagnato il film durante la proiezione nei maggiori festival statunitensi e non, così come il buon riscontro al botteghino rispetto al valore produttivo, sebbene non siano mancate le recensioni ingiustamente avvelenate di alcuni critici italiani e la distribuzione nostrana non abbia sfruttato poi molto il traino dei premi conquistati all'estero per attirare gli spettatori.

Tratto dalla drammaturgia, mai portata in scena, In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, il lungometraggio si divide in tre atti, corrispondenti all'infanzia, l'adolescenza e l'età adulta, che raccontano la vita tutt'altro che idilliaca di Chiron (Trevante Rhodes da adulto, Ashton Sanders al liceo, Alex Hibbert da bambino), uomo di colore cresciuto a Liberty City, sobborgo di Miami in cui la comunità afroamericana vive arrangiandosi come può, tra spaccio, prostituzione e violenza quotidiana. Non potendo contare sulla madre dipendente da crack (Naomie Harris) il protagonista trova nello spacciatore di buon cuore Juan (Mahershala Ali) e nella compagna Teresa (Janelle Monàe) due punti di riferimento, così come in Kevin l'unico amico in mezzo ai soprusi dei coetanei, i quali lo accusano di essere "frocio".

Sarebbe da miopi negare la fortunata coincidenza tra l'uscita di Moonlight e il crescente movimento all'interno dell'industria cinematografica statunitense per il riconoscimento del diritto di essere rappresentati su schermo da parte di minoranze etniche e sessuali, con particolare riferimento proprio alla comunità afroamericana e all'omosessualità. Tutto questo ha sicuramente favorito a livello pubblicitario il film ma non intacca minimamente la sua grande qualità e, anzi, questa affinità elettiva con l'attuale clima culturale americano rende caso mai giustizia alla consapevolezza dell'ambiente in cui vive da parte di Jenkins e al coraggio pionieristico contenuto nel testo teatrale di McCraney, scritto circa dieci anni prima che diventasse un soggetto per il grande schermo. Da profondo conoscitore dei meccanismi della settima arte l'autore di Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk, 2018) altera in parte la struttura prettamente adatta al palcoscenico dell'opera ispiratrice suddividendo la pellicola in tre capitoli distinti, corrispondenti sia ai tre atti tipici della narrazione classica che alle tre fasi della vita umana ma, soprattutto, ai tre nomi con i quali viene identificato il protagonista. In questo modo il racconto diventa un vero e proprio coming of age suddiviso in altrettanti micro-Bildungsroman che narrano la maturazione, rispettivamente, di Piccolo, Chiron e Black, i tre individui che convivono all'interno del personaggio principale e che nell'arco di questo percorso di crescita tendono faticosamente a riconciliarsi. Del genere, tipicamente cinematografico, al quale aderisce il regista adotta molti dei topoi ma plasmandoli e ridefinendoli per adattarli a una figura che è un outsider fin dalla nascita, incapace di comprendere fino in fondo il proprio ruolo nel mondo, perché non possa essere se stesso senza attirare l'odio altrui. Ambientando la vicenda all'interno dell'emarginata comunità afroamericana di Liberty City (la stessa in cui è nato Jenkins) il coming of age presenta, per forza di cose, situazioni solo all'apparenza assimilabili a quelle riservate ai ragazzi bianchi, come il rapporto con il migliore amico che si trasforma in amore, le liti con la madre e la ricerca di una figura genitoriale in un estraneo. Chiron in quanto nero e omosessuale in un ambiente esageratamente e tragicamente maschilista si sente così estraneo dal non riuscire a comunicare con nessuno, dosa le parole come se una di troppo potesse condannarlo a morte, cammina a testa bassa e preferisce passare giornate intere fuori casa, pur di evitare di assistere al decadimento di sua madre. L'unica ancora di salvezza gli viene fornita dall'incontro casuale con Juan, l'unica e vera figura genitoriale che incontra in tutta la vita e che lo porta in contatto profondo con il mare, l'unico sostegno, l'unico elemento di bellezza nel quale il giovane trova il coraggio di essere se stesso senza alcuna vergogna o tristezza.
La meravigliosa scena in cui il personaggio interpretato con straordinaria umanità da Ali insegna a Piccolo a nuotare rappresenta un battesimo laico, una sorta di rito in cui l'uomo accetta definitivamente il legame padre-figlio che lo lega al bambino e allo stesso tempo quest'ultimo prende confidenza con la potenza dell'acqua, la sua capacità di rivelare l'io più profondo di un essere umano. In ogni momento di debolezza, in ogni frammento di vita in cui Chiron abbassa le difese e mostra se stesso senza paura, con un senso di pace che difficilmente trova spazio nel suo percorso di esistenza, il regista inserisce uno specchio d'acqua e in primis il mare, luogo dell'epifania con il padre adottivo (così amato da divenire il suo modello da adulto, nonostante sappia della sua indiretta responsabilità nella dipendenza dalle droghe della madre) così come ambientazione dell'unico momento di vero amore provato, dell'unico incontro in cui si sia mai lasciato toccare da un altro uomo. Quello stesso mare inquadrato spesso di notte, al chiaro di luna perché, rischiarati dalla sua luce, i ragazzi neri sembrano blu.

Chiunque si aspetti, leggendo gli sproloqui online di qualche critico della domenica, da Moonlight un lungo sermone su razzismo e omofobia dovrebbe proprio dargli una chance e ricredersi perché il lavoro di Barry Jenkins è racconto di formazione di impressionante lirismo, derivante quasi esclusivamente dalla forza delle immagini e dalle interpretazioni memorabili dei suoi attori, senza dunque tante inutili parole.

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