lunedì 24 settembre 2018

DAYBREAKERS: VAMPIRISMO COME CONTAMINAZIONE

A cavallo tra i primi due decenni del terzo millennio il cinema mainstream subisce una vera invasione di produzioni legate alla figura ormai archetipica del vampiro spesso però portandolo all'esterno del suo classico contesto horror. L'esempio chiaramente più famoso di questa tendenza, probabilmente anche il fautore della stessa, è rappresentato dalla saga iniziata con Twilight (Catherine Hardwicke, 2008), capace di proporre al pubblico una versione del nosferatu adattata ai canoni del teen drama più incline al romanzo rosa. Il successo commerciale del film e dei suoi sequel inevitabilmente mostra la via a registi e sceneggiatori per sfruttare questo tipo di mostro così noto agli spettatori all'interno di contesti nuovi rispetto alla tradizione e tra questi ho deciso di porre la mia attenzione sull'operazione svolta da Michael e Peter Spierig, autori di Daybreakers, da loro scritto oltre che diretto a partire da un soggetto originale del 2004, dunque precedente alla moda menzionata ma sicuramente arrivato in sala nel 2010 sulla spinta di quest'ultima. Il lungometraggio, realizzato con un buon budget, riesce a ottenere un modesto successo al botteghino raccogliendo inoltre recensioni discrete, un risultato non banale in un momento storico nel quale la maggior parte della critica e degli spettatori più esigente avverte una certa saturazione del tema vampiresco.

Ambientata in un futuro apocalittico, la seconda opera dei fratelli australiani vede la popolazione umana completamente sopraffatta da tempo dai vampiri, i quali godono al nostro posto di tutti i comfort che solitamente contrassegnano la nostra contemporaneità. Il protagonista, Edward Dalton (Ethan Hawke), è un ematologo che lavora per una delle maggiori aziende mondiali per la distribuzione di sangue umano e che dunque si trova in prima linea nella lotta alla profonda crisi generata dalla carenza di uomini. A rendere ancora più esplosiva la situazione politica e sociale del sistema creato dai nosferatu è la pericolosissima trasformazione che colpisce inesorabilmente chiunque non riesca a nutrirsi per lunghi periodi e che finisce per renderli esseri tanto feroci quanto privi di raziocinio, delle vere mine vaganti pronte a esplodere senza curarsi delle vittime. Edward lavora, per risolvere il problema, a una sostanza da sostituire al sangue degli esseri umani ma con scarsi risultati fino a quando l'incontro con un gruppo di superstiti della nostra specie non gli aprirà gli occhi su una nuova prospettiva di salvezza per la popolazione mondiale.

La forza delle immagini e la quasi totale assenza di dialoghi dell'incipit mostrano quanto Daybreakers sia debitore di quel cinema di genere personalissimo e metaforico che contraddistingue la filmografia di John Carpenter e dunque ben lontano dal filone inaugurato da Twilight. Proprio come l'autore di Halloween (1976) Michael e Peter Spierig rievocano alcuni topoi dei generi classici per poi mescolarli, abbattere i confini di ciascuno di essi e così rielaborarli per poter raccontare il mondo in cui tutto viviamo attraverso espedienti simbolici. In questo caso la coppia di registi adottano due registri visivi prevalenti per narrare una parabola di superamento di una crisi di risorse, morale ed economica evidentemente affine a quella scoppiata nella nostra realtà nel 2008, aggravandola delle fondate preoccupazioni per come l'Occidente e i paesi economicamente più forti sfruttino la Terra alla stregua di una miniera. Il mondo descritto nel film appartiene e viene dominato dai vampiri, creature fantastiche nate all'interno dei romanzi gotici e sdoganate definitivamente dagli horror della Hollywood classica ma in questo contesto tali esseri vengono mostrati in tutto e per tutto simili ai cittadini delle nostre città e proprio per questo, da un punto di vista formale, gli autori adottano uno stile che rimanda al noir, urbano, spezzato a metà dai fortissimi contrasti chiaroscurali sia negli interni di gelidi uffici che negli esterni notturni che ricordano il cinema di Michael Mann. L'approccio estetico cambia completamente solamente quando Edward incontra Elvis (Willem Dafoe), un meccanico ex vampiro tornato umano dopo aver rischiato di carbonizzarsi al sole. Dal momento in cui il protagonista entra completamente e con fiducia nel microcosmo di umani capitanati da tale "miracolato" le tinte oscure e notturne del film virano verso esterni luminosissimi, una prevalenza di campi lunghi segnati da una quasi esasperata rifrazione della luce sull'obiettivo che invece riporta alla mente il cinema ribelle della New Hollywood, gli esordi di Terrence Malick e quel giovanilismo contrapposto alle rigidità del sistema linguistico oltre che etico della vecchia guardia rappresentata dal cinema classico. L'intera pellicola assume dunque una natura ibrida, contaminata da istanze narrative ed estetiche provenienti da più direzioni, distanti spesso sia concettualmente che cronologicamente, e proprio la contaminazione presente nella forma trova la sua ragione d'essere nella centralità che essa ottiene nel racconto ideato dagli stessi Spierig. Il vampirismo dei fratelli australiani è un vero e proprio morbo, un contagio che colpisce e si diffonde attraverso il morso, la violenza bestiale e il sangue come il misterioso virus che trasforma gli uomini in zombie nelle pellicole di George Romero, contraddistinte non a caso da una forte critica sociale. L'ematologo interpretato con la solita grande umanità da Hawke mostra esplicitamente come lui continui a sentirsi umano anche una volta divenuto una creatura della notte e insiste a più riprese su come il suo scopo ultimo sia quello di trovare una cura alla condizione sua e dei suoi simili, considerandoli dunque persone malate e non superuomini immortali come asserito dallo spietato proprietario delle industrie di produzione di sangue umano con il volto di Sam Neill. La conferma alle ragioni del protagonista arrivano dalla spietata guerra civile che scoppia tra ogni strato sociale della popolazione e soprattutto la condizione di quelli che vengono definiti "subsiders", vampiri trasformati dalla fame in esseri motivati solamente dalla ricerca di nutrimento e giustiziati senza pietà dai non-morti comuni, come in un vero e proprio ridimensionamento degli strati più poveri della popolazione per permettere a quelli più ricchi di poter mantenere intatti i loro standard di vita. Un rischio che la nostra realtà, specie in un paese ancora segnato in profondità dalla crisi economica e da un vuoto sia morale che politico, non può considerare così fantascientifico e del quale i due registi trovano un antidoto semplice solo all'apparenza: la riscoperta dell'umanità insita in ognuno di noi, rimasta fin troppo a lungo sopita in nome di deliri di onnipotenza che non tengono conto dello sfruttamento intensivo e ingiustificato delle risorse del nostro pianeta e persino del prossimo.

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