venerdì 28 giugno 2019

L'UOMO CHE UCCISE DON CHISCIOTTE: CONTINUARE A SOGNARE CONTRO TUTTO E TUTTI

Quasi tutti i cinefili conoscono la vera e propria odissea vissuta dal progetto di Terry Gilliam per realizzare il proprio progetto di adattare per il grande schermo Don Chisciotte della Mancia, romanzo simbolo della letteratura spagnola pubblicato da Miguel de Cervantes in due volumi tra il 1605 e il 1615. Ebbene dopo aver ideato il film nel 1989 e aver girato alcune scene a partire dal 1998, il 2018 ha finalmente portato alla luce L'uomo che uccise Don Chisciotte (The Man Who Killed Don Quijote), seppur con un cast diverso rispetto all'originale e anche moltissime modifiche alla sceneggiatura. Com'era lecito aspettarsi da un'opera attesa da una trentina di anni e divenuta mitica, grazie anche al documentario Lost in La Mancha (Keith Fulton, Louis Pepe, 2002), le aspettative gonfiatesi nel corso dei decenni hanno finito per oscurare in parte il film stesso, accusato di non raggiungere le vette della filmografia di Gillian, ma nonostante ciò gran parte della critica ha accolto con favore l'ultimo lavoro del regista di Brazil (1985).

Protagonista della pellicola è il director di spot pubblicitari Toby Grisoni (Adam Driver), intento da alcune settimane con le riprese di una pubblicità a tema Don Chisciotte. Proprio nel momento di maggiore sconforto verso un lavoro che non lo entusiasma il pur talentoso regista compra da un venditore ambulante gitano (Oscar Jaenada) una copia pirata del suo primo film, L'uomo che uccise Don Chisciotte, girato per la laurea alla scuola di cinema proprio in un paesino dei dintorni con un cast non-professionista. Preso da una vena nostalgica l'uomo abbandona il set per tornare a Los Sueños, dove però viene accolto con risentimento dai pochi abitanti fino a quando non ritrova finalmente il calzolaio (Jonathan Pryce) che aveva interpretato il protagonista del film. Il problema è che questi, ormai impazzito, crede davvero di essere Don Chisciotte e finirà per trascinare Toby in un vortice di situazioni surreali in cui è difficile distinguere la realtà dai vaneggiamenti.

Mai come nel caso di questo L'uomo che uccise Don Chisciotte separare la diegesi dalle situazioni produttive appare non solo impossibile ma anche un ostacolo alla comprensione dell'opera. Basti leggere una breve sunto sulle traversie occorse nel corso di questi circa trent'anni, in primo luogo i continui alterchi tra produttori e regista e il notevole cambio nella sceneggiatura che ha eliminato i viaggi nel tempo, per rendersi conto di come questi avvenimenti accaduti alle spalle della macchina da presa abbiano poi trovato un loro spazio privilegiato proprio nel profilmico, rendendo il confine tra mondo diegetico ed extra realmente labile. Conscio delle enormi difficoltà nell'adattare in un unico lungometraggio il complesso romanzo doppio di Cervantes, Gilliam aveva inizialmente optato per un racconto fantascientifico nel quale un uomo del presente finiva per viaggiare nel tempo fino a incontrare il cavaliere errante ma, in seguito ai continui alterchi legali con le case di produzione, ha modificato gran parte dello script optando per una narrazione in cui realtà e immaginazione si mescolano continuamente, all'interno di una cornice metacinematografica che assume caratteri sempre più marcatamente biografici con il passare del minutaggio. Risulta ben evidente come Toby rappresenti una maschera dello stesso autore, con il suo enorme talento riconosciuto da tutti (talvolta anche solo per sentito dire, come capita con i vari assistenti di produzione che ricalcano le idiozie da cinefilo 2.0 cresciuto a pane e citazioni da Wikipedia) ma finito sprecato in lavori di puro business in cui non vi è la minima traccia dell'estro artistico di inizio carriera, anzi anche i pochi rimandi alle opere passate finiscono per diventare parodie delle stesse. Il personaggio di Adam Driver, proprio come Gilliam, si sente soffocare sotto le imposizioni del mercato e avverte come si stia smarrendo anche la sua più genuina umanità, quella che lo aveva portato a creare un legame speciale sia con il calzolaio che con la giovane Angelica, l'unica donna da lui realmente amata. Ecco dunque che Toby/Terry, proprio nel momento più basso della propria carriera, decide di mettersi contro il mondo intero, il sistema hollywoodiano, le multinazionali che finanziano il cinema a suon di inserti pubblicitari e persino la ragione per poter finalmente realizzare il sogno del film definitivo sul più grande dei sognatori: quell'anziano nobile decaduto impazzito a tal punto dal convincersi di poter diventare uno di quei cavalieri erranti dei romanzi che combattono mostri e stregoni per salvare fanciulle indifese. Chiunque conosca anche parzialmente il profilo personale e artistico del cineasta di Minneapolis sa quanto questi abbia lottato per tutta la vita contro i limiti del sistema industriale della settima arte statunitense, sbattendo la testa e rischiando anche di finire completamente ai margini del cinema, proprio come Don Chisciotte, nel romanzo come nel film, continua a scontrarsi contro creature immaginarie anche a costo di farsi seriamente male, senza però mai arrendersi.

In questa parabola sull'importanza dei sogni certamente l'assetto formale non può che rispecchiare il carattere surreale della sceneggiatura, annullando completamente tutti quegli espedienti visuali che nel cinema classico segnano il passaggio dalla realtà al mondo onirico o alla fantasia in genere. In questo modo il confine tra le due dimensioni finiscono per essere completamente annullate e, anzi, persino le sequenze chiaramente ambientate nella realtà fattuale finiscono per assumere un aspetto perturbante grazie al costante ricorso al grandangolo e a un'illuminazione eccessiva, capace di accecare lo spettatore come un viandante nel deserto alle prese con i tipici miraggi causati dalla sete.

Probabilmente L'uomo che uccise Don Chisciotte non è il capolavoro generazionale che molto si sarebbero aspettati dopo trent'anni di attesa, così come non è un film che fa dell'equilibrio, la compostezza la sua ragion d'essere, eppure la coerenza tra diatribe produttive, biografia dell'autore, narrazione, forma e sostanza, tutto all'insegna dell'importanza del sogno come atto fondativo dell'essere umano, ne fanno un'opera di fascino straordinario e la dichiarazione d'intenti definitiva del cinema secondo Terry Gilliam.

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