domenica 3 marzo 2019

DOGMAN: LA PUMBLEA GIUNGLA CHIAMATA ITALIA

Che Matteo Garrone sia oggi una certezza all'interno del panorama italiano (e non solo) può essere considerato un dato di fatto, sebbene venga regolarmente snobbato dalla critica statunitense in favore di cineasti che possono "vantare" origini ben più esotiche della nostra, ormai, poco affascinante Italia. In Europa, per fortuna, il regista romano gode di una stima ben più in linea con la qualità dei suoi lavori e la dimostrazione si può rintracciare nel grande plauso riservato durante il Festival di Cannes a Dogman (2018), ultima fatica dell'autore de L'imbalsamatore (2002) nonché film che oggi voglio presentarvi.

Ispirata in parte a un sordido episodio di cronaca nera, la pellicola segue la caduta di Marcello (Marcello Fonte), uomo minuto che gestisce un esercizio di toilettatura di cani in una località periferica del Lazio ma che, al contempo, si lascia invischiare in piccoli spacci di cocaina e rapine in villa. Uno dei suoi "clienti, Simone (Edoardo Pesce), in preda a una dipendenza sempre più dannosa, semina il panico tra i commercianti del posto e costringe il protagonista ad assecondare ogni suo piano criminale. Sebbene Marcello abbia una figlia che ama profondamente finisce per lasciarsi invischiare senza possibilità di redenzione nella spirale di violenza di quello che, in modo molto singolare, considera un amico.

All'interno della filmografia è difficile non intravedere alcuni fili che legano prodotti all'apparenza anche molto eterogenei come, ad esempio, Gomorra (2008) e Il racconto dei racconti (Tale of Tales, 2015) ma mi sembra piuttosto evidente come questo Dogman recuperi molti degli elementi fondativi, sia estetici che narrativi, del già citato L'imbalsamatore. La prima e più immediata prova di questo legame così forte risiede nell'ambientazione di periferia degradata messa in scena in entrambi i film, resa ancor più plumbea e fosca da una saturazione dei colori capace di annullare ogni tonalità calda in luogo di una serie di gradazioni di grigio che contrastano con ogni figurazione topica di località tradizionalmente solari quali la provincia napoletana e il lungomare compreso tra Lazio e Campania (anche se è giusto sottolineare come oggi Castel Volturno rappresenti un vero e proprio luogo identitario del neo-noir italiano). All'interno di questo ambiente completamente privato di colore, simbolo di un'umanità che la abita ormai spenta, si muove una coppia di protagonisti costituita da individui quasi opposti per struttura fisica, carattere e condizioni familiari: Simone, un gigante in grado di stendere chiunque con i suoi pugni, e Marcello, basso emaciato e dalla voce ai limiti del cartoonesco, rievocano immediatamente il nano Peppino e il giovane ma aitante Valerio del primo grande successo di Garrone. Nonostante in questo caso sia il più prestante del duo ad attrarre l'altro verso il crimine (o almeno questo è quello che a una prima occhiata appare) anche tra Simone e Marcello si crea un rapporto di ambigua sudditanza del secondo verso il primo che lo porta a compiere scelte apparentemente illogiche, specie considerando la rispettabilità della quale gode e la dolcezza fanciullesca dimostrata a più riprese nei confronti dei cani e della piccola Alida, fino a un sacrificio che assume dimensioni talmente ambigue da rasentare persino un amore malato. Certo nel film in analisi non vi sono tracce di quell'omosessualità che permea l'opera del 2002 ma, al contempo, l'ostinatezza con la quale l'ometto interpretato con grande sensibilità di sguardo da Fonte difende un violento come Simone, guidato solamente dalla dipendenza verso gli stupefacenti, e poi la violenza con cui finisce per reagire al mancato riconoscimento di quest'ultimo per averne preso il posto in galera fanno inevitabilmente pensare a qualcosa che travalica il semplicistico utilitarismo che intossica la periferia italiana attuale, rendendola semmai fosse possibile ancora più torbida.

Garrone in definitiva riesce nella tutt'altro che semplice impresa di aggiornare al 2018 e alla piena maturità raggiunta quelle intuizioni formali e narratologiche che lo avevano portato alla ribalta nazionale agli albori del terzo millennio. Dogman è un film che tramite una bellezza innegabile mostra quanto brutta, sporca e priva di una qualunque legge etica sia oggi una certa realtà del nostro paese, del quale in fondo rappresenta uno specchio capace di rifletterne lo squallore imperante.

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