mercoledì 6 febbraio 2019

CREED II: IL PASSAGGIO DI CONSEGNE DALL'EROE DEL PASSATO A QUELLO DEL PRESENTE

A qualsiasi latitudine vi troviate, qualunque età abbiate e per quanto possiate essere indifferenti al cinema non è possibile che non conosciate Rocky Balboa, quel pugile che, a dispetto di una scolarizzazione elementare, un fascino lontano anni luce da quello di un Cary Grant e una vita intera passata tra i sobborghi di Philadelphia, è diventato un esempio di riscatto sociale, di caparbietà e genuina umanità per il mondo intero attraverso un franchise immediatamente identificabile con il suo interprete (nonché autore di tutte le sceneggiature), Sylvester Stallone. Con l'enorme coraggio che contraddistingue proprio il suo personaggio più noto l'attore di origini italiane decide nel 2015 di rimettersi in gioco con un nuovo tassello dell'epopea di Rocky ma "solamente" nei panni di sceneggiatore, produttore e attore non protagonista in Creed, opera diretta dal talentuoso Ryan Coogler nella quale il pugile più celebre della settima arte, proprio come il suo interprete, conscio della sua età e del tempo che inesorabilmente passa diventa allenatore e mentore di Adonis, vero protagonista della pellicola. Il 2018 (2019 in Italia) segna il ritorno sul ring da parte del giovane boxeur con Creed II, diretto stavolta da Steven Caple Jr. ma capace come il suo predecessore di infiammare ancora una volta i cuori degli spettatori e anche della critica, la quale accoglie il film con un entusiasmo di poco inferiore a quello riservato al prequel.

Il secondo lungometraggio dedicato all'ascesa del giovane Adonis Creed (Michael B. Jordan) vede il protagonista diventare finalmente campione dei pesi massimi grazie agli allenamenti di Rocky (Sylvester Stallone) e alla serenità sentimentale raggiunta con la fidanzata Bianca (Tessa Thompson). Proprio quando il pugile chiede all'amata di sposarlo riceve un notizia che sconvolge: un noto organizzatore di eventi ha preparato una massiccia campagna multimediale per convincerlo ad affrontare in un incontro valido per la cintura di campione Viktor Drago (Florian Monteanu), atleta figlio proprio di quell'Ivan Drago (Dolph Lundgren) che trent'anni prima aveva involontariamente ucciso suo padre Apollo sul ring. Nonostante le perplessità del proprio coach e anche della famiglia, Adonis accetta la sfida che gli cambierà la vita.

A una occhiata superficiale o magari soltanto alla luce dei trailer Creed II potrebbe sembrare un furbo tentativo di lucrare sulla nostalgia dei fan nei confronti di Rocky IV (Sylvester Stallone, 1985), l'episodio forse più conosciuto della saga e al quale il film in analisi si ricollega direttamente a livello diegetico e anche con numerose strizzate d'occhio ma la realtà è che questo nuovo episodio del franchise non chiude solamente il cerchio della rivalità della famiglia allargata costituita da i Balboa e i Creed con Ivan Drago, bensì costituisce un vero e proprio commiato di un eroe e della sua generazione per lasciare spazio al suo successore, al campione del terzo millennio. Con quella sensibilità che gli è propria e che purtroppo è stata spesso ignorata dalla critica Stallone, autore del soggetto e co-sceneggiatore, non si limita a creare una sorta di remake che aggiornasse il canovaccio del suo precedente lungometraggio e invece decide di proseguire quel passaggio di testimone propiziato nel prequel diretto Coogler mettendo ancor più in secondo piano il suo personaggio rispetto alla crescita agonistica e umana di Adonis, ancora alle prese con il peso dell'eredità paterna ma soprattutto con il difficile passaggio da giovane a uomo, da nuova promessa della boxe a campione capace di emozionare il pubblico, da ventenne rabbioso e sarcastico a maturo padre di famiglia. Coadiuvato dall'intensità dello sguardo, della mimica nei primi piani di Michael B. Jordan, lo sceneggiatore tratteggia un eroe capace di unire l'enorme bagaglio etico del suo mentore con le sfide ancora aperte del mondo contemporaneo, tutt'altro che una blanda fotocopia di ciò che è stato e sempre sarà Rocky, il quale con saggezza si defila dal centro della scena per muoversi nei dettagli, sullo sfondo fino però a regalare agli appassionati un saluto finale che potrebbe commuovere anche il cuore di ghiaccio del più intransigente dei critici. La vera grande sorpresa del film viene però, a mio avviso, costituita dalla regia del quasi esordiente Steven Caple Jr.: il giovane cineasta afroamericano dimostra una dose non banale di personalità nel mettere in secondo piano le sequenze di lotta rispetto all'esplorazione dei drammi interiori dei personaggi, nel cambiare radicalmente registro formale rispetto a Coogler e soprattutto un lirismo da veterano nel tratteggiare due personaggi nuovi a tutti gli effetti quali Ivan e Viktor Drago. Nel già citato quarto episodio della saga inaugurata nel 1976 da John G. Avildsen il possente pugile russo era un vero e proprio flat character, ossia un personaggio monodimensionale, utilizzato per lo più come simbolo di quella guerra fredda improvvisamente ritornata in auge durante la presidenza Reagan. L'autore di The Land (2016) al contrario riesce tramite la forza delle immagini a scavalcare persino la sceneggiatura ricevuta pur di donare delle psicologie vere, palpabili a questa coppia padre-figlio nella quale la comunicazione pare affidata solamente ai silenzi e agli estenuanti allenamenti, in un clima emotivo dominato dalla vergogna per la sconfitta e il senso di abbandono dovuto all'assenza di Ludmilla, ex moglie di Ivan e madre di Viktor. Con una mossa piuttosto imprevedibile la pellicola non si apre con il trionfo di Adonis, bensì con una sequenza completamente o quasi priva di dialoghi nella quale la macchina da presa segue alle spalle gli allenamenti del talentuoso pugile ucraino fino a illustrare in pochi minuti tutto il desiderio di riscatto e il dolore che lega i due "villain". Caple Jr. dunque realizza un ribaltamento dei ruoli ottenuto solamente attraverso la forza delle immagini cinematografiche; senza bisogno di parole trasforma Ivan e suo figlio nel duo genitore-figlio/maestro-allievo in cerca di redenzione che in Creed era costituito proprio dal personaggio di Michael B. Jordan e Rocky.
Evidentemente questa era la ventata di giovinezza voluta da Stallone al momento di affidare la regia a un autore praticamente coetaneo di Adonis, una scommessa vinta e stravinta dal cineasta sotto ogni punto di vista, come testimoniano il virtuoso piano sequenza che introduce nel film Balboa o il ritmo selvaggio con cui si alternano riprese in spalla a soggettive frontali durante gli incontri di pugilato.

Creed II è insomma una pellicola che colpisce forte e in pieno petto ogni fan dell'epopea di Rocky ma soprattutto un'opera girata con cuore e notevole abilità formali. Due presupposti indispensabili per l'ascensione alla dimensione mitica di quello che non è più solamente il figlio di Apollo Creed.

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