martedì 12 febbraio 2019

IL PRIMO RE: EPICA PRIMIGENIA MADE IN ITALY

All'interno di quello che pare essere un vero rinascimento qualitativo e produttivo per il cinema di genere italiano un nome da tenere bene a mente è quello di Matteo Rovere, capace di adattare a un contesto geografico e sociale tipicamente nostrano un filone tipicamente statunitense come quello del film sportivo con il fortunato Veloce come il vento (2016). Quest'anno il cineasta romano cerca la definitiva consacrazione, anche a livello commerciale, con un prodotto ispirato a un modello non solo totalmente assente all'interno del panorama italiano (un lontano parente potrebbe essere considerato il nostro peplum ma ci troviamo su lidi veramente distanti) ma raro persino a Hollywood e nel resto dell'Europa: mi riferisco a pellicole quali Apocalypto di Mel Gibson (2006), IZO di Takashi Miike (2004) o l'ancora più recente Revenant - Redivivo (The Revenant, Alejandro Gonzalez Iñarritu, 2015) che affrontano storie in bilico tra mito e storia attraverso un registro formale rigoroso e tendente a un realismo ben lontano dalle spettacolarizzazioni tipiche dei classici kolossal mitologici. Il primo re, questo il titolo del lungometraggio in analisi, non nasconde le influenze da tali opere per poi seguire una propria strada, la quale finora sembra che si stia rivelando vincente, date le recensioni lusinghiere di gran parte della critica e soprattutto il gradimento di una fetta molto estesa del pubblico. Un risultato non così scontato.

Come intuibile dal titolo e dai trailer il film si basa sulla leggendaria fondazione della città di Roma nel 753 a.C. soffermandosi in particolare sulle figure dei gemelli Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi). I due, semplici pastori del Lazio, in seguito alla fuoriuscita del Tevere dal proprio letto vengono catturati dai soldati della potente città di Alba Longa e resi schiavi insieme a molti altri sfortunati. Durante un violento rito religioso la coppia riesce a liberarsi e contemporaneamente a scatenare una rivolta dei prigionieri, con i quali fuggono portando con sé anche la vestale Satnei. La fuga è rallentata dalla ferita che sembra portare a una lenta ma inesorabile agonia Romolo e dai dissidi nel gruppo ma grazie al suo carisma e ad alcune imprese ai limiti dell'umano Remo riesce a compattarli fino a renderli una sorta di piccolo esercito, fedele al proprio nuovo re. Tutto cambia con la miracolosa guarigione del gemello ferito.

Fin dai primi annunci l'aspetto che ha catalizzato l'attenzione di giornalisti e appassionati è stato il ricorso per l'intera durata della pellicola a un idioma arcaico, un protolatino che, secondo le ricostruzioni di linguisti e filologi corrisponderebbe proprio alla lingua parlata intorno alla foce del Tevere prima della fondazione di Roma. Una scelta che non può non ricordare il già citato Apocalypto o il precedente La passione di Cristo (The Passion of Christ, Mel Gibson, 2004), così come i lunghi silenzi e il ricorso costante a un'illuminazione naturale portano immediatamente il ricordo di ogni cinefilo alla cinematografia di Terrence Malick, mentre il calvario prolungato per buona parte del lungometraggio di Romolo può essere accostato a quello di Hugh Glass in Revenant. Come già sottolineato precedentemente sono innegabili le ispirazioni di respiro internazionale alle quali Rovere attinge e con molta onestà intellettuale quest'ultimo non fa niente per celarle ma considerare Il primo re una semplice operazione di appropriazione di un genere esotico sarebbe completamente fuorviante. Laddove spesso i suoi epigoni stranieri si perdevano in alcuni casi attraverso estetizzazioni estreme della brutalità insita nell'uomo o in divagazioni tra l'esoterico e l'onirico l'autore italiano asseconda, con grande sensibilità e conoscenza del materiale narrativo di base, l'essenza primigenia del racconto mitico plasmando un mondo selvaggio, difficilmente identificabile con l'attuale Lazio, in cui a dominare sono la violenza istintuale e soprattutto superstizione, pietas, l'assoggettarsi timoroso dinanzi al potere divino. Non che appaiano durante il film dei o semidei, come nei classici interpretati da Kirk Douglas, ma quello che la macchina da presa rende palpabile, tangibile è proprio la reverenza dell'uomo nei confronti di forze che percepisce come superiori a sé e che individua in manifestazioni naturali per noi piuttosto comuni come un'inondazione, una folta foresta o il fuoco, quest'ultimo assorto a vero e proprio personaggio principale insieme ai gemelli allattati dalla lupa. Sarebbe impossibile analizzare l'opera in essere senza indugiare su Romolo e Remo, motori dell'intera vicenda e resi dalla sceneggiatura personaggi tutt'altro che unilaterali. In particolare è il rapporto fraterno che li lega, fatto di sangue ma soprattutto di amore e abnegazione instancabile dell'uno verso l'altro, a muovere l'intero film e a conquistare dal punto di vista emotivo. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare a scatola chiusa inizialmente l'eroe, il guerriero carismatico risulta essere Remo, il fratello destinato alla sconfitta eppure nonostante ciò mostrato in un mix di fierezza e sincero affetto per il gemello di grande caratura umana, la stessa che lo porterà verso la fine a macchiarsi di hybris scatenando l'inevitabile castigo divino. Romolo, al contrario, appare il più debole dei due fin dalla debordante sequenza iniziale e successivamente resta in vita solamente grazie alle premure del fratello ma nonostante ciò, grazie a poche linee di dialogo e gesti essenziali, Rovere riesce a tratteggiare e rendere evidente allo spettatore proprio quella pietas che lo rende il vero prescelto per dare vita al più grande impero che l'Europa abbia conosciuto. Una città, una repubblica e un impero nati, come sottolinea lo stesso re nel suo discorso finale, non da un'euforica azione fondativa, bensì da radici che affondano nel dolore di un ragazzo, nel senso di colpa per aver ucciso l'amato gemello, una meta di sé che tornerà a tormentarne la stirpe per sempre.

Il primo re si chiude dunque con una consapevolezza della perdita dell'innocenza e dell'ineluttabilità del dolore che rendono evidente una volta per tutte quanto questo film debba alla tradizione tragica e mitologica alla base della cultura italiana e occidentale, perché il mito è fatto di uomini alle prese con la sofferente consapevolezza di non poter nulla contro il fato e anche i tanto vituperati da certa critica fiotti di sangue e colpi sferrati in ralenti sono parte della tradizione mitica.

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