venerdì 6 settembre 2024

TRAP: SHYAMALAN CI RICORDA L'IMPORTANZA DELLA FORMA

Negli ultimi anni si è diffuso tra gli appassionati di cinema un certo malcontento nei confronti dell'offerta proveniente dagli Stati Uniti, accusata di adagiarsi su una mediocritas tutt'altro che aurea e una mancanza di idee che si manifesta in una lunga serie di remake, reboot, sequel, requel ecc. Quanto è singolare che in questo panorama tra i registi che più dividono vi sia M. Night Shyamalan, che nonostante una carriera ormai quasi trentennale ha sfornato solamente due sequel e porta avanti una visione filmica estremamente personale e riconoscibile. Il 2024 vede il suo ritorno alla regia con Trap, che potendo contare su un budget di medio livello può dirsi un successo commerciale ma spacca nettamente i pareri, sia degli spettatori comuni, sia della critica.


Il film vede Cooper (Josh Hartnett), pompiere e padre come tanti altri, accompagnare la figlia Riley (Ariel Donoghue) all'attesissimo concerto di Lady Raven (Saleka Shyamalan). Quello che scopre dopo una manciata di canzoni è che l'evento nasconde una trappola ordita dall'FBI per catturare il macellaio, un serial killer colpevole di più di dieci omicidi e che si cela proprio dietro il volto del protagonista.


Trap fin dal titolo mette in chiaro la connivenza tra due generi raramente accostati: il thriller di matrice hitchcockiana e il musical, in cui il commento sonoro assume la stessa importanza narrativa di quello che nel lessico operistico si definisce recitativo. Per questo motivo Shyamalan, che fin dai tempi de Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) aveva abbracciato la riflessione sulle possibilità dello sguardo attraverso l'uso della macchina da presa, pone una doppia sfida al pubblico, ovvero in prima istanza quella di identificarsi in piena consapevolezza con un assassino, successivamente con le figure femminili che tentano di fermarlo, tra cui una popstar. In passato già era accaduto che dei registi sfruttassero la grammatica filmica, come l'insistenza sui primi piani ad esempio, per connettere emotivamente lo spettatore con un personaggio razionalmente e moralmente ripugnante (si pensi ad Hannibal Lecter sia sul grande che sul piccolo schermo) ma l'autore di origini indiane mette alla prova l'efficacia di tali strumenti e la capacità di chi osserva di scindere tra ragione e sentimento, cervello e stomaco, esattamente come Cooper, che in una sequenza a casa sua afferma apertamente di vivere un volontario sdoppiamento tra la vita domestica e pubblica e quella del macellaio, grazie a cui riesce a mantenere un irreale equilibrio tra istinti omicidi e rispettabilità, oltre a un profondo amore verso i figli espresso fino all'ultimo. Per chi si trova dall'altra parte della quarta parete aderire al punto di vista dell'uomo significa anche sperimentare questa dialettica interiore tipica degli assassini sociopatici, una deriva estrema di un fenomeno di dissipazione dell'empatia da cui è affetta l'intera nostra contemporaneità, come diventa evidente a più riprese nella pellicola: dai commenti totalmente fuori luogo dei fan alla live sui social in cui Lady Raven chiede aiuto perché qualcuno liberi il ragazzo imprigionato da Cooper fino all'ossessione dell'addetto al merchandising per il serial killer e le sue imprese, visto alla stregua di un eroe.

La stesso distanziamento empatico vissuto tra le diverse generazioni che assistono al concerto. Un evento che, oltre a citare altri maestri della suspense ripresa in diretta come il già citato Hitchcock ma anche Brian De Palma, viene girato con il linguaggio proprio della musica dal vivo e così evidenzia la totale mancanza di sintonia e, conseguentemente, la divergenza di sguardo tra le adolescenti che vivono con sincera partecipazione il live e i genitori che le accompagnano, chiaramente distaccati emotivamente e intellettualmente da ciò che li circonda. L'insistenza della cinepresa su una moltitudine di schermi però ricontestualizza l'amato split-screen dell'autore di Omicidio in diretta (Snake Eyes, Brian De Palma, 1998) per denunciare la distanza che si crea anche tra le fan e il loro idolo, di cui non riescono realmente a percepire la dimensione umana e pertanto istintivamente posizionano costantemente un filtro tra di essi, lo stesso peraltro a cui spesso ricorrono per dare un senso maggiormente comprensibile a un reale la cui percezione viene sempre più ovattata da chi vorrebbe proteggerli nei riguardi del male che il mondo nasconde. Esattamente ciò che fa Cooper per Riley, con la sola differenza che in questo caso è il mostro dentro di sé la minaccia.


Tutto questo e molto altro in Trap non si evince attraverso interminabili conversazioni o monologhi stantii, bensì grazie a ogni singolo movimento di macchina, stacco di montaggio, sovrapposizione visivo-sonoro che Shyamalan mette in scena, ricordandoci che il cinema, come tutte le arti, è soprattutto una questione di forma espressiva e di abilità nel manipolare l'occhio del fruitore. Se non riusciamo ad apprezzare un affabulatore in grado di riportarci al senso più profondo e primigenio della rappresentazione di sé forse dovremmo interrogarci almeno quanto Cooper.

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