domenica 16 aprile 2017

POWER RANGERS: UNA LEZIONE SUL TERMINE REBOOT

Probabilmente la stragrande maggioranza dei ragazzi nati nel terzo millennio ne ignorano l'esistenza o quasi, eppure per chiunque (sottoscritto compreso) sia nato tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90 Power Rangers è sinonimo di infanzia o pre-adolescenza. Un fenomeno nato grazie a una serie tv prodotta dalla Saban Enterteinment nel 1993 che rileggeva in chiave occidentale una precedente serial giapponese chiamato Himitsu Sentai Goranger (1975-1977). Tentando di sfruttare il momento estremamente redditizio di cinecomics e rivisitazioni di cult della cultura pop di qualche decennio fa ecco che nel 2017 arriva nelle sale Saban's Power Rangers, reboot della prima stagione delle avventure televisive dei cinque guerrieri dai diversi colori diretta da Dean Israelite (Project Almanac, 2015). La pellicola è stata accolta da recensioni piuttosto mediocri da parte della critica, specie quella statunitense, mentre i vecchi fan ne hanno apprezzato il mix tra innovazione e strizzate d'occhio al passato. Scopriamo dunque se, come spesso capita, la verità non si trovi a  metà tra questi due estremi.

Protagonisti dell'omonimo film sono appunto i cinque power rangers, studenti delle superiori completamente diversi tra loro che si trovano loro malgrado a dover cooperare nel momento in cui acquisiscono dei poteri sovrumani grazie a delle monete aliene rinvenute nella cava della loro città, Angel Grove. Il gruppo, inizialmente tutt'altro che affiatato, è formato da: Jason, un promettente talento del football che ha distrutto la carriera per una bravata, Billy, un ragazzo di colore affetto da lieve autismo, Kimberly, ex cheerleader rifiutata dalle compagne per aver diffuso loro foto compromettenti, Zack, giovane di origini asiatiche che non va mai a scuola per poter curare la madre malata, e infine Trini, appena trasferitasi in città e restia ad aprirsi con gli altri. Una volta ricevuti i poteri scoprono che le monete provengono da un'astronave nella quale vivono il robot Alpha 5 e Zordon (Bryan Cranston), il vecchio leader dei rangers adesso intrappolato in una dimensione dalla quale può comunicare soltanto attraverso una parete. L'ex red ranger informa i ragazzi dell'imminente pericolo che corre il pianeta a causa della malvagia Rita Repulsa (Elizabeth Banks), ex ranger del gruppo del padrone della navicella. Soltanto il nuovo gruppo di eroi può salvare la Terra ma per farlo deve riuscire a far materializzare le armature, cosa impossibile senza una connessione emotiva tra i cinque.

Fin dal sequenza di apertura appaiono chiare le intenzioni del regista della pellicola, ossia restare fedele all'ossatura del materiale d'origine potendo però rendere maggiormente adulta e al passo con i tempi tutto il resto e, anche in virtù di tali scelte narrative, applicare uno stile visivo molto personale. L'introduzione di un passato capace di fare luce circa il rapporto tra Zordon, il nostro pianeta,i power rangers e Rita rende dei personaggi a tutto tondo quelli che nella serie televisiva erano soltanto maschere, un processo che diventa ancora più potente e riuscito nel caso dei giovani protagonisti. Ognuno di essi possiede all'interno dello svolgimento lo spazio necessario a tratteggiarne un profilo quanto meno sufficientemente credibile , soprattutto dal momento in cui questi si presentano come figure tutt'altro che tipicamente eroiche o vincenti, quanto piuttosto dei veri e propri loser (utilizzando un termine molto attuale) chiusi ognuno nel proprio personale mondo fatto di sconfitte. Mai in precedenza nel mondo dei blockbuster avevamo visto persone affette da autismo o una cheerleader alle prese con il peso di essersi resa conto di cosa comporti agire da bullo; persino il leader, Jason, scombina il topos del campione sportivo mostrandone la solitudine e il senso di oppressione causato dagli sguardi inquisitori di una città intera. Tirando le somme dei piani narrativi si può dire che lo sceneggiatore John Gatins abbia amalgamato con ottima abilità artigianale la perfetta struttura da origin story di Batman Begins (Christopher Nolan, 2005) e la lunga tradizione di teen dramas americani, ponendo al centro del lungometraggio il tema dell'amicizia e del passaggio dall'adolescenza alla maturità, come testimoniano sagacemente le citazioni di Stand by Me (Rob Reiner, 1986) e The Goonies (Richard Donner, 1985). Tutto senza rinunciare mai a un'ironia cinefila che mette in ridicolo molti luoghi comuni del cinema mainstream (si pensi alla sequenza in cui tutto lascia presagire che la tanto agognata trasformazione stia per avvenire per poi invece risolversi in un fallimento).

Ancora più sorprendente a mio parere è il lavoro svolto sul lato estetico da parte del giovane cineasta sudafricano. Anziché adagiarsi su una aurea mediocritas tipica delle pellicola d'azione ad alto budget tipica degli ultimi anni dimostra fin dall'incipit una notevole perizia con un lungo piano sequenza, tecnica ripresa pochi minuti dopo in quella che forse è la scena più virtuosa dell'intero film: l'incidente d'auto che mette fine alla carriera sportiva del red ranger viene ripresa con un long take estremamente mobile, soprattutto con dei movimenti a 360 gradi, che ricrea con potenza straordinaria la sensazione di trovarsi all'interno del veicolo al momento della folle corsa e dello schianto. In seguito, per tutta la durata della pellicola o quasi, Israelite opta per inquadrature più brevi ma spesso con la camera a mano posizionata in basso rispetto ai personaggi, quasi come a voler avvicinare il suo prodotto ai reportage di guerra, dove ciò che trionfa non è la spettacolarità della violenza, bensì l'umanità di chi ne è investito.
Arrivato al momento di tirare le somme ritengo Saban's Power Rangers, al netto dei propri difetti di gioventù, uno dei pochi reboot degni di tale termine, poiché aggiorna realmente alla contemporaneità un cult del passato, senza cercare facili escamotage ma con la consapevolezza del mondo presente e soprattutto con un senso dell'arte cinematografica ben chiaro.

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