sabato 28 dicembre 2019

DOMINO: LESA MAESTÀ AI TEMPI DEL POST-CINEMA

Quanto meno per chi ha superato i trent'anni Brian De Palma è sinonimo di cinema, persino per coloro che non vivono con profonda passione il mondo della settima arte. Uno dei pochi autori esplosi durante la New Hollywood ad aver girato grandi successi anche negli anni Ottanta e Novanta, seppur con alcune debacle. Oggi, nell'epoca di quello che molti chiamano post-cinema, nell'epoca dello streaming e della serialità televisiva applicata anche al grande schermo, la parabola dell'autore di Blow Out (1981) è in caduta libera; le sue ultime produzioni si situano ben distanti dai grandi budget hollywoodiani di un tempo e molti ragazzi pensano al massimo che sia un parente di un rapper nostrano. Non sorprende dunque che la sua ultima fatica , Domino (2019), sia una co-produzione europea in cui il cineasta statunitense non ha potuto avere il minimo controllo sul montaggio, portandolo per la prima volta a disconoscere pubblicamente una sua creatura. L'aneddotica è piena di casi in cui un regista, a causa dei problemi riscontrati sul set, finisce per rinnegare una propria opera e raramente la ricezione di questo tipo di lavori si rivela positiva. Questo caso in particolare non fa eccezione: stroncato dalla critica, snobbato dal pubblico ma è davvero così terribile Domino? Possibile che non vi sia alcuna traccia della maestria depalmiana al suo interno? Scopriamolo.

Ambientato prevalentemente in Danimarca, il film vede al suo cuore la caccia a una cellula dell'Isis scatenata dall'omicidio del poliziotto Lars Hansen (Soren Malling), avvenuto durante il tentativo di arresto del sospettato di omicidio Ezra Tarzi (Eriq Ebouaney). Le circostanze che hanno portato alla morte dell'uomo fanno sì che il suo partner e amico, l'agente Christian Toft (Nikolaj Coster-Waldau), si senta responsabile e che di conseguenza dia inizio a una caccia all'uomo in giro per l'Europa, durante la quale, accompagnato della collega Alex (Carice van Houten), verranno a galla intrighi di potere e verità scomode che riguardano anche la vita privata del defunto Lars.

Elimino subito ogni dubbio sulla prima domanda che sorge spontanea conoscendo le vicissitudini della produzione di Domino: gli effetti dei dissidi si sentono eccome, in particolare per la durata esigua della pellicola che porta ad avere un finale davvero sbrigativo e poco epico subito dopo una sequenza di eccezionale dilatazione temporale, sulla quale poi tornerò a soffermarmi. Senza utilizzare troppi giri di parole si avverte eccome il problema legato al montaggio, specialmente se si rapporta il film a quel Mission: Impossible (1996) con cui condivide molti elementi narrativi ed estetici, eppure, tornando alle domande poste in precedenza, la mano di De Palma emerge anche in mezzo alle sterpaglie appena descritte.
Esplorando la pellicola innanzitutto sul versante squisitamente formale i vezzi, le inquadrature e i movimenti di macchina che hanno dato vita alla fama di virtuoso dell'autore di Scarface (1983) sono ben presenti anche nel lungometraggio in analisi, basti pensare ai celebri split-screen e alla già menzionata sequenza pre-finale ambientata in Spagna. Quest'ultima, in particolare, rappresenta una vera e propria lezione su come creare la hitchcockiana suspense utilizzando i principi cardine della settima arte, immagini, montaggio e colonna musica. Attraverso un sapiente ricorso al montaggio alternato, i cui raccordi vengono rafforzati dalla sinergia perfezionata in anni di collaborazione con l'accompagnamento musicale di Pino Donaggio, il regista trasforma pochi minuti di contemporanea caccia ai terroristi da parte di Christian e Alex in una lunghissima e tesissima immersione subacquea in cui il fiato dello spettatore viene portato al limite estremo. Una di quelle sequenze che valgono il film, come si suole dire. A questo momento di suspense estrema si aggiungono numerose altre tracce del cinema depalmiano, come altri dei suoi tipici omaggi ad Alfred Hitchcock (si pensi alla scena dello scontro sui tetti tra il protagonista ed Ezra, ricca di rimandi a Vertigo, girato dal Maestro nel 1958) e soprattutto la moltiplicazione degli schermi, ottenuta sia tramite split-screen che attraverso le riprese in profilmico di strumenti di cattura dell'immagine tipici della contemporaneità quali videocamere a circuito chiuso, camere digitali e webcam.
A proposito di questa presenza ricorrente, ossessiva, di strumenti di ripresa, volendo passare dal piano estetico a quello poetico, il cinema nel cinema e il tema carissimo all'ultimo De Palma dell'onnipresenza di un voyeristico sguardo che controlla la vita di ogni singolo individuo tramite le apparecchiature digitali tornano prepotentemente all'interno della sua ultima pellicola. Proprio come in Blow Out, Femme Fatale (2002) e Passion (2012) omicidi in quanto espressione di esplosioni di crudeltà vengono sempre registrati attraverso supporti tecnologici tipici della settima arte, portando alla luce l'ambiguità etica delle motivazioni che rendono così affascinanti tali strumentazioni e, in particolare, la possibilità dell'occhio (o dell'udito) di dare vita a una versione aliena della realtà. Un mondo altro incorniciato all'interno dei limiti orizzontali e verticali dell'obbiettivo di una videocamera montata sul mitra di una terrorista, per esempio, che si tramuta così in un'arma che terrorizza persino più del mitra stesso. De Palma, autore non a caso di tanto cinema horror e thriller, conosce bene la potenza delle immagini sullo spettatore e per questo utilizza nuovamente la ripresa all'interno della ripresa per intensificare il disagio e l'orrore del pubblico nei confronti delle spietate azioni degli uomini dell'Isis, a loro volta ben consci di questi meccanismi che sfruttano ogni volta che riprendo e pubblicano online i video in cui decapitano una delle loro vittime. Torna dunque a farsi elemento cardine della riflessione del cineasta di origini italiane quel connubio formato da cinema nel cinema, strumenti di ripresa con forte connotazione realistica e umana crudeltà che avevano reso Redacted (2007) uno dei film più importanti del post-11 settembre e in generale della contemporaneità. 

Purtroppo i tanti tagli non gestiti in prima persona da De Palma, così come la recitazione spesso approssimativa dei protagonisti, impediscono a Domino di ergersi tra i migliori frutti di una filmografia straordinaria, ciononostante alle domande da me poste a inizio articolo rispondo così: ci troviamo dinanzi a una pellicola capace di appassionare, ricca di spunti formali e tematici tipici del suo regista e girata come raramente accade all'interno dell'attuale panorama action-thriller. Certamente i rimpianti per quello che sarebbe potuto essere restano, così come l'amarezza per come possa cadere nell'oblio uno dei maestri del cinema mondiale ancora in vita. Un reato di lesa maestà che evidenzia quanto questa realtà odierna consumi in fretta qualsiasi cosa, persino uomini e artisti.

giovedì 19 dicembre 2019

STAR WARS - L'ASCESA DI SKYWALKER: L'EPILOGO DELLA SAGA FAMILIARE DA UNA GALASSIA LONTANA LONTANA

Non servono certamente introduzioni a Star Wars, la saga cinematografica per antonomasia senza la quale la Hollywood attuale forse neanche esisterebbe. Per tutti i milioni di fan sparsi per il mondo il 2019 rappresenta un anno epocale, iniziato con il primo serial televisivo (anche se trasmesso in streaming) dedicato al franchise e concluso con l'uscito dell'attesissimo Star Wars - L'ascesa di Skywalker (Star Wars: The Rise of Skywalker), nono episodio e ultimo dedicato alle vicende della stirpe di Anakin e Luke, diretto dal mago della serialità J.J. Abrams. Arrivato nelle sale solamente ieri, il film pare non aver convinto appieno la critica ma la risposta del pubblico potrebbe essere diametralmente opposta, come era accaduto con il precedente Gli ultimi Jedi (The Last Jedi, Rian Johnson, 2017), amato dai recensori ma odiato da una larghissima fetta di fandom.

Per evitare qualunque spiacevole spoiler mi limito a dire, a proposito della trama, che questa volta i ribelli guidati da Leia (Carrie Fisher) dovranno vedersela non solo con il Primo ordine guidato da Kylo Ren (Adam Driver) ma anche con il redivivo Palpatine (Ian McDiarmid), intenzionato a mettere fine una volta per tutte ai Jedi e dunque a mettere le mani su Rey (Daisy Ridley). La giovane può ancora contare sull'aiuto di Finn (John Boyega), Poe (Oscar Isaac), Chewbecca e i droidi BB8 e C3PO (Anthony Daniels) ma i dubbi sul proprio passato ne minano il cammino verso la padronanza del lato chiaro della Forza e la vittoria della Resistenza.

Chiuso (purtroppo per me) il capitolo Johnson all'interno della trilogia definita "sequel" The Rise of Skywalker riprende molti degli elementi cardine del settimo episodio della saga, il primo diretto da J.J. Abrams, riuscendo al contempo nell'improbo compito di chiudere le vicende dei personaggi creati da George Lucas inserendo all'interno della propria visione del franchise anche le intuizioni e le svolte narrative viste nell'ottavo episodio. Sebbene molti fan e persino qualche critico abbiano visto in questo capitolo finale una sorta di azzeramento di quanto visto in Gli ultimi Jedi, con l'intenzione di recuperare i favori della comunità di appassionati, in realtà l'autore di Super 8 (2011) opera per sottrazione dal suddetto prequel solamente per quanto concerne la critica sociale innescata dal viaggio su Cantonica, abbracciando invece svolte del racconto come il legame che travalica spazio e tempo formatosi tra Rey e Kylo o lo spodestamento dal ruolo di villain principale di Snoke (Andy Serkis). Persino molte tematiche care a Johnson, quale per esempio la natura della Forza come energia panica alla quale chiunque può essere sensibile, a prescindere dai legami di sangue, rientrano prepotentemente in questa pellicola entrando in sinergia con i temi più cari ad Abrams, sottolineando dunque la rara capacità narrativa di quest'ultimo. Certamente alcune scelte e le modalità con cui viene reintrodotto Palpatine possono lasciare delle perplessità ma chiunque conosca la saga sa che non ci sarebbe potuto essere un finale per le peripezie degli Skywalker senza il meneur de geste dell'intera saga e anche il tanto vituperato velo nostalgico che aveva già ammantato Il risveglio della Forza (Star Wars: The Force Awakens, 2015) trova la sua ragion d'essere in un film che non conclude solamente una trilogia, bensì un ciclo narrativo, un'epopea mitica che ha segnato generazioni intere e la storia della settima arte. In quest'ottica dunque anche i momenti di puro fan service assumono un significato extradiegetico di commiato, di ultimo saluto per degli eroi che, dopo aver detto praticamente tutto ciò che avevano, non possono far altro che congedarsi dal pubblico che li ha amati e continuerà ad amarli per decenni.
Proprio a proposito del tema del saluto ultimo, della morte, sia essa fisica o solamente cinematografica, è innegabile come sul lungometraggio aleggi, in maniera costante, un'aura funerea, oscura e fantasmatica. Tutto il film è scandito dall'apparizione di spettri, di figure a cavallo tra la dimensione terrena e quella dell'oltretomba, a cominciare, ovviamente, dalla Leia di Carrie Fisher, morta prima di poter completare le riprese e dunque ulteriore ponte tra la diegesi e la realtà extradiegetica. Proseguono in questo solco fantasmatico le apparizioni di storici personaggi già dipartiti o creduti tali, di altri pronti a dire addio ai fan dopo ben tre trilogie (si pensi a Chewbe o R2D2) e la costante sensazione di deja vu che lega i nuovi protagonisti della saga a quelli ideati da Lucas. Persino location e scenografie confermano l'aura funerea appena descritta, come dimostra l'affascinante pianeta dei Sith che ricorda, oltre al luogo dello scontro tra Ahsoka Tano e il suo vecchio maestro in Star Wars Rebels (Simon Kimberg, Dave Filoni, 2014-2018), gli interni lugubri del cinema gotico caro alla Hammer, a sua volta già legato al franchise di Star Wars dalla presenza dell'ex Dracula Christopher Lee.

Quasi superfluo risulta sottolineare la grandiosità della colonna musica di John Williams, che recupera gran parte dei temi utilizzati nel corso di tutta la saga per attenersi al clima da saluto finale allo stesso, così come il lavoro eccezionale agli effetti speciali, digitali ma anche artigianali, della Industrial Lights & Magic, capace di sopperire anche a quella che forse è l'unica vera mancanza di questa pellicola: una certa personalità nella messinscena rispetto ai due capitoli precedenti. La mano di Abrams, evidente in Il risveglio della Forza, risulta quasi invisibile in questo caso, quasi come la produzione gli avesse imposto una trasparenza di matrice classica atta a uniformare il film alla forma standardizzata dai blockbuster Marvel (tra le rare eccezioni spicca il piano sequenza che segue Poe Dameron tra le strade notturne di Kijimi).
Tutto ciò mi porta, infine, a poter dire che L'ascesa di Skywalker rappresenta una chiusura del cerchio davvero di ottima fattura, capace di abbracciare con sagacia e sincero affetto per la saga tutto ciò che questa ha saputo offrire agli spettatori per decenni. Quasi sicuramente non l'apice dei nove episodi ma un commiato che riporta a galla quella fascinazione tra il mito e la fiaba, la fantascienza e il fantasy, tecnologia e misticismo che ha reso Star Wars l'epica di cui un Occidente alla costante ricerca di eroi continua ad avere bisogno.

martedì 17 dicembre 2019

PARASITE: BRUTTI, SPORCHI E UMANI

Fin dagli albori di questo terzo millennio il cinema sudcoreano ha dimostrato una vitalità inedita per il paese, capace di alternare e ibridare produzioni d'autore e di genere in grado di mettere all'angolo i blockbuster statunitensi all'interno del mercato autoctono e di esportare nel resto del mondo figure registiche sempre più rispettate. Tra i nomi più noti fuori dai confini del paese asiatico vi è sicuramente quello di Bong Joon-ho, del quale non si possono non ricordare in tal senso anche le produzioni occidentali ad alto budget come Snowpiercer (2013) e Okja (2017), con quest'ultimo al centro di una lunga sequela di polemiche legate alla sua candidatura alla Palma d'oro pur essendo una produzione Netflix, non destinata dunque alla distribuzione in sala. Dopo due anni dalla suddetta pellicola il cineasta coreano è tornato a lavorare nel paese natio dirigendo Parasite, a oggi il suo miglior exploit al botteghino in carriera e primo film sudcoreano ad aggiudicarsi il più importante riconoscimento del Festival di Cannes.

Centro della (atipica) narrazione è la famiglia di Kim Ki-woo (Choi Woo-shik), giovane dotato di intelligenza e buona preparazione culturale che però non gli hanno permesso di superare i test dell'università. Insieme al padre Kim Ki-taek (Song Kang-ho), la madre Kim Chung-sook e la sorella Kim Ki-jeong (Park So-dam) vive in un trasandato seminterrato mantenendosi con piccoli lavoretti occasionali mal retribuiti. La possibile svolta a una situazione familiare di grande difficoltà viene offerta inaspettatamente da Min-hyuk (Park Seo-joon), amico fraterno di Kim Ki-woo benestante che propone al ragazzo di prendere il suo posto come insegnante privato di inglese per una ragazza di ottima famiglia. Utilizzando tutto il proprio estro creativo e quello dei propri familiari il protagonista tenterà di sfruttare l'ingenuità di Park Dong-ik (Lee Sun-kyun) e di sua moglie Park Yeon-gyo (Cho Yeo-jeong) per permettere a tutta la famiglia di essere assunti dai suoi ricchissimi datori di lavoro, senza però svelare il legame di parentela che lega ciascuno di loro.

Come accaduto già in gran parte delle sue opere precedenti anche con Parasite Bong Joon-ho lavora, con intelligenza e astuzia, mescolando i generi classici, fino a dare vita a un film polimorfo, in grado di cambiare pelle come un rettile nel corso della sua durata. In questo caso specifico l'autore di The Host (2006) "accomoda" lo spettatore nei ranghi di una black comedy per circa metà lungometraggio per poi innestare una marcia da polifonia composta da elementi horror e thriller che accompagnano un'anima solista da dramma sempre più angosciante. E proprio come nel sopracitato monster movie i topoi di genere diventano per il cineasta coreano strumenti per poter riflettere sulla condizione umana all'interno di una società fortemente capitalista e ormai priva di una classe media come quella coreana. Le due famiglie al centro della pellicola rappresentano in maniera evidente i lati opposti di una barricata creata da logiche economiche e culturali rese possibili solamente da una sfrenata rincorsa al benessere ostentato dagli Stati Uniti, non a caso continuamente citati come sorta di terra promessa da Park e consorte, scontratasi con l'iceberg costituito dalla crisi economica mondiale del 2008 e dalle trasformazioni socio-economiche derivanti dalla digitalizzazione massiccia della vita contemporanea, simboleggiata dalla centralità dello smartphone all'interno del film. La prima metà sembra dunque rielaborare in chiave personale e grottesca la lezione della commedia all'italiana (la presenza di un brano di Morandi all'interno della colonna musica potrebbe essere un indizio in tale direzione) in cui le tante risate strappate nascondono in realtà un velo di estrema malinconia e rabbia verso una lotta di classe tutt'altro che diluita rispetto ai tempi in cui per primo ne parlò Karl Marx. Persino l'eccelsa eleganza formale con cui Bong riprende sia le brutture della famiglia Kim che l'elegantissima casa dei Park, i lunghi piani sequenza ricchi di morbidi movimenti di macchina e la ricercatissima composizione delle inquadrature anziché raffreddare il lato emozionale del film riescono ad accentuare la partecipazione empatica dello spettatore nei confronti dei quattro truffatori. Come dei novelli Totò risulta impossibile non patteggiare per Kim Ki-woo e gli altri, poveri diavoli mossi solamente dalla necessità a oltrepassare i confini della legge e in fondo senza mai ferire le proprie "vittime", a loro volta descritti senza alcun intento aprioristicamente antiborghese dal regista.
Ecco così che è il subentrare nella vicenda da commedia agrodolce della ex governante e di suo marito, poveri tra i poveri, disperati tra i disperati a segnare il cambio di registro, sia formale che narrativo. La rapida ed inesorabile escalation che trasforma la black comedy in tragedia sanguinolenta si consuma non a caso quando a confrontarsi e scontrarsi si trovano esponenti della medesima classe sociale dei più indigenti, mostrando la volontà di Bong di rimarcare come la vera tragedia della contemporaneità (in special modo in Corea del sud ma non solo) risieda in realtà nella lotta tra poveri conseguente proprio all'acutizzazione delle disparità sociali attuali. Trovare un compromesso che possa permettere a entrambi i gruppi di poveri di riscattare almeno in parte la dignità da sempre agognata appare una chimera, una possibilità irrealizzabile che viene scartata immediatamente in favore di una violenza sempre più fisica e distruttiva. Una violenza così pervasiva da lenire persino l'immagine fino a quel momento piuttosto positiva della famiglia benestante, della quale inizia a emergere lentamente ma inesorabilmente il disprezzo verso la classe "inferiore", simboleggiato dal cattivo odore che emanerebbe Kim Ki-taek.

Parasite, tirando le fila, mette in scena non tanto la lotta di classe, la contrapposizione ormai otto-novecentesca tra borghesia e proletariato quanto invece ciò che unisce e ciò che divide esseri umani. Uomini e donne, ragazzi e ragazze nei quali non esiste una malvagità o una bontà aprioristica ma soltanto una serie di rocambolesche circostanze che portano fratelli e sorelle appartenenti alla medesima specie a farsi del male.

venerdì 13 dicembre 2019

DOLOR Y GLORIA: UNA VITA IN 24 FOTOGRAMMI AL SECONDO

Pedro Almodóvar è internazionalmente divenuto sinonimo non solo di quella rinascita socio-culturale vissuta dalla Spagna negli anni Ottanta, in seguito alla definitiva chiusura dell'esperienza franchista, ma dell'intero panorama cinematografico iberico, al punto di essere riconosciuto persino dalla persona più indifferente alla settima arte. Con un tempismo quasi esoterico nel 2019, a circa quaranta anni dal suo esordio dietro la macchina da presa, il cineasta castigliano presenta al Festival di Cannes il suo lavoro più autobiografico: Dolor y gloria. La pellicola segna un vero e proprio trionfo per l'autore di Donne sull'orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988), vincendo numerosi premi in tutto il mondo (al momento è in corsa anche per due Golden Globes) e ritrovando i favori anche del pubblico dopo un paio di tappe poco fortunate all'interno di un percorso di grandissima qualità.

Centro di gravità permanente del film è Salvador Mallo (Antonio Banderas), regista reduce da decenni di successi indimenticati ma nel pieno di una paralisi sia nel lavoro che nella vita privata causata, almeno in apparenza, da una lunga serie di problemi di salute. L'abbondanza di tempo libero permette all'uomo di riflettere sul proprio presente ma soprattutto sul passato, dall'infanzia in povertà vissuta affianco della volenterosa madre (Penelope Cruz) passando per due storie d'amore con uomini accomunati solamente dalla dipendenza dall'eroina. Proprio l'incontro con Alberto Crespo (Asier Extendía), attore protagonista di una delle sue opere più celebri, e con Federico (Leonardo Sbaraglia) porteranno a una svolta per l'impasse del regista.

Qualunque spettatore con una minima cognizione della filmografia di Almodóvar non può che notare quanto della sua vita reale si trovi nelle disavventure e nella caratterizzazione di Salvador, rendendolo in tutto e per tutto un alter ego dell'autore. Utilizzando l'amico Banderas come una sorta di avatar videoludico nel quale riversare la propria personalità, il proprio passato, i tormenti della diversità in un paese profondamente cattolico e vissuto per decenni tra le sbarre della dittatura, l'amore per il cinema e la nostalgia tipica dell'età che avanza, il cineasta spagnolo gira quello che potrebbe essere considerato il suo 8½ (Federico Fellini, 1963). Con i capolavoro felliniano il film in analisi condivide non solo la natura autobiografica e autoanalitica, bensì anche la discrasia temporale e soprattutto il ricorso a una mise en abyme che si rivela man mano sempre più raffinata e idonea a poter rappresentare lo stato d'animo di un uomo non più giovane diviso tra i rimpianti del passato e il desiderio di vivere il futuro che potrebbe attenderlo. La struttura a scatole cinesi della pellicola, barocca solamente in apparenza, cela in realtà una vena metacinematografica essenziale all'intimo racconto almodovariano poiché, come rivelato da Mallo all'interno del monologo che fa recitare ad Alberto, in ogni suo ricordo, fin dall'infanzia, c'è sempre stato il cinema e solo attraverso l'occhio della cinepresa riesce ad affrontare le questioni in sospeso trascinate per anni.
Attraverso una forma che unisce il gusto per il décor raffinato degli esordi al lavoro di sottrazione attuato nell'ultima parte di carriera, l'autore di Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999) riesce a dare vita a una riflessione sul proprio vissuto di uomo e regista attuando gli stessi propositi che il suo alter ego enuncia nelle discussioni con il suo ex attore protagonista (si pensi, per esempio, alla categorica negazione delle lacrime) e, allo stesso tempo, toccando tutti quei temi che in circa quarant'anni di carriera lo hanno reso uno dei più importanti cineasti viventi. L'equilibrio con cui dosa emozione struggente e tenerezza quasi adolescenziale per filmare l'incontro tra Salvador e Federico è materiale che può scaturire solo dallo sguardo di un maestro, eppure a rubare la scena resta la tempesta di tonalità che colorano il rapporto con la madre, altro tema cardine della filmografia almodovariana. Un'esplorazione, attraverso spazi e tempi sempre diversi, di quello che appare come un mistero insondabile almeno quanto quello della natura una e trina di Dio secondo il dogma cristiano: come può una madre rifiutare di accettare la natura di un figlio che indubbiamente ama e per il quale ha vissuto un'esistenza intera? E come può un figlio perdonarla e convivere con la consapevolezza di averla delusa, pur amandola con tutto se stesso?
Salvador non pronuncia alcuna parola, alcuna frase che possa rispondere chiaramente al dilemma ma quel ricordo che si trasforma in ripresa cinematografica pare la più eloquente delle enunciazioni. L'amore non basta a salvarci ma il cinema sì.

lunedì 2 dicembre 2019

IT - CAPITOLO DUE: LA RESA DEI CONTI CON I PROPRI DEMONI

Il tutt'altro che atteso fenomeno cinematografico del 2017 è stato senza dubbio It, trasposizione diretta da Andy Muschietti di uno dei più celebri romanzi di Stephen King, già adattato nel 1990 per la televisione con una produzione in due puntate divenuta cult. Chiunque conoscesse l'opera originale o almeno la sua versione per il piccolo schermo una volta conclusa la visione del film sapeva di aver assistito solamente a circa metà delle avventure del Club dei Perdenti e dunque era facilmente pronosticabile l'arrivo di sequel. Il 2019 ha così visto l'arrivo nelle sale di tutto il mondo di It - Capitolo 2 (It: Chapter Two), conclusione del dittico che conferma gran parte del cast del prequel, a partire dal regista, aggiungendo quasi unicamente le versioni adulte dei protagonisti. Visti i numeri al botteghino ottenuti dal primo capitolo, le recensioni per la maggior parte positive e il gran numero di fan sparsi per il globo del capolavoro kinghiano l'attesa era davvero tanta, finendo per penalizzare molto più del dovuto la ricezione della pellicola. Chiaramente parliamo di un ulteriore successo per Muschietti, grazie agli oltre 400 milioni di dollari incassati e a una accoglienza da parte della critica discreta ma i risultati del predecessore restano ben lontano.

Ambientato ventisette anni dopo gli accadimenti del prequel, il lungometraggio in analisi vede il cosiddetto Club dei Perdenti alle prese con la vita da adulti, tutti in città e contesti molto diversi: Bill (James McAvoy da adulto, Jaeden Martell da ragazzo) è uno scrittore e sceneggiatore di successo ma frustrato dalle critiche ai suoi finali; Beverly (Jessica Chastain/Sophia Lillis) è una stilista di livello mondiale; Ben (Jay Ryan/Jeremy Ray Taylor) ha esaudito il suo sogno di diventare architetto e dimostra una forma fisica da modello; Richie (Bill Hader/Finn Wolfhard) è un famoso stand-up comedian; Eddie (James Ransone/Jack Dylan Grazer) lavora in ambito assicurativo; Stan (Andy Bean/Wyatt Olef) è un uomo d'affari di successo. Tutti vivono lontano da Derry, tranne Mike (Isaiah Mustafa/Chosen Jacobs), rimasto nel piccolo borgo del Maine in qualità di bibliotecario e che pare essere l'unico a ricordare ciò che era accaduto durante la loro giovinezza. In seguito alla scomparsa di un numero crescente di abitanti di Derry lo stesso Mike contatta telefonicamente i suoi vecchi amici, ricordandogli della promessa fatta nel finale del capitolo precedente: Pennywise (Bill Skarsgard), il mostro dalle sembianze di clown, è tornato e i Perdenti questa volta devono ucciderlo definitivamente.

Probabilmente molta delusione da parte del pubblico verso questo It - Capitolo 2 deriva da una "minore" presenza di scene prettamente orririfiche rispetto al capostipite e in parte non si può definire errata un'affermazione di questo tipo. A ben vedere, in effetti, Muschietti in questa chiusura del cerchio iniziato nel 2017 dona maggiore enfasi e approfondimento allo scavo del percorso psicologico ed emotivo occorso ai protagonisti, riuscendo così non solo a rendere personaggi a tutto tondo tutti i componenti del gruppo di amici ma anche a creare un giusto parallelo tra la maturazione dei personaggi e quella delle loro paure. Il clown danzante, esattamente come nel romanzo, non può che rappresentare una sorta di reificazione del male insito nella natura umana e delle paura che ogni uomo o donna è costretto ad affrontare nel corso della vita (non a caso è un essere mutaforma) e dunque diventa del tutto naturale che a dei ragazzini alle soglie della pubertà si manifesti in forme mostruose degne del più variegato tunnel dell'orrore, mentre per uomini e donne tra i trenta e i quarant'anni il terrore prende forme ben diverse. I mostri nell'armadio di ogni adulto assumono aspetti ben più sfumati, legati strettamente all'età che avanza, a una gioventù ormai svanita, ai problemi quotidiani e ai rimpianti che accompagnano ogni decisione presa. It - Capitolo 2, a differenza del prequel per ovvie ragioni, è una pellicola intrisa di nostalgia malinconica, di rimpianti e di lotte interiori tra due forze centrifughe: una che spinge l'uomo a dimenticare e accantonare il passato come se non fosse mai esistito, chiudendo gli occhi dinanzi a esso; l'altra che al contrario porta un adulto maturo a decidere non voltarsi più dall'altra parte, di ricordare il dolore provato nel passato e nel presente e di affrontare i propri demoni. Seguendo questa interpretazione si può comprendere come mai il cineasta argentino abbia scelto per questo sequel di recuperare il continuo salto temporale tra presente e adolescenza dei protagonisti, piazzando non a caso le apparizioni più fisiche e mostruose di Pennywise proprio nei flashback.
Questo slittamento di preminenza tra gli elementi tipicamente di genere e lo scavo psicologico non significa che il lungometraggio non abbia i suoi momenti di puro horror e soprattutto che rinunci alla ottima inventiva di Muschietti per gli spaventi: i tormenti personali di ogni Perdente rafforzano la partecipazione emotiva dello spettatore, grazie anche alle ottime performance del cast corale guidato da McAvoy e Jessica Chastain, e in tal modo anche la potenza orrorifica delle più sporadiche apparizioni di It e delle creature legate alla sua presenza a Derry. Persino la prima sequenza, un vero e proprio prologo talvolta criticato per la presunta distanza rispetto alle vicende di Billy e gli altri, assurge egregiamente al ruolo di introduzione ai toni e ai temi del film, in particolare nel momento in cui la coppia di giovani omosessuali (da notare che uno dei due è interpretato dal noto regista e attore Xavier Dolan) viene assalita e pestata non dal malefico clown, bensì da un gruppo di bulli omofobi. Mai come in questa scena, tutt'altro che edulcorata anche nella violenza grafica, esplode con chiarezza il pessimismo antropologico ereditato dal romanzo di King: certo a sbranare il povero Adrian è Pennywise, un essere alieno, ma ad averlo ridotto in fin di vita e gettato (letteralmente) nelle fauci della creatura sono stati giovani uomini (tra cui addirittura un adolescente), capaci di una ferocia incontrollata e incontrollabile solamente a causa del sesso della persona amata da uno sconosciuto. Questo è il vero Male, quello che nelle menti e nelle avventure dei Perdenti prende le sembianze di It ma che ogni lettore e spettatore conosce fin troppo bene, già dall'adolescenza. Adolescenza che però assume in sé anche la prerogativa di unico bagliore di luce pura all'interno della vita umana; locus amoenus in cui sbocciano le uniche autentiche forme di amicizia ed amore, così potenti e cristalline da poter sopprimere persino l'ombra gettata dal Male. Ecco dunque perché uno sparuto gruppetto di ragazzini prima e di adulti insoddisfatti dopo riesce a sconfiggere una forma di vita aliena sopravvissuta per secoli e in grado di trasformarsi in qualunque incubo la mente umana possa partorire.

La purezza dell'amore adolescenziale può vincere tutto e tutti. Paura, rimpianto, vergogna, senso di colpa, menzogne. Forse anche quella pecca (più o meno) veniale che affligge Billy e lo sceneggiatore Gary Dauberman quando si tratta di concludere una bella storia. Il didascalico finale di It - Capitolo 2, macchiato secondo me anche da una svolta del racconto di dubbio gusto sul versante morale oltre che prettamente narratologico, non mina comunque il magnifico affresco dipinto da Muschietti sull'ancor più straordinario soggetto fornitogli da Stephen King (il romanzo It) e dalla vita (l'adolescenza). 

giovedì 28 novembre 2019

THE NEON DEMON: NARCISO, BACCANTI E ALTA MODA

Tra i profili più riconosciuti e riconoscibili del cinema contemporaneo europeo (e non solo) figura senza alcun dubbio quello di Nicolas Winding Refn, il cui status di cineasta-divo viene certificato dalla griffe NWR apposta alle sue ultime opere, siano esse lungometraggi, serial o addirittura piattaforme di condivisione online. Dopo aver conquistato il mondo intero con Drive (2011) la sua filmografia ha intrapreso un percorso di nuovo allontanamento dai canoni hollywoodiani, all'interno del quale ho scelto di approfondire il suo ultimo lavoro cinematografico: The Neon Demon. Presentata al Festival di Cannes nel 2013, con tanto di scandalo annesso, la pellicola ha spaccato letteralmente a metà critica e pubblico, attirando lo sdegno di molti e l'ammirazioni di tanti altri, finendo addirittura al terzo posto della classifica dei migliori film dell'anno stilata dai prestigiosi Chaiers du Cinema.

L'esile intreccio del film, scritto dallo stesso Refn, segue l'arrivo a Los Angeles della giovanissima Jesse (Elle Fanning), aspirante modella ancora minorenne e priva di qualsiasi esperienza, non solo sulla passerella. Nonostante l'ingenuità e la mancanza di conoscenze altolocate la ragazza riesce immediatamente ad entrare in una prestigiosa agenzia e attrae come una calamita lo sguardo e i favori di chiunque posi lo sguardo su di lei, in particolar modo la truccatrice Ruby (Jena Malone), il fotografo Jack (Desmond Harrington) e il designer Robert (Alessandro Nivola). Una tale ascesa accende però anche l'invidia di alcune colleghe, come l'esperta Gigi (Bella Heathcote) e la bellissima ma fragile Sarah (Abbey Lee).

Due poli apparentemente opposti animano il cuore sia narrativo che estetico di The Neon Demon: uno legato alla contemporaneità, alla società nella quale viviamo e alle istanze dell'audiovisivo strettamente attuali; l'altro connesso invece alle radici della cultura occidentale, al mito greco e al racconto fiabesco. Certamente appare chiaro come la pellicola utilizzi il microcosmo della moda, luogo per eccellenza in cui la superficie conta più di ogni altra cosa, per attaccare ferocemente l'horror vacui che caratterizza i nostri tempi. "La bellezza non è tutto, è l'unica cosa" afferma Robert esplicitando tale tematica , tutt'altro che nuova, e probabilmente questa epitome, così come l'intera critica imbastita dal regista danese, si riferisce anche all'attuale status del cinema e del più ampio panorama audiovisivo, sempre più ricco nell'involucro ma, allo stesso tempo, svuotato di significanti che vadano oltre la superficie e la vendita di un prodotto a una popolazione mondiale costituita da soli consumatori. Accettando questa chiave di lettura, certamente non così esoterica, diventa estremamente adatto l'impianto formale adottato dall'autore di Bronson (2008), dominato da asettiche inquadrature prive o quasi di movimenti di macchina, specchi, illuminazione esasperatamente artificiale e antinaturalistica, cura per la composizione così raffinata da trasformare ogni singola inquadratura in un set da servizio fotografico d'alta moda. L'artificio, la ricostruzione palesemente falsata del reale sostituisce il reale stesso al punto da rendere ben più perturbanti le rare sequenze ambientate alla luce del sole rispetto ai notturni a base di neon e violenza tutt'altro che edulcorata.
Completamente ed efficacemente fuso a questa essenza prettamente contemporanea del film vi è pero anche un polo poetico ed estetico ancorato fieramente alle fondamenta della cultura e della narrativa, ossia la mitologia e la fiaba. Refn ha più volte ribadito il proprio amore nei confronti del cinema di Dario Argento e in particolare per Suspiria (Dario Argento, 1977): notizie apparentemente aneddotiche che in realtà confermano come la pellicola in analisi si ispiri al capolavoro del cineasta romano e, soprattutto, a quella precisa scelta narratologica che prevede l'abbandono di qualsivoglia pretesa di verosimiglianza da romanzo ottocentesco in favore di un'atemporalità e un volo pindarico verso l'onirismo tipici della fiaba. Proprio come la Susy interpretata da Jessica Harper, Jesse entra in un mondo in cui lo spettacolo (la danza, la moda) si rivela essere solamente una copertura, un'ennesima superficie vuota abitata da esseri che di umano possiedono ormai poco. Streghe, stregoni, figure tanto affascinanti quanto sinistre che irretiscono le ragazze per poi cibarsene, metaforicamente e non. L'eroina di Refn, appartenendo a un racconto ibrido in cui la fiaba è solo una delle sue sfaccettature, nel corso del lungometraggio si dimostra però tutt'altro che candida e immacolata come quella argentiana o come Cappuccetto rosso. La giovane dal volto angelico di Elle Fanning vive un percorso personale che sveste man mano le premesse fiabesche per indossare invece quelle del mito e della tragedia classica greca, nello specifico quelle del mito di Narciso, la cui indescrivibile bellezza lo portò prima a innamorarsi di se stesso e poi a morire annegato nel tentativo di baciare il proprio riflesso nelle acque di un fiume. Come l'incauto personaggio classico la bionda sedicenne acquisisce una sempre maggiore consapevolezza della propria avvenenza fisica, del fascino che esercita sul prossimo, sia esso uomo o donna, fino a una scena in cui la sovrapposizione Jesse/Narcisio diviene totale ed esplicita. La prima sfilata professionistica della protagonista della pellicola viene filmata da Refn fin da subito con un montaggio rapidissimo e sincopato che, coadiuvato dalle psichedeliche luci al neon che illuminano a intermittenza un'ambiente totalmente nero, tramuta la realtà in sogno (o incubo). Un sogno in cui ai primi piani della modella si contrappongo delle rapide visioni di una inquietante costruzione triangolare. La sfilata si trasforma così in un vero e proprio trip che culmina nel congiungimento tra la ragazza e l'oscuro simbolo (il dio al neon a cui allude il titolo), durante il quale l'immagine di Jesse viene riflessa e la stessa finisce per venire attratta a tal punto da questa immagine speculare da baciarla, proprio come accadeva a Narciso. Di chiara matrice mitologica e tragica è poi anche il finale che attende la bellissima modella, in cui la hybris viene inevitabilmente punita in una sequenza che riporta alla mente sia i sabba delle streghe che la brutale morte di Orfeo, sbranato dalle Baccanti.

Questo e molto altro scaturisce fin dalla prima visione di The Neon Demon, ennesima escursione di Refn al di fuori della confort zone del cinema contemporaneo e proprio per questo capace di smuovere emozioni e riflessioni nello spettatore, anche nei detrattori.

mercoledì 20 novembre 2019

STORIA DI UN FANTASMA: UN GRANELLO TRA LE SABBIE DEL TEMPO CHIAMATO UOMO

Trovare all'interno del panorama americano contemporaneo un regista, sotto i quarant'anni, capace compiere il grande salto dall'indipendenza alla Disney per poi tornare nuovamente a lavorare con budget ridotti e grande libertà creativa è una vera impresa, eppure un nome c'è: David Lowery. Il magnifico Senza santi in paradiso (Ain't Them Bodies Saints) gli aveva aperto, nel 2013, le porte di quella che è attualmente la più grande major al mondo ma, nonostante ciò, nel 2017 è tornato a un cinema di dimensioni produttive ridotte con Storia di un fantasma (A Ghost Story). Pur senza, ovviamente, gli introiti milionari da blockbuster la pellicola si è rivelata un ottimo successo economico, specie a dispetto del basso budget, ma soprattutto un nuovo trionfo a livello critico, persino in Italia dove la distribuzione ha per l'ennesima volta ignorato o quasi un'eccellente opera firmata Lowery e A24.

Il lungometraggio segue la vita di coppia, costellata da momenti di tipica quotidianità, di un uomo (Casey Affleck) e di una donna (Rooney Mara), dei quali vengono rivelati solamente le lettere C ed M all'interno dei credits. La loro normale convivenza fatta di attimi di tenerezza e passione per la musica viene bruscamente interrotta da un incidente in auto, nel quale C perde la vita. Mentre la compagna si trova a dover convivere con un lutto tanto inatteso, l'uomo incredibilmente si ripresenta sotto forma di fantasma, coperto da un lenzuolo bianco con due fori per gli occhi. Incapaci di proferire parola o di essere visto dagli umani, lo spettro torna a casa.

Dopo secoli di letteratura e cinema gotico ognuno di noi associa immediatamente l'idea di spettro all'horror, alla paura ma in questo Storia di un fantasma non vi è alcuna traccia di orrore. Vi sono elementi tipicamente gotici e la paura è un tema tutt'altro che secondario ma stavolta non ci troviamo nel campo dei vari The Conjuring (James Wan, 2013) o The Grudge (Takashi Shimizu, 2006). Per il film in analisi Lowery utilizza la figura del fantasma, dotandola addirittura di quell'aspetto ai limiti del ridicolo che di solito i bambini gli attribuiscono, e alcuni topoi del genere gotico (il legame tra il soprannaturale e l'ambiente domestico, i rumori notturni ecc.) per raccontare una storia, ben definita in tre atti, estremamente umana: un legame amoroso che si spezza a causa della morte e le conseguenze del lutto. Lo scheletro narrativo della pellicola segue i canonici tre segmenti in cui una situazione di equilibrio iniziale viene infranto da un evento inatteso e solamente dopo una serie di disavventure il protagonista riesce a riassestare l'instabilità creatasi. Un percorso classico dunque che, proprio avendo nel ruolo di eroe un defunto, potrebbe richiamare il campione d'incassi Ghost (Jerry Zucker, 1990) ma che trova una sua strada, assolutamente anticlassica, sia nello stile che nell'intreccio. A differenza dell'elegante ma, sostanzialmente, conservatore nella forma lungometraggio con Patrick Swayze, l'opera del cineasta di Milwaukee si distingue per un approccio stilistico dal rigore estremo, quasi completamente privo di movimenti di macchina e scandito da una serie di piani sequenza di notevole durata, tra i quali ne spicca, per minutaggio e straziante forza emotiva, quello in cui una M distrutta dal lutto cerca invano di mangiare un intero dolce da sola. Le lunghissime e statiche inquadrature assumono dunque i tratti quasi di una serie di fotografie o diapositive montate in sequenza. Un effetto reso ancor più efficace dalla scelta di girare il film in un insolito formato di 1.33:1 (simile ai 4:3 dei televisori a tubo catodico) che aumenta il senso di staticità delle immagini e sembra imprigionare letteralmente i personaggi all'interno del quadro. Figure umane (o ex umane) già ingabbiate nel corpo e nello spirito dalla nostalgia, dal lutto o da una condizione esistenziale che non permette loro di abbandonare un luogo in cui una volta erano state felici.

All'interno di questo assetto stilistico all'insegna della stasi e della dilatazione temporale proprio la dimensione cronologica, il tempo diventa, minuto dopo minuto, l'altro centro della riflessione operata dal director. Come viene a un certo punto espletato da un delirante monologo di uno dei partecipanti a una festa tenuta nella casa nella quale vivevano C e M, il lutto vissuto dalla coppia senza nome diventa un'occasione per riflettere, amaramente, su quanto gli uomini cerchino di superare la finitezza della vita mortale attraverso opere, azioni o composizioni che li rendano immortali, che lascino un segno della loro presenza nel futuro. Una volontà che accomuna il più umile degli esseri umani ai geni come Beethoven ma che, in tutti i casi, è destinata solamente al fallimento poiché ogni prodotto dell'ingegno umano, per quanto meraviglioso sia, è destinato inevitabilmente all'oblio, vicino o lontano nello spazio o nel tempo ma ineluttabile. In questo contesto filosofico anche il tempo diegetico subisce una inesorabile mutazione, perdendo ogni connotazione lineare e mostrando così come l'essenza di un fantasma risieda più che nell'assenza di vita nella mancanza di limiti spazio-temporali. Nell'avvicinamento a quell'oblio che la natura umana tenta disperatamente di rimandare.

mercoledì 13 novembre 2019

SONATINE: IL PARADISO SOSPESO TRA VIOLENZA E (INEVITABILE) MORTE

Se Takeshi Kitano è considerato tra i maestri del cinema (asiatico e non) contemporaneo lo si deve in primis al Leone d'oro vinto da Hana-bi (Hana-bi - Fiori di fuoco, 1997) ma il suo primo vero exploit al di fuori della terra d'origine, dove peraltro i suoi primi lungometraggi erano stati tutt'altro che campioni d'incassi, è in realtà costituito dal precedente Sonatine, scritto, diretto, interpretato e montato dall'autore di Violent Cop (1989) nel 1993. Presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, il film ha lentamente ma inesorabilmente conquistato i palati prima europei e poi statunitensi, complice anche l'assenza di quel pregiudizio diffuso in Giappone verso il regista causato dal suo passato da attore e autore di programmi televisivi comici.

Al centro delle vicende raccontate all'interno della pellicola vi è lo yakuza Murakawa (Tskeshi Kitano), stanco e disilluso dopo una vita in cui ha scalato le gerarchie di una delle bande che domina Tokyo e dunque intenzionato a ritirarsi dalle attività illecite. Prima che possa abbandonare la criminalità il boss gli chiede, come ultimo lavoro, di recarsi a Okinawa per risolvere la contesa tra due bande in affari con la loro. Nonostante i numerosi e accesi dubbi sulla missione Murakawa obbedisce ma, arrivato alla meta insieme ai suoi uomini di fiducia, scopre, come temuto, di essere stato attirato in una trappola.

Definire Sonatine un tipico yakuza movie sarebbe una semplificazione estrema, per non dire addirittura un errore. Analizzando il versante prettamente narrativo dell'opera in questione si potrebbe definirla tripartita, più come una sinfonia in tre movimenti che non come la tipologia di composizione musicale richiamata dal titolo. Il primo movimento è quello che può essere, pur con le sue unicità, ricondotto agli stilemi del genere yakuza, i seguenti cambiano notevolmente registro: un adagio per la sezione centrale e un malinconico epilogo folgorato da alcuni lampi di violenza cruda, spiazzante e assolutamente lontana dalle estetizzazioni dei coevi lavori tarantiniani. Al centro, non a caso, c'è però quel segmento riconducibile, volendo mantenere la metafora musicale, a un adagio che è il cuore pulsante della pellicola e l'esplosione compiuta della poetica e dello stile di Kitano. Costretto a rifugiarsi con i pochi sottoposti sopravvissuti all'attentato nemico in una piccola casa abbandonata sulla spiaggia, il protagonista ammazza il tempo inventando giochi in cui si mescolano, in maniera sempre più perturbante, trivialità e bestialità, infantilità e violenza. Esemplare di questo meccanismo è certamente la sequenza con la roulette russa, capace di esplicitare in pochi minuti l'intera Weltanschauung kitaniana, dominata dalla consapevolezza dell'onnipresenza della morte all'interno della vita di ogni uomo e delle scelte che compie. La vita come un lungo percorso in cui tutto accade in funzione della fine, della meta. Una visione del mondo estremamente nichilista che rende evidente i motivi per cui il cineasta nipponico resti così affascinato dai mafiosi, personaggi costantemente appesi al filo che lega vita e morte, ma che trova una luce all'interno dell'oscurità nella meraviglia della natura, o meglio in parte di essa: il mare. Costantemente nel cinema di Kitano il mare diventa una sorta di luogo in cui la spirale di violenza e morte si arresta; un limbo, una terra di mezzo tra questi due estremi che regolano la vita degli yakuza (e non solo) che dunque assume i caratteri di una paradiso sulla Terra.
La parte centrale del film ambientata in spiaggia segna, come già anticipato, non solo la prima e matura enunciazione dei temi cari all'autore di Violent Cop ma anche la piena realizzazione di un percorso stilistico che porta il regista ad affrancarsi pienamente dai cardini del genere per giungere a uno stile personale e riconoscibile. Dopo la prima parte ancora legata al gangster movie in versione nipponica Kitano abbandona il ritmo sostenuto nel montaggio e le inquadrature strette dilatando enormemente i tempi, allargando il quadro. In questo modo si crea una distensione spazio-temporale di carattere chiaramente contemplativo, adatto in tutto e per tutto a quella sorta di momentanea pausa dagli oneri dell'esistenza di un criminale. Il gangster movie si colora dei tempi, delle attese e del rigore stilistico di maestri del passato come Ozu o Antonioni, rievocato da Beat Takeshi in particolare con l'attenzione rivolta verso il vento, protagonista assoluto di pellicole come L'avventura (1960) o L'eclisse (1962).

Sonatine può essere dunque definito uno yakuza movie? Forse sì ma uno yakuza movie dotato di un lirismo tanto inatteso quanto sconfinato. Un lirismo che ha aperto le porte del mondo al signor Kitano e che ha permesso al mondo di conoscere il complesso e affascinante universo di un ex comico che riflette costantemente sulla morte.

sabato 2 novembre 2019

SUSPIRIA: L'ORRORE ESERCITATO DAL POTERE (AUTORITARIO)

Ogni volta che viene pronunciata la parola "remake" il cuore del cinefilo medio sussulta per il disgusto, dimenticando come la pratica di narrare nuovamente una storia già conosciuta sia insita nella natura stessa dell'uomo o anche semplicemente come il cinema abbia offerto, nel corso dei decenni, numerosi esempi di rifacimenti di elevata qualità (si pensi, per esempio, a quel The Thing diretto da John Carpenter del 1982). Nonostante questa remora culturale contemporanea di una consistente fetta di pubblico Luca Guadagnino, esperto nell'arte di dividere spettatori e critici, porta sugli schermi, nel 2018, il secondo remake della sua carriera: dopo A Bigger Splash (2015), riproposizione personale de La piscina (La Piscine, Jacques Deray), dirige Suspiria, ispirato all'omonimo capolavoro di Dario Argento risalente al 1977. Quasi superfluo sottolineare come la reazione alla pellicola sia divisa quasi equamente tra ammiratori e detrattori, nonostante alcuni premi ricevuti e una discreta performance al box office per una distribuzione molto limitata, dovuta alla produzione made in Amazon Prime.

Ambientato nel pieno dell'autunno caldo vissuto da Berlino nel 1977, il film, diviso in sei atti con epilogo, segue l'arrivo in città di Susie (Dakota Johnson), giovane proveniente dall'Ohio che intende entrare nella compagnia di danza guidata da Madame Blanc (Tilda Swinton). Grazie alla misteriosa scomparsa di una delle ballerina, Patricia (Chloë Grace Moretz), la ragazza riesce ad avere un posto nella compagnia ma diventa sempre più evidente la presenza di qualcosa di sordido all'interno della stessa.

Basterebbe anche una superficiale conoscenza delle filmografie di Guadagnino e Argento per capire quanto distanti siano i rispettivi percorsi cinematografici e, di conseguenza, capire perché i due Suspiria siano così distanti l'uno dall'altro, escludendo ovviamente gli elementi più basilari dell'intreccio come l'arrivo in Germania della giovane protagonista americana, la scuola di danza e il mito delle Tre madri. Da autore profondamente conscio del proprio percorso artistico ma anche della grandezza dell'opera di riferimento, il regista siciliano modifica quanto più possibile il lavoro del collega romano per adattarlo al proprio stile e ai temi a lui cari e così, fin dai titoli di testa e dalla prima sequenza ecco che il gusto per i colori antinaturalistici e violentemente accesi di Argento cedono il passo a una tavolozza completamente priva di colori primari, così come la non riconoscibilissima Friburgo viene sostituita da una Berlino totalmente immersa nel periodo storico scelto e che diventa co-protagonista. Se il director di Inferno (1980) aveva immerso la propria opera in un'atmosfera e una narrazione di stampo fiabesco e in cui, di conseguenza, i riferimenti all'attualità divenivano tracce che venivano solamente suggerite, l'autore di Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name, 2017) esplicita tutti quei sottotesti eliminando del tutto la componente appena menzionata e creando, invece, un duplice percorso, strettamente intrecciato, tra la storia socio-politica della attuale capitale tedesca nel 1977 e la trama fantastica legata alla scuola di danza creata dalle streghe.
Pur nella ricchezza di suggestioni culturali, filosofiche e morali (dalla maternità fino a una tutt'altro che superficiale riflessione metacinematografica) la rilettura di Guadagnino del classico del cinema horror nostrano affonda continuamente i denti in una precisa direzione, ossia quella dell'esplorazione del tema del potere e in particolare delle conseguenze del suo uso autoritario. La scelta di ambientare il racconto in un momento storico di grande subbuglio sociale e politico, di enorme divisione non solo tra le due metà della città ma, soprattutto, tra la generazione dei genitori, colpevoli di aver assecondato gli orrori del nazismo, e i figli marchiati a fuoco da questa genealogia, da questo peccato originale, è soltanto una delle innumerevoli prove che sostengono la lettura della pellicola attraverso questo filtro. Proprio come era accaduto negli anni Trenta con l'ascesa di Hitler, anche all'interno della congrega di streghe che domina il Markos Tanzgruppe vi è una lotta intestina tra due fazioni dalla quale, approfittando del caos generato da un evidente vuoto di potere, esce vincitrice una leader legittimata unicamente dalla violenza e dal sangue e che utilizza i medesimi metodi per governare nel proprio microambiente. Allo stesso modo anche nella Repubblica Federale di Germania i disordini causati dalla ribellione giovanile e a Berlino dalla innaturale e sofferta ripartizione, simboleggiata da quel muro che non a caso si trova proprio nei pressi della scuola di danza, portano a un inasprimento della repressione da parte delle forze dell'ordine dei diritti civili alla libera espressione di dissenso della popolazione. Un'ulteriore manifestazione di abusi da parte della classe dirigente al potere all'insegna della violenza che rendono limpida la connessione con quanto accade nella congrega esoterica.
Attraverso questo tipo di lettura trovano un senso pienamente compiuto altre due scelte divergenti rispetto al film originale: l'importanza rivestita dalla danza e l'epilogo. Nella versione del 1977 la coreutica e l'ambiente della compagnia di danza restavano quasi sempre sullo sfondo, offrendo certamente degli spunti estetici o tematici ma senza mai conquistare la scena. Guadagnino, al contrario, dona ai movimenti dei corpi, alle coreografie espressioniste e allo statuto stesso della compagnia di artisti un rilievo centrale, rendendo la coreutica lo strumento attraverso cui le streghe danno forma ai propri incantesimi. Attraverso questo espediente il regista palermitano riesce non solo a dare vita a sequenze di grandissima potenza estetica e orrorifica, come ad esempio quella in cui Susie tortura involontariamente una sua collega semplicemente danzando, bensì sottolinea la corrispondenza tra le streghe e le vittime di persecuzioni politiche di ogni epoca, tra quelle donne che per secoli sono state arse vive da una società violentemente maschilista e i diversi che, in ogni dove e in ogni quando, rischiano la vita solamente per l'incapacità o la non-volontà di allinearsi alle direttive di autorità sanguinarie e dittatoriali. In linea con questa associazione sia estetica che di pensiero si trovano così sia il grandguignolesco pre-finale, in cui il sabba delle streghe si confonde con un numero di danza e finalmente l'usurpatrice del potere viene punita dalla legittima detentrice, che l'epilogo vero e proprio, nel quale Mater Suspiriorum dimostra che l'esercizio del dominio può e deve avvenire in primo luogo attraverso l'amore e la compassione. I due sentimenti che vincono lo spazio e il tempo nell'ultima inquadratura, in tutto il cinema di Guadagnino e forse anche nella vita reale.

P.s. Per coloro che possono pensare a una incapacità del regista di A Bigger Splash di creare momenti di genuino orrore non posso che consigliare la visione della sopracitata sequenza del sabba: un magistrale omaggio all'indimenticabile rosso dell'originale Suspiria unito alla tipica cura per la composizione delle inquadrature di Guadagnino e persino alle derive gore e surreali al tempo stesso di una figura di spicco dell'horror contemporaneo quale Rob Zombie, regista non a caso di un'altra pellicola di fusione tra musica e stregoneria (Le streghe di Salem, The Lords of Salem, 2012).

giovedì 24 ottobre 2019

CIVILTÀ PERDUTA: IL CUORE DI TENEBRA SECONDO JAMES GRAY

Molto amato dalla critica, specie quella europea, ma poco conosciuto dal grande pubblico: James Gray rappresenta quasi un unicum all'interno del cinema hollywoodiano, specialmente se si riflette sul suo status di autore conclamato, impegnato in lungometraggi arricchiti da divi come Joaquin Phoenix o Mark Wahlberg ma che quasi mai incassano in maniera soddisfacente. Non si sottrae, purtroppo, a tale destino neanche Civiltà perduta (The Lost City of Z, 2016), prima totale deviazione del regista dalle atmosfere metropolitane tipiche della sua produzione verso i lidi del genere avventuroso, dalle ambientazioni esotiche. Nonostante il nome di Brad Pitt tra i produttori, un cast composto da nomi celebri e ottime recensioni, persino negli States, il film ha fallito la prova del box office, dimostrando ancora una volta come gli incassi non sempre corrispondano alla qualità dell'offerta.

Basata sul libro Z la città perduta di David Grann, la pellicola segue, nell'arco di un periodo storico che va dagli albori del XX secolo fino al primo dopoguerra, le vicende di Percy Fawcett (Charlie Hunnam), ufficiale dell'esercito britannico in cerca di onorificenze in grado di offuscare la cattiva fama di cui gode la sua famiglia a causa del padre. La Royal Geographical Society gli offre la possibilità che cerca affidandogli l'esplorazione di una impervia zona di confine tra Bolivia e Brasile, durante la quale l'uomo resta totalmente affascinato dalla possibilità di rinvenire resti di una civiltà sconosciuta agli europei tra le fitte maglie dell'Amazzonia. Una convinzione che lo spingerà ad abbandonare più di una volta sua moglie Nina (Sienna Miller) e i figli.

Uno dei principali fili conduttori che lega, come una collana di perle, il cinema di Gray è sicuramente il tema dei peccati dei padri che ricadono sui figli e dunque tutto ciò che ne consegue all'interno del delicato rapporto tra genitore e figlio. Civiltà perduta, pur distanziandosi per periodo storico e ambientazione da lavori precedenti come I padroni della notte (We Own the Night, 2007), ripropone ancora questa dialettica, ancestrale e contemporanea al tempo stesso, ma attraverso una rilettura più complessa e sfaccettata: se inizialmente Fawcett appare come l'ennesima figura di uomo costretto a fare i conti con le dolorose scelte paterne in realtà, con il proseguire del minutaggio, la questione dell'alcolismo e dell'onore incrinato dall'aleggiante figura del padre del protagonista si tramuta in una sorta di MacGuffin hitchcockiano, poiché è proprio Percy a trasformarsi in un genitore assente, costantemente lontano da casa per un motivo o un altro e dunque amato e odiato in egual misura dal primogenito Jack (Tom Holland). Proprio come accadrà a Tommy Lee Jones nel successivo Ad Astra (James Gary, 2019) è il personaggio interpretato, con notevole sensibilità, da Hunnam a finire preda di una vera e propria ossessione, così forte da spingerlo lontano dagli affetti, per i quali prova un amore innegabile ma che pare non riuscire a trattenerlo dalla ricerca di un luogo che vive a metà tra il mito e sogno all'interno del cuore dell'esploratore, senza mai abbandonarlo. Persino tra le trincee del primo conflitto mondiale Fawcett, che non a caso si circonda ancora una volta dei compagni delle spedizioni in America (in particolare il fido caporale Costin, portato su schermo da Robert Pattinson), non riesce a liberarsi dal pensiero dell'Amazzonia e dei misteri che cela, come sottolineano prima la medium che viene catturata tra le fila tedesche e successivamente l'inquadratura che mostra, in dettaglio, un disegno della foresta incastonato tra le maglie del filo spinato.
Proprio l'esperienza bellica, che porta nuovamente via dalla famiglia Percy ma che allo stesso tempo sembra convincerlo finalmente ad abbandonare ogni velleità avventurosa, finisce, sorprendentemente, per ampliare gli orizzonti dell'ormai uomo Jack, il quale, probabilmente più per amore del padre che non per una profonda condivisione del suo sogno, convincendolo a esaudire il desiderio paterno di rivedere ancora una volta i luoghi esplorati e scoprire finalmente la fantasmatica Z accompagnandolo nell'impresa. Il cuore di tenebra, quel desiderio tanto incessante quanto irrazionale che riesce a sopraffare ogni altro affetto o dovere, pare dunque, proprio come accadeva in Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), estendersi come un'infezione a chiunque viva a contatto con il "paziente zero", portando non solo il primogenito della famiglia Fawcett a condividere la missione paterna ma persino la stoica consorte Nina a rassegnarsi e accettare di dover lasciare andare gli uomini della sua vita in nome di un sogno. Un sogno doloroso e folle ma che, in quanto donna estremamente emancipata e consapevole dell'importanza della realizzazione individuale dell'essere umano, non può bloccare.

Civiltà perduta rappresenta, in conclusione, una ulteriore esplorazione dei tempi più cari all'autore di Two Lovers (2008) attraverso però un'angolazione inedita, ricca di omaggi e spunti provenienti dal cinema americano passato (dal già citato capolavoro di Coppola passando per il rapporto uomo-natura caratterizzante il Lawrence of Arabia diretto da David Lean nel 1962) ma soprattutto della formidabile abilità di narratore per immagini di Gray, sublimata dalla struggente e metafisica inquadratura finale. Un'opera da riscoprire.

domenica 6 ottobre 2019

JOKER: ANARCHICA FOLLIA DI UN CLOWN E DI UN GENERE

Nel pieno degli anni Ottanta, dopo il primo tentativo di Umberto Eco con il suo Apocalittici e integrati (1964), una serie di coraggiosi esperimenti in sede DC firmati da personaggi come Alan Moore e Frank Miller aveva finalmente sdoganato la liceità e il valore come forma d'espressione del fumetto. A circa trent'anni di distanza, con una cultura pop letteralmente invasa da quei supereroi nati su carta, Todd Phillips decide di voler testare anche sul cinema supereroistico la carta dell'opera esterna alla serialità tipica del genere e dunque libera di poter esplorare senza alcun limite produttivo o di target commerciali la psicologia di un personaggio iconico della casa di Superman e soci. Con questa precisa intenzione di superare i vincoli del blockbuster e del tipico cinecomic in stile MCU nasce Joker (2019), non a caso ambientato proprio nel decennio segnato da Reagan e Indiana Jones, dalle nuove tensioni tra USA e URSS e la new wave. Il risultato è una storica vittoria del Leone d'oro a Venezia, prima volta in assoluto per un'opera tratta dai comics, e un successo immediato al box office, nonostante alcune polemiche sorte proprio negli Stati Uniti.

Proprio come in uno stand-alone fumettistico fuori continuity, la pellicola rilegge in chiave di atipica origin story la nascita del Joker, il più celebre nemico di Batman. In questa versione il personaggio ha nome e cognome: Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), clown per eventi che vive ancora con la madre e che si trova a dover convivere con alcuni disturbi psicologici, tra cui una sindrome che lo porta ad avere crisi di riso incontrollate e improvvise. Vessato continuamente dal prossimo in una città, Gotham, in preda a una crisi economica nerissima, l'uomo, in una notte in metropolitana, reagisce per la prima volta ai soprusi subiti sparando a tre yuppies che lo avevano aggredito. Sarà l'inizio di una escalation di violenza che cambierà non soltanto la sua vita.

Molti all'annuncio di uno spin-off completamente slegato dall'universo condiviso DC, dalle ambizioni prettamente autoriali e diretto da un regista noto quasi unicamente per commedie molto popolari come Todd Phillips avevano già annunciato il disastro. Spero che molti di questi si siano, con piacere, ricreduti dopo aver visto in sala Joker.
Fin dall'apparizione di una versione vintage del logo della Warner Bros e dalla prima, muta sequenza lo spettatore avverte la sensazione di trovarsi dinanzi a un film non solo diverso dal canone oggi affermatosi dei cinecomic ma, soprattutto, fieramente debitore e coraggiosamente in grado di costruire un ponte tra la contemporaneità e un modello estetico e poetico chiaramente ancorato nella New Hollywood. I riferimenti allo Scorsese di Taxi Driver (1976) e Re per una notte (The King of Comedy, 1983) risultano ben evidenti e, in fondo, non erano mai stati nascosti già nelle interviste rilasciate prima dell'approdo della pellicola a Venezia dallo stesso regista ma sono molteplici i richiami ad altri capisaldi della Hollywood Reinassance, come dimostra la ricostruzione di una Gotham sporca, schiacciata dalla spazzatura e da una violenza dilagante che riportano alla mente la guerriglia urbana de I guerrieri della notte (The Warriors, Walter Hill, 1979) o in generale il clima da contestazione che aveva ispirato persino Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni (1970). Impossibile non notare anche l'influenza delle sommosse antivigilanti che caratterizzano il capolavoro di Alan Moore Watchmen (1986-1987), simbolo non solo di quella autorialità riconosciuta della nona arte esplosa negli anni Ottanta ma, cosa ancor più importante, in maniera più vasta delle ultime propaggini di quel movimento culturale che aveva rivoluzionato il cinema statunitense attraverso la commistione di modelli linguistici europei alle istanze di ribellione dei giovani nei confronti della morale patriarcale dei genitori e di una politica di potenza americana che aveva dato vita all'incubo Vietnam. Arthur non è molto diverso dagli antieroi visti sul grande schermo in quei decenni (da Travis Bickle a Kit Carruthers passando per Sonny Wojtowicz) in quanto, proprio come loro, si pone agli antipodi del tipico eroe del cinema americano classico e, anzi, finisce per sbattere in faccia al pubblico due verità non facilmente digeribili. La prima riguarda, inevitabilmente, il fragile equilibrio sul quale poggia il sistema economico e sociale occidentale, specie in un'epoca storicamente contraddistinta da politiche economiche all'insegna di un liberismo senza freni e conseguentemente fautore di un ingigantimento delle differenze tra le fasce della popolazione più ricche e quelle più umili. Gotham, immaginata con le fattezze di New York, incarna i limiti estremi di questa disuguaglianza sociale inasprita dalla crisi economica finendo per assumere un in sé quelle tensioni e contraddizioni viste nella Detroit reale, distrutta dal fallimento delle storiche aziende automobilistiche.
Come si inserisce Fleck all'interno di questo contesto così complesso? Ebbene l'emaciato comico fallito, interpretato in maniera magistrale dal sempre ottimo Joaquin Phoenix, diventa il simbolo, la bandiera della risposta violenta degli indigenti all'opulenza e all'indifferenza mostrata da Thomas Wayne, a sua volta simbolo della fazione più potente della città. Il protagonista reifica anche la seconda delle due verità a cui alludevo in precedenza, ossia che in tempi in cui le certezze di una società umana così ancorata al lume della ragione iniziano a ballare i folli. Phillips torna in realtà a battere il martello su un chiodo fondamentale della propria poetica, già ricca di personaggi assolutamente fuori da ogni schema razionale che finivano per sovvertire l'ordine costituito e diventare il cuore emotivo delle sue commedie e dei suoi primi lavori più sperimentali, nonostante i loro comportamenti sempre ai limiti, o anche abbondantemente oltre, della morale corrente. I folli danzanti del regista di Una notte da leoni (The Hangover, 2009) riescono sempre a colpire il cuore dello spettatore, a entrare in contatto empatico con lui e dunque a far sì che il pubblico sia sempre, almeno parzialmente, dalla sua parte, persino nel momento in cui il timido Arthur diventa Joker, agente del caos e pluriomicida. Tramite il perfetto connubio tra la scrittura dell'autore statunitense e la performance ricca di sfumature psicologiche ed emotive di Phoenix è impossibile non vivere la trasformazione del protagonista nel celeberrimo nemico del Cavaliere oscuro come l'inevitabile effetto delle ingiustizie subite per una vita intera e perpetrate davvero da chiunque abbia conosciuto, finanche il suo idolo Murray Franklin (Robert De Niro) e l'amata madre.

Anche sul versante squisitamente formale Phillips imposta l'intero film su un registro in sintonia con la sua volontà di omaggiare la New Hollywood, come dimostrano l'ampio ricorso alla camera in spalla per seguire gli spostamenti del protagonista (anche in sinuosi piani sequenza), l'abbondante rifrazione della luce in molte inquadrature e persino citazioni dirette come quella della scala di L'esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973). Questo non significa che la pellicola finisca per diventare un jukebox del cinema passato in stile Tarantino o che non si veda una ricerca personale del director e infatti la scelta di ridurre al minimo le inquadrature ampie va in netto contrasto con molti dei modelli di riferimento, mostrando chiaramente l'intenzione di tenere sempre al centro dell'attenzione Fleck, vero polo d'attrazione dell'intera opera.

Dunque è davvero una rivoluzione questo Joker? Probabilmente no, il cinecomic d'autore esisteva già da decenni (si pensi a Mario Bava) ma uno studio così sottile ed emotivo insieme di un personaggio iconico come il misterioso clown principe del crimine mancava al genere e un'opera così diversa dal canone imposto all'industria intera dai miliardi al box office del MCU è l'ennesima dimostrazione della natura polimorfa del cinecomic, a dispetto di quanto cerchi di far credere Kevin Feige. Senza dimenticare che parliamo, senza se e senza ma, di una di quelle pellicole così potenti da essere difficilmente dimenticate.

giovedì 3 ottobre 2019

MISSION: IMPOSSIBLE - FALLOUT: SERIALIZZAZIONE COMPLETA DI UN FRANCHISE ATIPICO

Tra le tante saghe cinematografiche comparse nel corso dei decenni quella di Mission: Impossible si è distinta principalmente per il ricorso a un diverso regista, tutti peraltro considerati in tutto e per tutto degli auteur, per ogni capitolo, rendendo dunque solamente Tom Cruise e la sua squadra dell'IMF i veri elementi di serialità all'interno del franchise. Tutto cambia nel 2018 con l'arrivo nelle sale dell'ultimo episodio, Mission: Impossible - Fallout, che viene diretto da Christopher McQuarrie, lo stesso director del precedente Mission: Impossible - Rogue Nation (2015). Per la prima volta la saga si gioca dunque la carta della serialità forte tramite un sequel diretto e i risultati finiscono per premiare in toto la scelta: la pellicola batte gli incassi di tutti i prequel e viene accolta dal plauso unanime della critica mondiale, al punto da essere inserita in numerose classifiche dei migliori film dell'anno o addirittura dei migliori action di sempre.

Seguendo di pochi anni le vicende di Rogue Nation il lungometraggio vede la squadra di Ethan Hunt (Tom Cruise), supportata a pieno questa volta dall'ex CIA Alan Hunley (Alec Baldwin), alle prese con la minaccia globale portata dagli Apostoli, gruppo terroristico internazionale nato dalle ceneri del Sindacato di Solomon Lane (Sean Harris) intenzionato a seminare il panico nel mondo tramite tre ordigni nucleari. Il primo tentativo di sventare la minaccia dell'IMF fallisce a causa della scelta di cuore del protagonista, che sceglie di salvare la vita dell'amico Luther (Ving Rhames) a discapito della missione, così la direttrice della CIA Erica Sloane (Angela Bassett) impone alla squadra la presenza di un suo uomo di fiducia, August Walker (Henry Cavill).

Se esiste una saga in cui il protagonista unico rappresenta la vera e propria stella polare dell'intera operazione è sicuramente Mission: Impossible, sia per quella atipica serialità alla quale accennavo pocanzi che per la costanza con cui in ogni nuovo capitolo Cruise mette a dura prova le proprie possibilità fisiche e quelle di stunt quasi del tutto privi di CGI in un cinema in cui la tecnologia digitale invade ogni singolo frame. Nel caso di questo Fallout però, come in parte già anticipato, la serializzazione assume caratteri ben più corposi: oltre alle presenza costante del trio Hunt - Luther - Benji (Simon Pegg) ritornano altri personaggi più o meno importanti sia del prequel diretto che dei precedenti capitoli, così come la missione attuale si rivela nel corso della pellicola come il vero epilogo di quella affrontata durante Rogue Nation. Questa impronta fortemente seriale permette a McQuarrie, autore anche della sceneggiatura, di poter lavorare non solo sui collegamenti o le citazioni dei predecessori (in particolare il capostipite firmato Brian De Palma del 1996) ma, soprattutto, sullo sviluppo del lato prettamente umano di Ethan. Se in questa sesta missione impossibile l'agente dell'agenzia supersegreta statunitense mantiene la sua proverbiale capacità di risolvere qualunque situazione mortale, di lanciarsi nel vuoto, correre tra i tetti o infiltrarsi all'interno di pericolosissime organizzazioni criminali, l'uomo dietro l'eroe rivela tutta la propria fragilità. Il personaggio che da più di vent'anni segue il corso della carriera di Cruise condivide con il proprio interprete proprio quell'aura di invincibilità che però inizia a mostrare tutti gli scricchiolii dettati dal passare del tempo. Il leader dell'IMF appare mai come prima indebolito nel fisica dall'età che avanza, rallentato nelle proprie imprese ai limiti dell'umano da un fisico che inevitabilmente non è più quello di un giovane uomo, proprio come il divo hollywoodiano che non può più fregiarsi del titolo di sex symbol per eccellenza dello star system. Si crea dunque un corto circuito metacinematografico, tra personaggio di finzione e il suo interprete, che porta su un piano nuovo per la saga l'aspetto empatico, grazie anche all'evoluzione psicologica ed emotiva che accompagna quella fisica del protagonista.
L'incubo che funge da prologo all'intera pellicola mette in chiaro subito la volontà del regista e sceneggiatore americano di indagare anche attraverso la scrittura il percorso interiore di Hunt, le conseguenze di anni passati sempre sul filo del rasoio, costretto a fare sacrifici enormi (in particolare l'allontanamento dell'ex moglie), a perdere amici o compagni pur di servire un paese che più di una volta ne ha messo in discussione etica e modus operandi. Un uomo portato inevitabilmente alla solitudine e al rimpianto nei confronti di ciò che sarebbe potuta essere la sua vita se avesse scelto di lavorare come postino o semplice impiegato.
Per la prima volta Hunt/Cruise, grazie alle possibilità offerte da una serializzazione totale e dalla penna di McQuarrie, riflette sul tema della senilità per gli uomini d'azione e sugli effetti dell'eroe sull'uomo che si nasconde al suo interno con una consapevolezza e un'efficacia mai raggiunte da altre pellicole come I mercenari (The Expendables, Sylvester Stallone, 2010) o Red (Robert Schwentke, 2010).

Senza rinunciare ai topoi della saga alla quale pertiene Mission: Impossible - Fallout si pone come capitolo capace di introdurre un modello narratologico prettamente seriale, concludere un percorso umano e narrativo iniziato negli anni Novanta, dando un degno epilogo anche alla serie nella serie composta dal dittico con il precedente Rogue Nation e al contempo mantenere altissimo il livello visivo e spettacolare del franchise. Al netto di ogni riflessione su personaggi e scrittura niente appaga e contiene cinema quanto sequenze esteticamente eccezionali come l'inseguimento in elicottero.