martedì 24 ottobre 2017

IT: IL BILDUNGSROMAN AI TEMPI DELL'HORROR CONTEMPORANEO

Se esiste una parola davvero pericolosa e malvista negli ultimi anni questa è sicuramente "remake". Questa pratica, antica sostanzialmente quanto l'arte e la rappresentazione di sé, ha accompagnato tutto lo sviluppo del cinema mondiale, sia americano che europeo o asiatico, eppure a partire dal terzo millennio è diventata sinonimo di becera operazione commerciale, riciclo senza alcuna qualità e sintomo della presunta mancanza di idee attuale. Certamente i rifacimenti di pellicole precedenti non sono mancati a Hollywood da qualche anno a questa parte, solo che in realtà questa tendenza non costituisce né una novità e né un qualcosa di negativo a prescindere, come dimostrano i moltissimi capolavori che si rifanno a opere precedenti (The Thing diretto da John Carpenter nel 1982 basti come esempio). Un preambolo piccolo ma doveroso per rendere l'idea del clima nel quale è stato girato ed è arrivato nelle sale quest'anno It, secondo lungometraggio di Andy (o Andrès) Muschietti e adattamento di uno dei romanzi più celebri di Stephen King. Se già portare sullo schermo un'opera letteraria di grande fama porta inevitabilmente al confronto spietato da parte dei fan con il materiale originario in questo caso si aggiunge anche la schiera di nostalgici nei confronti della famosissima miniserie televisiva omonima andata in onda nel 1990, il cui fantasma purtroppo è finito per aleggiare sull'obbiettività nei giudizi sul film in analisi. Nonostante tante spade di Damocle alla fine il regista argentino è stato premiato da recensioni più che positive in tutto il mondo e soprattutto da incassi record, tali da renderlo il maggiore successo horror della storia al botteghino.

Per i pochi ormai che non avessero letto il capolavoro di King o visto i due episodi tv i protagonisti delle vicende narrate sono un gruppo di preadolescenti di una cittadina del Maine, tra i quali spicca soprattutto Bill a causa della perdita del fratellino minore Georgie. Il gruppo di amici, autodefinitisi "club dei perdenti" a causa delle persecuzioni da parte dei bulli di paese e dei loro difficili rapporti con gli altri, scoprirà suo malgrado che dietro la scia di morte che sconvolge ogni 27 anni la comunità in cui vivono è una creatura che si mostra loro quasi specialmente con le sembianze di Pennywise, un terrificante clown.

Il primo topic da chiarire immediatamente è che fare comparazioni tra le tre versioni delle disavventure dei perdenti è un'operazione inutile e svilente per il lavoro di tutti gli autori chiamati in causa: se è evidente che cinema e letteratura sono forme di espressione completamente diverse ebbene questo vale anche nei confronti del mezzo televisivo, il quale segue regole formali, tecnologiche e narrative in parte simili ma in gran parte divergenti dalla settima arte. Per questo è anche piuttosto controverso, se non improprio, definire questo It un remake e se anche lo fosse la sua natura di rifacimento non costituirebbe nessuna sorta di zavorra che ne affossa qualsivoglia velleità qualitativa.

Chiusa la piccola parentesi sulla spinosa questione "remake sì o no? Non importa" ciò che emerge immediatamente dalla prima visione è la scelta coraggiosa e coerente con la propria opera precedente, lo splendido La madre del 2013, di optare per un approccio ibrido, memore della lezione del cinema di genere, soprattutto gli stilemi degli horror diretti da James Wan e Scott Derrickson, ma capace di superare le sue barriere per aprirsi verso il romanzo di formazione e uno stile maggiormente europeo. Una mescolanza che risulta vincente a 360 gradi, poiché rende l'adattamento molto vicino alla poetica del romanziere del Maine (bisogna pur accontentare un po' gli oltranzisti della fedeltà a tutti costi) e soprattutto utilizza il meglio dell'orrore attuale da un punto di vista formale (l'importanza del sound design, la valorizzazione degli spazi chiusi e claustrofobici, l'uso della profondità di campo per spaventare ecc.) per conferire fisicità ai traumi che i ragazzi devono affrontare per poter crescere. L'horror assume il ruolo di veicolo attraverso il quale raccontare una delle fasi più delicate della vita umana, il congedo dall'infanzia, e diventa metafora, come accade in tutti i migliori prodotti di questo singolare genere. Sarebbe però poco conforme all'esperienza di tutti i giorni mostrare solo il male e il dolore che tutti noi affrontiamo durante la crescita; vorrebbe dire negare anche quei momenti, spesso anche piccoli in fondo, di spensieratezza e di ingenua gioia legata ai primi amori, le amicizie che sembrano non dover terminare mai e quelle avventure che restano impresse per sempre nella memoria. Per raccontare anche questo lato della prima adolescenza il cineasta argentino sceglie saggiamente il registro della commedia indipendente americana, inserito senza mai cozzare con i momenti più truculenti o di suspense e aiutato anche dalle interpretazioni estremamente empatiche del giovane cast.

Spicca infine proprio il gusto visivo di Muschietti, il quale conferma la propria capacità nel creare inquadrature fortemente pittoriche sia con gli interni che in esterni e si permette addirittura momenti di grande virtuosismo con la cinepresa, come nella magnifica sequenza del bagno insanguinato a casa di Beverly o con la soggettiva impossibile (oppure no?) dell'inquietante figura femminile del ritratto in stile Modigliani che tormenta Stan.

In conclusione It conferma in pieno il talento del proprio autore e non solo non vive di luce riflessa rispetto alle proprie fonti, bensì si dimostra un indimenticabile Bildungsroman e un altrettanto spaventoso horror contemporaneo, agrodolce e metaforico.

venerdì 13 ottobre 2017

IL GIOCO DI GERALD: EVADERE DA UNA VITA INTERA TRA LE MANETTE

Il 2017 rappresenta un anno sicuramente da ricordare per tutti gli appassionati del re dell'horror Stephen King, non tanti per la sua penna, bensì per l'uscita nell'arco di una manciata di mesi di ben tre trasposizioni cinematografiche di alcuni dei suoi lavori più famosi. Tra queste ho deciso di analizzare quella con un budget minore, minore clamore mediatico ma da un'accoglienza critica estremamente entusiasta: mi riferisco a Il gioco di Gerald (Gerald's Game), scritto e diretto da Mike Flanagan. L'ormai esperto autore di horror psicologici ha scelto coraggiosamente di adattare per lo schermo una delle opere del romanziere statunitense considerate meno cinematografiche e probabilmente anche per questo ha dovuto affidarsi a Netflix sia per la produzione che per la distribuzione, scelta che gli ha permesso di disporre al massimo delle proprie inclinazioni personali del modesto budget a sua disposizione, trovando l'apprezzamento unanime di critica e pubblico.

La trama, estremamente e volutamente semplice, ruota attorno alla decisione da parte dei coniugi Jessie (Carla Cugino) e Gerald (Bruce Greenwood) di passare un weekend da soli in una casa su un lago nel Maine. La donna accetta di assecondare le fantasie sessuali del marito pur di ridare vigore alla loro vita di coppia, così si lascia ammanettare al letto mentre il partner inscena un gioco di ruolo nel quale sembra voler stuprare la consorte. A un certo punto alcuni dei termini usati dall'uomo risvegliano nell'altra orribili ricordi sopiti, portandola a interrompere il gioco contro il volere del marito, il quale però viene stroncato da un infarto dopo aver assunto una pasticca di Viagra. Rimasta sola e ammanettata al letto Jessie si trova a dover affrontare i demoni di un passato che aveva tentato di dimenticare e allo stesso tempo a lottare per sopravvivere.

Molte delle migliori pellicole dell'orrore recenti hanno saputo dimostrare (si pensi ad esempio alle produzioni Blumhouse) quanto sia efficace lavorare maggiormente per sottrazione in questo genere, esaltando le qualità sia visive che narrative di un ambiente unico (che spesso diventa anche un personaggio vero e proprio) e di pochi personaggi in esso racchiusi, quasi come a voler riscoprire la potenza della narrazione archetipica del teatro attico del V secolo a.C. Il gioco di Gerald si inserisce all'interno di questa tendenza semplificatoria (nella migliore accezione del termine semplice) senza però rinunciare mai alla poetica del proprio autore, che in questo caso si sposa alla perfezione con le tematiche di King e del suo romanzo. Proprio come il celeberrimo romanziere anche Flanagan si dimostra un assiduo indagatore di quel periodo della vita che segna la transizione dall'infanzia all'adolescenza, una fase che segna indelebilmente la personalità del nostro io adulto e i cui trascorsi restano indelebili nella mente per sempre. Se in Stand by Me (Rob Reiner, 1986) il ricordo di questo passaggio è reso agrodolce dal tema dell'amicizia nel film in analisi questo improvviso riemergere del passato diventa un incubo, un ritorno dalle viscere del subconscio di due episodi talmente dolorosi da aver segnato l'intera esistenza della protagonista.

Una volta riemersi due momenti appena citati ecco che il lungometraggio diventa una sorta di seduta psicanalitica presenziata da Jessie, una proiezione mentale di sé che la spinge a reagire e una del marito, ormai morto, che invece le rinfaccia con crudeltà tutte le sue insicurezze e le menzogne che ha dovuto raccontarsi per soffocare quel dolore mai realmente affrontato ma che deve irrimediabilmente prendere di petto e superare per poter finalmente vivere una vita degna di tale nome. Come una reincarnazione di Odisseo o Enea la donna è costretta a una discesa negli inferi, rappresentati in questo caso dalla notte passata ammanettata al letto in balia dei propri demoni (e non solo), per sconfiggere la morte stessa e riemergere nel mondo dei vivi, del quale in realtà aveva smesso di far parte da anni, da quella fatidica eclisse trascorsa insieme al padre.
Proprio l'eclisse rappresenta la punta di diamante del lavoro visuale svolto dal regista di Oculus (2013), grazie alla potenza del contrasto tra la gamma cromatica vicina a un effetto seppia del ricordo e l'espressionistica sovrapposizione di nero e rosso del momento in cui il sole viene coperto dalla luna. Quest'ultima immagine torna in seguito a tormentare ogni notte il personaggio interpretato magistralmente da Carla Cugino, divenendo il simbolo stesso della discesa negli inferi affrontata dalla donna, il cui incipit diventa netto grazie alla regia di Flanagan, il quale oppone inquadrature fisse e geometricamente pulite nel rassicurante incipit ad altre decisamente più perturbanti e chiaroscurali dal momento in cui Gerald muore e inizia l'incubo della moglie.

Tirando le somme Gerald's Game è un'opera che lavora su diversi strati, dalla suspense tipica del prodotto di genere fino a quello più psicanalitico attraverso gli scambi di battute tra la coppia protagonista e la regia personalissima del suo director,e soprattutto lo fa con efficacia, senza relegare maggiore o minore importanza a un dato livello di fruizione, esattamente come i grandi horror sanno fare.
P.s. Occhio alle citazioni alla precedente filmografia dello stesso Flanagan e a un riferimento imprescindibile per l'esplorazione dell'inconscio nella settima arte: David Lynch.

mercoledì 13 settembre 2017

T2 TRAINSPOTTING: L'INFINITO TUNNEL DEL PASSATO

In una sequenza del celeberrimo Tre uomini e una gamba (Aldo, Giovanni e Giacomo, Massimo Venier; 1997) Giovanni chiede all'amico Aldo se avesse mai rischiato e l'altro risponde "una volta ho messo 2 fisso a Inter-Cagliari". Della stessa portata è l'azzardo a opera di Danny Boyle nel girare con uno scarto di venti anni un sequel della sua opera più famosa, quel Trainspotting (1996) che oggi è simbolo di un'intera generazione e oggetto di culto per ogni milioni di cinefili. Ad aumentare ancora il livello di sfida è la scelta di ripudiare quasi completamente il seguito letterario del romanzo su cui era basato il prequel, optando per uno script quasi completamente originale.
Arrivato nelle sale nel 2017, T2 Trainspotting ha dovuto lottare con forza contro i pregiudizi di critica e fan, uno scontro dal quale è uscito vincente solo a metà: dal lato commerciale gli incassi hanno sicuramente deluso le aspettative ma la riuscita filmica è stata (per fortuna) riconosciuta da gran parte della critica.

Protagonista del film è nuovamente Mark Renton (Ewan McGregor), l'ex eroinomane al centro del precedente, il quale torna in Scozia a venti anni dalla sua fuga con i soldi rubati agli amici. Al suo rientro troverà Spud in procinto di suicidarsi e Sick Boy, o meglio Simon, alle prese con un racket di estorsione verso mariti fedifraghi e una compagna molto più giovane, Veronika, che lo comanda a bacchetta. Ovviamente i suoi due amici non hanno digerito il suo tradimento ma il vero angelo della vendetta diventa Begbie (Robert Carlyle), che evade dal carcere dopo venti anni di detenzione.

Come ho anticipato qualche riga fa, i dubbi intorno alla riuscita di T2 erano molti, soprattutto a causa dell'ingombrante primo capitolo, il cui fandom (come spesso accade purtroppo) aspettava la pellicola al varco con torcia e forcone, pronta a distruggerla al primo "errore" o "tradimento" verso il capostipite. Ebbene meglio levarsi subito il dente, questo secondo viaggio nel mondo creato da Irvine Welsh è narrativamente e formalmente assai diverso, quasi agli antipodi e con ottime argomentazioni a suffragarne un distacco così marcato. L'ultima fatica del regista di 28 giorni dopo (2002) abbandona volutamente la voce fuori campo, il tappeto sonoro rock e techno e la lente d'ingrandimento sulla generazione dei giovani della working class negli anni 90, tutti gli elementi distintivi di Trainspotting, per concentrarsi invece sui drammi interiori dei personaggi. Dal macro al micro, dalla sineddoche al crepuscolarismo, dalla gioventù alla maturità. Proprio il tempo assume il ruolo di centro nevralgico dell'intera struttura narrativa. Tutto ruota attorno al passato, dal romanzo di Spud alle serate a base di vecchie partite di Renton e Simon fino all'odio di Begbie. Nessuno è stato in grado di superare la soglia che porta alla maturità e all'accettazione di sé, tutti si trovano a convivere con i sensi di colpa causati da errori scelerati compiuti durante una gioventù (la migliore età secondo il luogo comune) scippata dalla tossicodipendenza. Un tunnel senza via di uscita reso visivamente con maestria da Boyle non tanto attraverso la parola, bensì con le immagini e il montaggio di esse, come accade nel grande cinema. I continui found footage provenienti dal prequel o che addirittura mostrano l'infanzia dei protagonisti sono tutt'altro che un semplice easter egg verso i fan, esemplificano in maniera chiara quanto il passato sia ancora ben vivo nel loro presenti e ne configuri le esistenze come un fantasma che infesta una casa. Allo stesso modo il ricorso a colori saturi e antinaturalistici in molte sequenze (ad esempio nella reunion finale nel pub tutta ammantata di verde) non risulta una sterile citazione postmoderna dell'estetica da spot pubblicitario tipica della seconda metà degli anni 90, di cui lo stesso regista inglese è considerato uno dei maggiori fautori, né un appiattirsi all'attuale tendenza dei colori al neon. Anche questa ricerca cromatica tende a mostrare, proprio a causa di questi riferimenti cinematografici forti, quanto peso abbia ancora oggi ciò che è stato, sia nelle vite di Mark e compagni, sia nel reale dell'uomo di tutti i giorni e di conseguenza persino nella settima arte contemporanea, tutta impregnata da sequel, remake, reboot e saghe divenute serial televisivi trasposti in sala.

A supporto dell'estro narrativo e visivo del cineasta britannico si confermano i quattro mattatori del cast, i quali anche dopo due decenni di distanza mostrano una familiarità reciproca e una sintonia con i personaggi interpretati tali da rendere quasi impercettibile questo gap temporale.
In conclusione T2 Trainspotting si rivela un film dotato di una propria innegabile personalità, mai succube delle qualità del prequel e specchio della maturità artistica e umana raggiunta dall'intera macchina cinematografica che lo muove.

lunedì 7 agosto 2017

OKJA: LA FIABA ANTI-FIABE

Reso celebre ancora prima di essere ufficialmente distribuito sulla piattaforma di video on demand Netflix, Okja (2017) è il più recente film scritto e diretto da Bong Joon-ho, per la seconda volta impegnato in una produzione occidentale. La sua fama è dovuta, purtroppo, in gran parte alle polemiche nate durante l'ultimo Festival di Cannes intorno alla liceità di candidare alla Palma d'oro un prodotto che evita la distribuzione in sala. Una diatriba figlia dell'ormai ben nota dialettica sala cinematografica vs dispositivi mobile e che alla fine ha avuto come unico risultato quello di aumentare l'interesse, anche del fruitore medio di Netflix, verso una pellicola che altrimenti sarebbe molto probabilmente stata visionata soltanto dalla nicchia di appassionati di cinema coreano o d'autore in generale.

Al centro delle vicende narrate si trova la creatura che dà il nome al lungometraggio, un maiale gigante nato attraverso esperimenti genetici da parte di una multinazionale intenzionata a sfruttare questa nuova specie animale come risorsa alimentare. Per dieci anni Okja viene affidata a una famiglia coreana, della quale fa parte Mija, una ragazzina con la quale forma una coppia inseparabile.
Almeno fino a quando non arriva il momento per l'azienda di riappropriarsi de proprio investimento, cosa che costringe la giovane ad abbandonare le montagne sulle quali vive per salvare la sua migliore amica, ricevendo l'aiuto inaspettato di uno strambo gruppo animalista.

A un primo, superficiale sguardo la storia portata in scena dal cineasta sudcoreano potrebbe sembrare una sorta di sintesi tra i lavori di Hayao Miyazaki e quelli maggiormente fiabeschi di Steven Spielberg (ad esempio E.T. l'extra-terrestre del 1982) e in effetti molta critica, specie in Italia, l'ha frettolosamente, seppur in molti casi anche con toni entusiastici, etichettata in questi termini. Eppure l'intera opera è disseminata di indizi che mettono in dubbio la sua sincera fedeltà ai canoni della fiaba. Il primo di questi è l'ambiguità morale che serpeggia in ogni singolo personaggio rappresentato, esattamente l'opposto rispetto alle regole di questo genere narrativo: i due gruppi che si contendono il destino dei super maiali (multinazionale e animalisti) non appaiono mai completamente buoni o cattivi ma per lo più sembrano maschere grottesche, marionette disumanizzate anche dalla recitazione tutt'altro che stanislavskiana di Paul Dano o di Jake Gyllenhaal, così come la piccola Mija ribalta completamente lo stereotipo della innocente ed empatica protagonista delle fiabe con il suo temperamento duro e sospettoso verso tutti, escludendo ovviamente la sola Okja.

Tanti indizi disseminati diventano una certezza nella sequenza che precede il finale, un vero e proprio ribaltamento morale rispetto a tutto ciò che lo spettatore aveva osservato e imparato nei minuti precedenti che non può assolutamente appartenere al bagaglio etico da lieto fine e che anzi è in realtà ben più vicino alla poetica perseguita nelle precedenti fatiche dell'autore di Snowpiercer (2013). Una poetica improntata a una totale disillusione nei confronti dell'essere umano e delle semplicistiche distinzioni morali tra buoni e malvagi, nata dalla consapevolezza di far parte di un mondo in gran parte grigio e privo di regole, nel quale soltanto la natura (per estensione gli animali) possiede una certa nobiltà spirituale.

A tanta cura per le sfumature narrative e recitative si aggiunge l'enorme talento visivo di Bong Joon-ho, capace di passare dalle panoramiche estremamente liriche nelle sequenze ambientate sui monti coreani agli adrenalinici inseguimenti tra le strade e la metro di Seul, fino alle claustrofobiche inquadrature negli squallidi mattatoi americani. In circa due ore il cineasta orientale riesce a mescolare registri formali provenienti dai più disparati generi o stili, senza mai perdere di vista i temi a lui cari ma al contempo deliziando la vista di qualsiasi amante delle belle immagini.
In conclusione consiglio veramente a chiunque la visione di Okja, specie a tutti coloro che, dopo averne letto la sinossi, tendono a ignorarlo in quanto semplice favoletta per bambini (perdonatemi l'off-topic ma la confusione tra i termini "fiaba" e favola" è veramente fastidiosa)e che invece si ricrederebbero dopo pochissimi minuti di visione.

lunedì 24 luglio 2017

SPLIT: IL SUPERPOTERE DELLA DIVERSITÀ

In seguito a numerose delusioni sia a livello commerciale che di critica, proprio nel momento più buio della propria parabola discendente M. Night Shyamalan ha dato un importante segnale di ripresa con l'ottimo horror a basso costo The Visit (da me analizzato qui) nel 2015. A questo punto era lecito aspettarsi un banco di prova che potesse confermare l'effettiva rinascita dell'ex prodigio di Hollywood e così l'anno seguente arriva in sala Split, un altro prodotto a basso costo finanziato dalla Blumhouse di Jason Blume ma soprattutto un successo strepitoso di pubblico molto ben recensito in tutto il mondo. Un trionfo che rilancia definitivamente una carriera che sembrava ormai distrutta per sempre.

Come in ogni opera dell'autore de Il sesto senso (1999) dilungarsi troppo sulla trama priverebbe la visione di una percentuale molto alta e quindi tutto ciò che trovo congruo rivelare è che a centro della narrazione si trova il rapimento improvviso di tre adolescenti, tra cui la problematica ma acuta Casey (Anya Taylor-Joy), da parte di Kevin (James McAvoy), un uomo affetto da un grave disturbo dissociativo dell'identità che lo ha portato a farsi contenitore di ben ventitré (almeno inizialmente) diverse persone.

Se esiste un filo rosso che collega ogni singola pellicola diretta da Shyamalan è la volontà di scardinare dall'interno gli stereotipi e potremmo definire Split il punto di arrivo di questa ricerca. Uno dei concetti chiave del cinema americano, fin dai tempi della Hollywood classica, è il genere e proprio per questo viene pesantemente attaccato sbeffeggiato, tanto da trovare all'interno dell'opera continui salti dal thriller al drama, dall'horror al grottesco passando persino per una sequenza musicale volutamente ridicola. Il cineasta di origini indiane dopo aver sovvertito ogni regola narrativa e formale degli horror found footage proprio dal loro cuore, ossia la Blumhouse, ha esteso insomma la portata del proprio attacco, probabilmente con un certo risentimento verso tutti coloro che avevano tentato di intrappolarlo all'interno delle rigide regole del thriller.

Eppure non resta soltanto metacinematografica la critica espressa, anzi diventa ancor più efficace e toccante per un pubblico di qualsiasi età e istruzione nel momento in cui gli stereotipi presi di mira sono quelli della vita di tutti i giorni, con particolare attenzione per la visione che la società odierna ha di coloro che sono affetti da disturbi mentali. In un mondo come il nostro, basato sulla brama di successo individuale, sul narcisismo spasmodico e sui privilegi di pochi a discapito di molti i diversi divengono nient'altro che appestati, sottouomini da rilegare all'interno di ghetti, talvolta persino fisici, e chi è più diverso dal nostro concetto di normalità del malato? La malattia non costituisce un semplice momento di fragilità, bensì un vero e proprio marchio di infamia e ovviamente quello maggiormente infamante appartiene ai disturbi psicologici a causa della loro natura sfuggente e spesso ancora oscura persino ai ricercatori più avanguardisti. In un clima di tanta diffusa diffidenza nei confronti di chi è affetto da tali patologie assume i contorni di una rivoluzione totale l'esistenza stessa di Kevin, un uomo capace di adattare il proprio fisico a tutto ciò che elabora la sua mente con tanto di conferme scientifiche da parte della propria terapista. Capacità simili accomunano il giovane uomo a nessun altro suo simile poiché nella nostra conoscenza del mondo chi altri può avere tanto potere (spesso il personaggio sottolinea la propria potenza) se non un semidio e nel nostro mondo contemporaneo, soprattutto cinematografico, le forze divine che meglio conosciamo sono i supereroi dei fumetti. Tutto ciò che per gli antichi sono stati Achille, Eracle, Bellerofonte e tutti gli altri semidei del mito oggi è incarnato da personaggi come Superman e in fondo Kevin non è molto diverso dalle riletture maggiormente noir e sofferte di molti personaggi dei comics americani.
La coraggiosa scelta di rendere quasi divina la figura di un uomo disturbato a tal punto da uccidere il prossimo non è che la rottura attraverso la quale il regista di Signs (2002) dichiara la sua posizione affettuosa verso chiunque si senta diverso o venga trattato come tale, un voler trasformare la menomazione in pregio unico con una tenerezza che ricorda gli inizi carriera di Tim Burton.
Da un punto di vista formale la regia non fa che sottolineare la poetica del suo autore attraverso inquadrature fisse che esaltano la similitudine tra gli spazi chiusi e claustrofobici in cui vive l'uomo dalle ventitré personalità e la mente di quest'ultimo, come sottolinea verso il finale il passaggio agli esterni nel momento in cui raggiunge la piena consapevolezza del potere della propria psiche. Altrettanto degna di nota è l'interpretazione di McAvoy, capace di trasformare completamente mimica, gestualità e voce a seconda della personalità che si trova "sotto la luce" al punto da rendere ancora più evidente la componente metacinematografica della pellicola.

In conclusione Split non solo rappresenta la conferma del ritorno sulla strada maestra di un autore unico nel cinema statunitense ma è anche, a tutti gli effetti, uno dei migliori film dell'anno e se fruito insieme al precedente Unbreakable (2000) forma un dittico straordinariamente originale sul mito dei supereroi.

lunedì 17 luglio 2017

LA COLLINA DEI PAPAVERI: L'ADOLESCENZA DEL GIAPPONE ATTRAVERSO UNA COPPIA COMUNE

In seguito al non esaltate esordio alla regia con I racconti di Terramare (2006) Goro Miyazaki necessitava di un lavoro che ne affermasse finalmente il talento, cosa tutt'altro che semplice per chiunque abbia un genitore così ingombrante come Hayao, e così nel 2011 dirige La collina dei papaveri. Scritto proprio dal padre il lungometraggio convince appieno critica e fan dello Studio Ghibli, con particolari meriti riservati proprio alla capacità dell'autore di distanziarsi dallo stile paterno trovando quella quadratura del cerchio che era mancata nell'opera prima.

Protagonista delle vicende narrate è Umi, una studentessa sedicenne della Yokohama del 1963 (l'anno successivo si sarebbero svolte le Olimpiadi di Tokyo) che vive insieme alla nonna in un ex-ospedale trasformato in locanda, della quale per altro si occupa quasi interamente la ragazza. La sua vita scorre in maniera piuttosto semplice, scandita da una routine che comincia e finisce ogni giorno con dei segnali nautici che la giovane manda attraverso una bandiera davanti casa. Un giorno a scuola si scontra, in tutti i sensi, con il diciassettenne Shun, studente che si occupa del giornale della scuola. Il loro incontro cambierà le vite di entrambe e persino il futuro dell'edificio storico in cui si riuniscono i club scolastici.

In questo secondo lungometraggio Goro Miyazaki abbandona totalmente le atmosfere fantasy e fiabesche dell'esordio e sembra averne giovato sia narrativamente che formalmente. Sebbene La collina dei papaveri abbondi di elementi estremamente noti agli appassionati di animazione giapponese non può non affascinare e far riflettere la sensibilità, anche intellettuale, con la quale viene ricreato un periodo fondamentale nella storia del paese del sol levante: quei primi anni '60 che hanno visto la rinascita economica del paese in seguito al tragico epilogo del secondo conflitto mondiale. Anni di grande fermento segnati da una nuova speranza in un futuro positivo per le nuove generazioni insomma, eppure funestato da un conflitto fortissimo proprio tra questa voglia di futuro e quel passato intriso di tradizioni e storia. Un passato che aveva effettivamente prodotto mostri, come l'imperialismo e le conseguenti guerre sfociate nel disastro atomico, ma anche secoli di cultura e arte da preservare. Esattamente all'interno di questa dialettica futuro/tradizione si muovono i ragazzi della scuola frequentata dai protagonisti e sarà proprio Shun a dettare la linea vincente per il Giappone, con un intervento durante un'assemblea al limite della rissa nel quale afferma l'impossibilità di costruire un futuro senza la storia.

Il fascino innegabile di questa riflessione si intreccia con notevole perizia al rapporto di amicizia (e poi d'amore) che nasce tra  Umi e Shun, capace di diventare così forte da riuscire a superare persino alcune scioccanti scoperte sul passato di uno dei due, il tutto restando sempre in un registro quotidiano che rende i sentimenti dei due ragazzi estremamente vicini ai trascorsi di ognuno di noi. La love story non si snoda mai attraverso sequenza in cerca di un pathos fasullo tipico di tanta commedia romantica, bensì resta all'interno di quelle esperienze piuttosto banali tipiche dell'adolescenza che in seguito diventano mitiche attraverso il filtro del ricordo. Parlando proprio di adolescenza non può non risultare evidente il ricorso alla sineddoche da parte del regista nel momento in cui ambienta proprio nel 1963 l'affair tra i due giovani, visto che il periodo descritto in precedenza può essere a pieno diritto considerato l'equivalente dell'adolescenza umana per il Giappone moderno, una fase di transizione tra gli orrori dell'infanzia (Hiroshima e Nagasaki) e il benessere economico dell'età adulta.

In definita La collina dei papaveri riesce nell'ardua impresa di intrattenere e commuovere lo spettatore di ogni tipo senza rinunciare a una finezza intellettuale come l'accomunare la Storia (quella delle classi egemone, dei grandi avvenimenti politico-militari) alla storia delle persone comuni, attraverso la poesia del racconto, degli splendidi colori in ogni inquadratura e della colonna musica, vero gioiello di semplicità.

venerdì 14 luglio 2017

SI SENTE IL MARE: L'AMORE ADOLESCENZIALE TRA LIRISMO E SEMPLICITÀ

Nato come primo (e ultimo) esperimento televisivo del celebre Studio Ghibli con alla regia un giovane animatore, Si sente il mare viene mandato in onda in Giappone nel 1993 e alcuni mesi dopo distribuito nelle sale cinematografiche. L'opera diretta da Tomomi Mochizuki non riuscì nell'intento di avviare una serie di prodotti televisivi della casa di produzione a basso budget, proprio a causa dell'aumento imprevisto dei costi di produzione, ma ha ottenuto nel corso degli anni un ottimo riscontro critico che ha portato i distributori italiani a doppiarlo e, finalmente, renderlo reperibile nel nostro paese lo scorso anno.

Il film esplora, attraverso vari salti temporali in entrambe le direzioni, il triangolo sentimentale che viene a crearsi in maniera quasi involontaria tra studenti delle superiori: il protagonista Morisaki, il suo migliore amico Matsuno e la nuova arrivata a scuola Muto. Inizialmente è Matsuno a invaghirsi della ragazza arrivata da Tokyo, tanto da assillare spesso l'amico con le tipiche paranoie dei giovani amori, eppure durante una gita scolastica ad avvicinarsi sempre più sono gli altri due componenti di questo triangolo, superando le maschere che indossano davanti alla maggior parte delle persone ma non senza tensioni e incomprensioni.

Appare più che lapalissiano quanto il lungometraggio non inventi assolutamente nulla da un punto di vista prettamente narrativo, anzi piuttosto non fa niente per nascondere l'aderenza a certi canoni dello studio giapponese. A compensare la mancanza di originalità è, cosa tutt'altro che banale, il tono generale con il quale l'autore affronta un tema esplorato in lungo e in largo come la scoperta dell'amore e il passaggio dall'adolescenza all'età adulta: non ci sono momenti di sensazionalismo o presunte esplosioni ormonali tipiche di tanta narrativa "coming of age", bensì piccoli frammenti di vita quotidiana, esperienze che tutti noi abbiamo potuto esperire senza dargli inutili e pesanti toni epici o melodrammatici. Sequenze come la notte in hotel passata da Morisaki e Muto sono piccoli gioielli di semplicità emotiva, di onestà nella scrittura che non possono non riesumare ricordi lontani nella mente di qualsiasi spettatore.

Ovviamente non sarebbe possibile ottenere tanta delicata potenza emotiva senza una cura formale degna di questo nome. La qualità di disegni e animazioni si avvicina molto ai migliori prodotti di Isao Takahata, nonostante il budget minore, così come la scelta di inquadrature fisse ricche di giochi prospettici e con una durata spesso prolungata, una dilatazione dei tempi che permette una maggiore riflessione e reminiscenza nel pubblico. Tutt'altro che casuali sono le numerose vedute del mare, una presenza costante per tutta la durata del film che assume molteplici valenze simboliche, come la mutevolezza che accomuna le onde e le emozioni umane.
Si sente il mare si può considerare, in definitiva, un'esperienza filmica tutt'altro che mediocre o dimenticabile come molti giudizi italiani l'hanno definita; piuttosto la definirei una di quelle piccole gioie vissute durante gli anni della scuola e che con il passare del tempo, attraverso il costante lavoro della memoria, diventa un ricordo capace di farci sorridere.

martedì 11 luglio 2017

COME UN TUONO: TRAGEDIA ATTICA AL TEMPO DELLA PICCOLA PROVINCIA AMERICANA

Reduce dal fortunatissimo Blue Valentine (2010) Derek Cianfrance scrive e dirige due anni dopo The Place Beyond the Pines, o in Italia Come un tuono, un vero e proprio banco di prova per la sua carriera. Nonostante le reazioni non siano state universalmente entusiastiche come per il precedente lavoro il film ha ricevuto il plauso della critica e i favori del pubblico, specie per l'interpretazione di Ryan Gosling.

L'arco narrativo può essere suddiviso in tre atti, quasi autoportanti come veri e propri mediometraggi all'interno di una trilogia. Il primo ha per protagonista proprio il personaggio interpretato da Gosling, un motociclista chiamato Luke che si esibisce in una sorta di circo itinerante come stuntman. Una sera dopo lo spettacolo scopre di avere un figlio con una sua precedente amante (Eva Mendes), così abbandona la carriera per stabilirsi nella cittadina in cui vivono i due e trova lavoro come meccanico. Non riuscendo a guadagnare abbastanza da mantenere quella che vorrebbe far diventare una vera e propria famiglia inizia a darsi alle rapine in banca. Il secondo atto inizia nel momento in cui il destino del bel motocilista si incrocia con quello di Avery Cross (Bradley Cooper), poliziotto con poca esperienza ma grande ambizione, il quale eredita i panni del protagonista e di eroe del proprio distretto, un luogo in cui la corruzione dilaga a sua insaputa. Infine l'ultimo atto, del quale non rivelo i protagonisti causa spoiler, chiude il cerchio.

Fin dal breve sunto della trama appare chiara l'ambizione insita in questa terza fatica del giovane cineasta statunitense e la marcata ispirazione al teatro tragico attico, un mondo in cui nessuno è prettamente buono o solamente cattivo e nel quale l'unica legge vigente è quella del fato, monarca assoluto che punisce senza pietà chiunque abbia peccato. Non importa quanto un uomo cerchi di rimediare alla sua colpa, nella visione tragica della vita questi non potrà sottrarsi al castigo divino. Non c'è alcuna traccia di libero arbitrio o redenzione in Come un tuono, chi sbaglia paga e non solo lui ma persino le generazioni successive ne ereditano il peccato originale (unico principio cristiano presente nell'opera) senza però poter annullarlo attraverso il rito del battesimo.

Una mancanza, quella della libertà dell'individuo, sottolineata a più riprese dalla macchina da presa di Cianfrance, come sottolinea il meraviglioso quanto conturbante (in senso freudiano) piano sequenza iniziale, durante il quale la camera segue da una distanza così ravvicinata Luke da sembrare quasi uno spettro alle sue costole e lo stunt all'interno di una sfera metallica sembra essere il simbolo dell'intera vicenda narrata: una storia di uomini in gabbia, schiavi di dinamiche ben più grandi di loro. Certo all'interno di questa cella il giovane corre e si diletta con il proprio talento ma finisce per schiantarsi irrimediabilmente, proprio come un tuono. Sintomi e prove di questa chiave di lettura dell'epica costruita dall'autore di Blue Valentine sono anche le numerose trasgressione che si concede rispetto ai codici dei generi americani che, soprattutto nel western e nell'action, privilegiano figure di uomini-titani capaci di ergersi contro una sorte avversa risultandone vincitori, in pieno rispetto del sogno americano del self-made man. Non in questo caso.

In conclusione consiglio la visione di The Place Beyond the Pines non solo a chi era rimasto folgorato dalla precedente pellicola del suo regista ma a chiunque abbia l'ostinazione di cimentarsi con un'opera tanto amara quanto elegantemente realizzata, capace di rendersi memorabile grazie proprio ai suoi azzardi.

martedì 20 giugno 2017

TAKE SHELTER: LA MALATTIA DI UN UOMO COMUNE SINEDDOCHE DI UN MALE GLOBALE

Risale all'ormai lontano 2011 la seconda fatica del talentuoso Jeff Nichols, il pluripremiato Take Shelter. La pellicola venne presentata al Sundance dello stesso anno per poi venire proiettata alla settimana della critica del Festival di Cannes, con tanto di vittoria. A conferma del prestigioso riconoscimento la critica si è dimostrata estremamente favorevole nei suoi confronti, nonostante uno scarso interesse da parte del pubblico.

Le vicende narrate ruotano attorno al semplice operaio dell'Ohio Curtis (Michael Shannon), marito della dolce ma allo stesso tempo determinata Samantha (Jessica Chastain) e padre di Hannah, bambina molto piccola affetta da mutismo, probabilmente non dalla nascita. La loro vita sembra scorrere senza intoppi fino a quando l'uomo non comincia a soffrire di strani incubi, tutti accomunati da una tempesta. Ai sogni iniziano ad aggiungersi anche allucinazioni riguardati sempre il suddetto diluvio, cosa che porta Curtis a credere di essere schizofrenico, proprio come sua madre, e a compromettere i rapporti con le persone care e il proprio lavoro.

Per il film della propria conferma Nichols sceglie coraggiosamente di attingere ad alcuni spunti narrativi di genere (per la precisione appartenenti al thriller psicologico e all'horror) per aumentare la potenza visiva e metaforica di quello che, soprattutto formalmente, è a tutti gli effetti un prodotto prettamente autoriale, nell'accezione cara alla tradizione europea. A confermare questa volontà vi sono le già citate visioni del protagonista, le quali da un lato richiamano un certo immaginario apocalittico tipico dell'horror soprannaturale e si confondono molto spesso con le sequenze prettamente reali, come accade in molti esponenti del thriller psicologico, ma dall'altro lato vengono inserite con grande precisione in un registro formale di assoluta compostezza e precisione. La macchina da presa non diviene mai nervosa ed evita eccessivi movimenti, privilegiando al contrario inquadrature fisse di grande eleganza e la profondità di campo, soluzioni che, coadiuvate da un montaggio tutt'altro che rapido, fanno sì che il lungometraggio ripudi le rigide norme dei generi.

A tanta cura formale il cineasta e sceneggiatore statunitense unisce un'attenzione notevole in fase di scrittura per i personaggi: persone comuni, quasi dei simboli della famiglia qualunque americana, il cui equilibrio viene scosso da ignote minacce esterne, il cui carattere straordinario le fa sentire ancora più inadeguate al momento di dover reagire. La difficoltà appena descritta non può non divenire per lo spettatore una metafora o meglio una sineddoche di situazioni che riguardano fette del genere umano ben maggiori, ossia la paura dei paesi occidentali nei confronti delle minacce terroristiche. Sicuramente l'autore (come ha confermato di persona in maniera velata) aveva all'epoca in mente il ricordo ancora vivo nella propria nazione della ferita subita l'11 settembre del 2001, un fulmine a ciel sereno che, come le tempeste immaginate da Curtis, spazzò via tutte le sicurezze di un popolo intero e non solo. Per lo spettatore del 2017 diviene, però, lampante quanto la sineddoche possa calzare a pennello anche con lo scompiglio generato in Europa dagli attentati sempre più frequenti causati dagli esponenti dell'Isis, soprattutto a causa del senso di impotenza e di completo smarrimento vissuto dal cittadino medio di nazioni come la nostra Italia.

Al di là di ogni riferimento alla cosiddetta "grande storia" resta di grande pregio la costruzione psicologica dei protagonisti in sé, grazie anche a un lavoro straordinario degli interpreti, tra i quali spicca la prova di Michael Shannon, che rifiuta le solite esagerazione cinetiche attribuite alla maggior parte dei personaggi affetti da malattie mentali optando per una caratterizzazione fatta soprattutto di sguardi pregni di significanti e una stasi del corpo che rimanda al blocco provocato dalla paura.
Tirando le somme finali non posso non consigliare a tutti voi almeno una visione di Take Shelter, un film di rara bellezza estetica sommata ad una altrettanto rara sensibilità nei confronti dell'uomo comune, figura troppo spesso screditata di questi tempi e a queste latitudini.

martedì 13 giugno 2017

THE WITCH: TRA CINEMA MODERNO E HORROR CONTEMPORANEO

Presentato per la prima volta all'edizione 2015 del Sundance Film Festival, The Witch rappresenta il lungometraggio d'esordio per Robert Eggers, autore anche del soggetto e della sceneggiatura. In seguito al successo riscosso ai festival il film ha ricevuto una distribuzione mondiale l'anno successivo, ottenendo un ottimo riscontro anche commerciale, tanto da farlo diventare immediatamente il fenomeno horror dell'anno. Scopriamo adesso se tanto clamore sia quanto meno giustificato dalla qualità del prodotto.

Ambientata nel New England del diciassettesimo secolo la pellicola segue le vicende di una famiglia puritana che, a causa delle convinzioni religiose fondamentaliste del pater familias, si ritrova a vivere isolata da tutti nei pressi di una foresta. Il nucleo è composto dai due genitori e cinque figli, il più piccolo dei quali (appena nato) svanisce misteriosamente nella sequenza iniziale. In seguito a questo doloroso evento tra i protagonisti comincia a serpeggiare un crescente sospetto nei confronti dell'altro, mentre realtà e superstizione si mescolano rendendo indistinguibili i propri confini.

Sono principalmente due gli elementi che stupiscono dai primi minuti e che distinguono The Witch da gran parte del genere horror attuale: l'ambientazione storica ricreata con una ricerca filologica meticolosissima (si pensi al linguaggio utilizzato dai personaggi o ai loro costumi) e il ritmo tutt'altro che frenetico, ben lontano dal montaggio da videoclip a cui il cinema mainstream a stelle e strisce ci ha abituati. Con il trascorrere della pellicola in particolare spicca proprio la regia di Eggers, scandita da lunghe inquadrature fisse dal forte richiamo alla pittura fiamminga secentesca esaltate dalla fotografia basata sulla luce naturale ad opera di Jarin Blaschke. Sequenze come quelle ambientate in interni al calare del sole, con la sola luce delle candele come fonte di luce, non possono non richiamare la pittura di Caravaggio, proprio come decenni fa Terence Malick  (con la collaborazione del direttore della fotografia Nestor Almendros) nel  mai troppo lodato I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978).

Tanta eleganza visiva non diviene mai puro esercizio di stile grazie a una sceneggiatura votata all'ambiguità morale e percettiva, una vera e propria cifra stilistica distintiva dell'intero film. Centellinando i momenti realmente horror il giovane cineasta americano riesce a creare un'atmosfera opprimente e cupa nella quale far esplodere, durante la seconda metà, tutto il rancore e la diffidenze che si è venuta a creare nella religiosissima famiglia rappresentata. Religione che si trova perennemente al centro della narrazione in quanto causa dell'isolamento dei personaggi rispetto al resto del mondo e filtro attraverso la quale ogni vicenda viene vissuta, specie quelle maggiormente dolorose. Proprio a causa di questo potente velo in grado di deformare la realtà diviene difficile affrontare da un punto di vista prettamente empirico ciò che accade nelle sequenza finali: non intendo addentrarmi in spoiler dannosi anche perché ciò che risulta davvero degno di nota sono l'enorme mole di simbolismo creata dai piani lunghi del regista e la profonda ambiguità di tutto ciò a cui lo spettatore assiste. La mancanza di certezze evidenti ha sempre costituito il vero e proprio distinguo del cinema moderno rispetto a quello classico, insieme alla priorità dell'immagine rispetto alla narrazione e alla negazione poetica delle regole della grammatica filmica, tutte caratteristiche rintracciabili nel film in analisi, come se il giovane autore avesse utilizzato l'impalcatura del genere (in questo caso horror) solamente per poterne sfruttare l'enorme mole di immaginazione e allargare infine il grado di ambiguità persino alle ambizioni del film stesso.

In conclusione The Witch può essere considerato uno dei migliori lungometraggi d'esordio degli ultimi anni, un esempio di come ormai la vecchia dialettica tra cinema di genere d'autore sia superata e soprattutto di quanto il cinema possa ancora essere appetibile per il grande pubblico senza perdere la ricercatezza del linguaggio.

martedì 30 maggio 2017

ARIZONA DREAM: IL REALISMO MAGICO NELLA TERRA DEI SOGNI

Risale all'ormai 1993 (esattamente il mio anno di nascita, per intenderci) la prima e finora unica escursione negli States del maestro jugoslavo Emir Kusturica, arrivata nelle sale con il titolo Arizona Dream. Nonostante una gestazione travagliata e la limitatissima distribuzione, soprattutto negli USA, la pellicola ha ricevuto un'accoglienza calorosissima dalla critica mondiale, al punto da vincere il premio della giuria al Festival di Berlino.

Protagonista è il poco più che ventenne Axel (Johnny Depp), un giovane fuggito a New York, in seguito alla morte dei genitori, dove lavora al dipartimento per la pesca e la caccia, vista la sua passione per i pesci. Il ragazzo viene convinto dall'amico di sempre Paul (un irresistibile Vincent Gallo) a tornare a casa in occasione delle nozze dello zio Leo. Questi cerca di convincerlo a lavorare per lui nel proprio salone d'auto attraverso una settimana di prova, durante la quale Axel conosce due donne tutt'altro che comuni: Elaine, un'attraente vedova quarantenne, e la figliastra Grace, sempre intenzionata a suicidarsi. Tra la donna ormai matura e il protagonista scoppia un forte sentimento che li porta, contro tutto e tutti, a vivere insieme e a costruire un aereo per scappare in Alaska, la terra dei sogni del ragazzo.

Fin dalla prima immaginifica sequenza appare chiara la direzione che anche questa fatica statunitense di Kusturica perseguirà per tutta la sua durata: un susseguirsi di umorismo grottesco mescolato a momenti di grande intensità tragica, tutto filtrato attraverso l'apparente mancanza di logica tipica del sogno. Proprio come esplicitato dalla voce fuori campo di Johnny Depp i sogni sono al centro della pellicola, poiché non vi è altro modo veramente esaustivo per conoscere una persona se non attraverso ciò che sogna.
Come avrete notato dalla breve sinossi non vi sono molti eventi narrati, l'intera linea narrativa è una sorta di catena di piccoli momenti di apparente quotidianità resi straordinari dalla personalità dei personaggi messi in scena, intervallati a loro volta dai sogni a occhi aperti di Axel. Esemplare per fascinazione e pregnanza di significati la sequenza in cui si vede un pesce volare per le strade americane, una metafora di straordinaria potenza dello smarrimento di chi vive quella fase della vita a cavallo tra l'adolescenza e l'età adulta, quando l'individuo si trova a vagare in un oceano di possibili direzioni da seguire per potersi realizzare. Eppure, come dice spesso Grace, molti finiscono per prendere la via più odiata ma anche più semplice, il replicare la vita dei genitori. Ecco dunque scovato l'altro grande tema che scorre lungo tutto il lungometraggio: l'eterno dualismo genitori vs figli, il desiderio freudiano di uccidere i padri per crearsi una propria personalità e al contempo la rassegnazione nel non riuscire a uscire dall'ingombrante ombra di chi ci mette al mondo.
Simbolo di questi conflitti tra sogni irrealizzabili e la squallida realtà fattuale risulta per il cineasta europeo l'America, la terra dove tutto è possibile, la patria del grande cinema (per niente casuali le citazioni di Scorsese e Hitchcock) e delle Cadillac ma anche il luogo in cui un cittadino straniero scopre che tutte queste cose sono in realtà ombre, sabbia negli occhi che impedisce di vedere quanto dura sia la vita per l'uomo comune. In fondo chi di noi cinefili non riesce a provare una certa empatia per Paul? Privo di talento, in fondo al suo cuore conscio che un giorno dovrà trovare un lavoro vero, di quelli che fanno le persone umili, eppure imperterrito nell'inseguire il sogno di diventare un divo della settima arte, proprio come De Niro e Al Pacino.

In conclusione Arizona Dream può dirsi una riuscitissima trasposizione del cosiddetto realismo magico, tipico della letteratura sudamericana, nel mondo tutto concreto e idealista allo stesso tempo degli Stati Uniti, unicamente grazie alla sensibilità fuori dal comune di un cineasta europeo come Kusturica, amante nel bene e nel male di quel paese simbolo del cinema.

lunedì 24 aprile 2017

A DANGEROUS METHOD: DALLA NUOVA CARNE ALLA RIVOLUZIONE DELLA PSICHE

Dopo una lunga serie di pellicole che ne hanno consacrato la fama di re del "body horror" David Cronenberg ha conosciuto, a partire da A History of Violence (2005), una fase di grande cambiamento nel proprio modo di fare cinema; un cambiamento stilistico che lo porta a presentare al Festival di Venezia del 2011 A Dangerous Method. Il film, già anomala rispetto alle precedenti in quanto adattamento scritto da Christopher Hampton di una propria pièce teatrale, spiazza la critica proprio a causa di un aspetto formale estremamente alieno a ciò che si sarebbe aspettata dal regista canadese, così le reazioni finiscono per rimproverare una certa incompiutezza all'opera. Messa da parte la mia predilezione del tutto personale per l'autore di Inseparabili (Dead Ringers, 1988), scopriamo adesso quanta verità si trova in tali giudizi.

Protagonisti assoluti di questa sorta di biopic sono i celebri padri della psicanalisi Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e Carl Gustav Jung (Michael Fassbender), dei quali viene descritto l'incontro e il successivo mutevole percorso del loro rapporto. I due entrano in contatto attraverso una paziente dell'allora giovane Jung, la russa Sabina Spielrein (una Keira Knightley che purtroppo sfigura palesemente rispetto ai colleghi), la quale diventa prima aiutante del medico e poi persino amante. Attraverso la relazione sessuale, emotiva ma anche intellettuale con questa donna lo psicanalista svizzero compie un ripensamento totale delle teorie del proprio maestro e persino delle proprie convinzioni scientifiche e morali; una trasformazione tutt'altro che indolore.

Associare Cronenberg a generi ben codificati del cinema classico come la biografia e il melò deve essere sicuramente risultato piuttosto indigesto a chi si sarebbe aspettato quanto meno qualche esplosione di violenza se non l'horror degli esordi, un po' come in La promessa dell'assassino (Eastern Promises, 2007); eppure nonostante manchi tutto questo il lungometraggio in analisi rappresenta, a mio parere, una tappa dalla quale l'autore non poteva prescindere per coerenza con la propria poetica. Continuare a perseguire una data poetica non necessariamente implica un immobilismo stilistico e quindi trovo ingiusto rimproverare una ben ponderata scelta autoriale come quella applicata alla regia di A Dangerous Method, una direzione sobria ed elegante, scevra da sensazionalismi splatter o sessuali e che riprende, attraverso la fissità della macchina da presa e la lunghezza della inquadrature, l'origine teatrale del materiale messo in scena.

Nonostante l'insistenza della camera sui corpi persista anche in questa fatica del cineasta (si pensi alla inquadratura del sangue in seguito al primo rapporto sessuale della Spielrein o a quella dall'alto che vede quest'ultima e il suo amante abbracciati in una barca, simile a una bara), ciò che si trova a subire una vera e propria mutazione è stavolta la mente, o meglio il pensiero. Ciò che determina ogni dinamica tra i protagonisti è il mutamento delle convinzioni professionali e filosofico-morali di Jung, il quale inizialmente si dimostra fedele, quasi religiosamente, alle teorie del già celebre collega ma con il subentrare di nuove interessanti figure nella sua vita si ritrova a dover ripensare a tutti i propri principi. Sabina, non a caso una figura femminile, scombussola la rigida idea di famiglia borghese e di rapporto tra medico e paziente dell'uomo mentre la conoscenza approfondita con il padre della psicanalisi ne rivelerà il desiderio (quale ironia in questo) tipicamente freudiano di ammazzare il genitore, ossia di scrollarsi dalle spalle le idee ormai divenute dogmi del più anziano mentore per poter cercare la verità anche attraverso discipline parascientifiche. Fondamentale infine nel percorso di mutazione si rivela anche Otto Gross, un ex psicanalista (interpretato da Vincent Cassel) divenuto paziente dello svizzero che predica con incredibile carisma il ripudio della monogamia e di qualsivoglia limite imposto alla ricerca del piacere da parte dell'essere umano.

In conclusione A Dangerous Method , al netto di una forma che può spiazzare i fedeli di lungo corso della filmografia di Cronenberg, rappresenta un momento imprescindibile nel percorso da quest'ultimo affrontato da ormai decenni: il passaggio da una mutazione dell'uomo attraverso la concretezza della carne a una ottenuta tramite l'astrattezza del pensiero e della morale.

domenica 16 aprile 2017

POWER RANGERS: UNA LEZIONE SUL TERMINE REBOOT

Probabilmente la stragrande maggioranza dei ragazzi nati nel terzo millennio ne ignorano l'esistenza o quasi, eppure per chiunque (sottoscritto compreso) sia nato tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90 Power Rangers è sinonimo di infanzia o pre-adolescenza. Un fenomeno nato grazie a una serie tv prodotta dalla Saban Enterteinment nel 1993 che rileggeva in chiave occidentale una precedente serial giapponese chiamato Himitsu Sentai Goranger (1975-1977). Tentando di sfruttare il momento estremamente redditizio di cinecomics e rivisitazioni di cult della cultura pop di qualche decennio fa ecco che nel 2017 arriva nelle sale Saban's Power Rangers, reboot della prima stagione delle avventure televisive dei cinque guerrieri dai diversi colori diretta da Dean Israelite (Project Almanac, 2015). La pellicola è stata accolta da recensioni piuttosto mediocri da parte della critica, specie quella statunitense, mentre i vecchi fan ne hanno apprezzato il mix tra innovazione e strizzate d'occhio al passato. Scopriamo dunque se, come spesso capita, la verità non si trovi a  metà tra questi due estremi.

Protagonisti dell'omonimo film sono appunto i cinque power rangers, studenti delle superiori completamente diversi tra loro che si trovano loro malgrado a dover cooperare nel momento in cui acquisiscono dei poteri sovrumani grazie a delle monete aliene rinvenute nella cava della loro città, Angel Grove. Il gruppo, inizialmente tutt'altro che affiatato, è formato da: Jason, un promettente talento del football che ha distrutto la carriera per una bravata, Billy, un ragazzo di colore affetto da lieve autismo, Kimberly, ex cheerleader rifiutata dalle compagne per aver diffuso loro foto compromettenti, Zack, giovane di origini asiatiche che non va mai a scuola per poter curare la madre malata, e infine Trini, appena trasferitasi in città e restia ad aprirsi con gli altri. Una volta ricevuti i poteri scoprono che le monete provengono da un'astronave nella quale vivono il robot Alpha 5 e Zordon (Bryan Cranston), il vecchio leader dei rangers adesso intrappolato in una dimensione dalla quale può comunicare soltanto attraverso una parete. L'ex red ranger informa i ragazzi dell'imminente pericolo che corre il pianeta a causa della malvagia Rita Repulsa (Elizabeth Banks), ex ranger del gruppo del padrone della navicella. Soltanto il nuovo gruppo di eroi può salvare la Terra ma per farlo deve riuscire a far materializzare le armature, cosa impossibile senza una connessione emotiva tra i cinque.

Fin dal sequenza di apertura appaiono chiare le intenzioni del regista della pellicola, ossia restare fedele all'ossatura del materiale d'origine potendo però rendere maggiormente adulta e al passo con i tempi tutto il resto e, anche in virtù di tali scelte narrative, applicare uno stile visivo molto personale. L'introduzione di un passato capace di fare luce circa il rapporto tra Zordon, il nostro pianeta,i power rangers e Rita rende dei personaggi a tutto tondo quelli che nella serie televisiva erano soltanto maschere, un processo che diventa ancora più potente e riuscito nel caso dei giovani protagonisti. Ognuno di essi possiede all'interno dello svolgimento lo spazio necessario a tratteggiarne un profilo quanto meno sufficientemente credibile , soprattutto dal momento in cui questi si presentano come figure tutt'altro che tipicamente eroiche o vincenti, quanto piuttosto dei veri e propri loser (utilizzando un termine molto attuale) chiusi ognuno nel proprio personale mondo fatto di sconfitte. Mai in precedenza nel mondo dei blockbuster avevamo visto persone affette da autismo o una cheerleader alle prese con il peso di essersi resa conto di cosa comporti agire da bullo; persino il leader, Jason, scombina il topos del campione sportivo mostrandone la solitudine e il senso di oppressione causato dagli sguardi inquisitori di una città intera. Tirando le somme dei piani narrativi si può dire che lo sceneggiatore John Gatins abbia amalgamato con ottima abilità artigianale la perfetta struttura da origin story di Batman Begins (Christopher Nolan, 2005) e la lunga tradizione di teen dramas americani, ponendo al centro del lungometraggio il tema dell'amicizia e del passaggio dall'adolescenza alla maturità, come testimoniano sagacemente le citazioni di Stand by Me (Rob Reiner, 1986) e The Goonies (Richard Donner, 1985). Tutto senza rinunciare mai a un'ironia cinefila che mette in ridicolo molti luoghi comuni del cinema mainstream (si pensi alla sequenza in cui tutto lascia presagire che la tanto agognata trasformazione stia per avvenire per poi invece risolversi in un fallimento).

Ancora più sorprendente a mio parere è il lavoro svolto sul lato estetico da parte del giovane cineasta sudafricano. Anziché adagiarsi su una aurea mediocritas tipica delle pellicola d'azione ad alto budget tipica degli ultimi anni dimostra fin dall'incipit una notevole perizia con un lungo piano sequenza, tecnica ripresa pochi minuti dopo in quella che forse è la scena più virtuosa dell'intero film: l'incidente d'auto che mette fine alla carriera sportiva del red ranger viene ripresa con un long take estremamente mobile, soprattutto con dei movimenti a 360 gradi, che ricrea con potenza straordinaria la sensazione di trovarsi all'interno del veicolo al momento della folle corsa e dello schianto. In seguito, per tutta la durata della pellicola o quasi, Israelite opta per inquadrature più brevi ma spesso con la camera a mano posizionata in basso rispetto ai personaggi, quasi come a voler avvicinare il suo prodotto ai reportage di guerra, dove ciò che trionfa non è la spettacolarità della violenza, bensì l'umanità di chi ne è investito.
Arrivato al momento di tirare le somme ritengo Saban's Power Rangers, al netto dei propri difetti di gioventù, uno dei pochi reboot degni di tale termine, poiché aggiorna realmente alla contemporaneità un cult del passato, senza cercare facili escamotage ma con la consapevolezza del mondo presente e soprattutto con un senso dell'arte cinematografica ben chiaro.

lunedì 10 aprile 2017

TRAIN TO BUSAN: L'ALBA DEI MORTI VIVENTI COREANI

Reduce da una carriera da regista e sceneggiatore esclusivamente nell'animazione il sud coreano Yeon Sang-ho presenta durante l'edizione 2016 del Festival di Cannes il suo primo lavoro live-action, lo zombie movie Train to Busan. Il lungometraggio si è rivelato un successo strepitoso di pubblico in patria e in numerosi paesi asiatici, oltre ad aver convinto la maggioranza della critica, sia orientale che occidentale, nonostante negli ultimi anni il motivo degli zombie sia stato affrontato in centinaia di film, serie tv, videogame e qualunque altro media al punto da rendere quasi superfluo qualsiasi nuovo tentativo.

Protagonisti assoluti della pellicola diretta dall'autore di The King of Pigs (2011) sono Seok-woo, un egoista broker tutto dedito al proprio lavoro, e sua figlia Soo-an, con la quale ha un rapporto estremamente difficile a causa del suo assenteismo reiterato. L'uomo promette alla piccola, per il suo compleanno, di riportarla a Busan dalla madre e quindi partono per la città in questione in treno. Quello che sembra essere un normale viaggio di qualche ora come tanti si rivela invece una vera e propria discesa negli inferi: a bordo sale una ragazza che si rivela essere infetta da uno strano virus capace di trasformare gli esseri umani in aggressive bestie antropofaghe semplicemente attraverso il morso. La giovane infetta mordendo diventa l'innesco del morbo sul treno, che in breve vede tramutare in queste creature la maggior parte dei passeggeri e del personale a bordo. Soltanto i due protagonisti e una manciata di altre persone, tra cui spiccano il gigante di buon cuore Sang-hwa con la consorte in dolce attesa, un giovane giocatore di baseball con la fidanzata, un barbone, due anziane sorelle e un meschino uomo d'affari.

A causa dell'esplosione del fenomeno zombie di cui ho accennato in precedenza poter apportare un contributo di rilievo a tale sottogenere dell'horror diventa un obbiettivo estremamente arduo, ancora di più per un cineasta coreano, vista la scarsa dimestichezza del cinema dell'orrore asiatico con questo tipo di creature, per di più alla prima esperienza con il live-action. Nonostante tutte queste incognite di non poco conto Yeon Sang-ho dimostra per prima cosa di conoscere bene le proprie fonti, le basi da cui non può prescindere per questo lavoro, come dimostrano le enormi capacità atletiche degli infetti, riprese da 28 giorni dopo (Danny Boyle, 2002), o la scelta di rinchiudere personaggi umani di diversa estrazione sociale in un luogo claustrofobico che richiama la La notte dei morti viventi (1968) e Zombi (1978), entrambi diretti da George A. Romero. Dunque quello a cui assiste il pubblico è semplicemente un pastiche di tutta la filmografia dedicata a tali creature? Non a mio avviso. La grande intelligenza dell'autore di The Fake (2013) si dimostra nel momento in cui rielabora attraverso la propria sensibilità e la propria poetica tutta l'esperienza precedente nel genere. La spietata critica sociale al centro dei lavori del già citato Romero viene decostruita e adattata alla società coreana odierna, ossessionata dal successo personale e irrigidita in una scala piramidale nella quale i più forti (o meglio i più ricchi) sono tenuti a schiacciare i deboli su cui basano il proprio prestigio. In questo modo il treno, il mezzo di trasporto che quasi mai può deviare da un dato percorso prestabilito, diventa metafora del paese d'origine del regista e i sopravvissuti alla prima ondata del virus assumono il ruolo di simboli dei vari gradini della piramide, in cima alla quale si trovano proprio Seok-woo e il manager Yon-suk. Ecco però che nuovamente l'autore devia dal solco tracciato dai suoi predecessori; i personaggi infatti non si limitano ad assurgere alla funzione di simulacri, bensì riescono a rivelare la propria umanità a tutto tondo, come dimostra soprattutto il broker protagonista, il quale emerge alla fine della propria discesa negli inferi come una persona completamente diversa da quella di partenza, un novello Enea che impara ad aiutare il prossimo disinteressatamente e che recupera il rispetto e l'amore della figlia. All'opposto il cinico ed egoista uomo d'affari che ostacola in tutti i modi possibili gli altri superstiti finisce per restare l'unico carattere piatto, limitato a mostrarsi portatore solamente dell'istinto di sopravvivenza in quanto foriero in tutto e per tutto delle istanze disumane della società sudcoreana.

A supporto di una rievocazione del mito di Enea da parte di Yeon Sang-ho vi sono numerose sequenze e scelte visive, alcune quasi letterali, come le costanti fughe dei personaggi in coppie che rievocano direttamente quella dell'eroe troiano con il giovane figlio Ascanio, mentre altre maggiormente sfumate. Tra queste ultime identifico l'espediente della cecità al buio degli zombie, una trovata che permette da un punto di vista narrativo di dare maggiori speranze di salvezza ai poveri protagonisti ma che allo stesso tempo giustifica una serie di sequenze completamente prive di luce che evocano la visione antica degli inferi, un luogo oscuro e popolato da essere che ormai di umano non possiedono altro che il passato, proprio come gli infetti.
In conclusione Train to Busan si rivela, specie per gli appassionati di cinema di genere, una gradita sorpresa in mezzo allo sterminato universo di prodotti dedicati ai morti viventi, ben conscio dei pilastri del passato ma capace di rileggerli in chiave personale e, cosa non da poco, limitando al minimo gli elementi splatter in favore di riflessioni socio-politiche e persino momenti di alto impatto emotivo. In parole povere, un'esperienza assolutamente consigliata.