domenica 6 dicembre 2020

MANK: UN EBBRO DONCHISCIOTTE TRA HOLLYWOOD CLASSICA E L'AMERICA CONTEMPORANEA

 In mezzo alle innumerevoli tragedie che continua a regalare questo nefasto anno, il 2020 è riuscito quantomeno a regalare agli appassionati della settima arte il tanto atteso nuovo film di David Fincher. A distanza di ben sei anni da Gone Girl- L'amore bugiardo (Gone Girl, 2014) il cineasta statunitense torna al lungometraggio con Mank (2020), distribuito, al netto di una sporadica comparsata in poche sale americane, direttamente in streaming attraverso la piattaforma di Netflix, che ha anche finanziato l'intero progetto. Accolto con immediato calore dalla critica d'oltreoceano, scopriamo cosa riserva l'ultimo lavoro dell'autore di Fight Club (David Fincher, 1999).

La pellicola narra, attraverso numerosi salti temporali, la genesi della sceneggiatura di Quarto potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941) per mano di Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman), raffinato scrittore il cui alcolismo cronico, unito a una schiettezza esasperata, gli impedisce di occupare posizioni di maggior rilievo nella cultura del paese e negli ambienti cinematografici. La difficoltosa composizione dello script richiesto dal giovane talento coccolato dalla RKO (interpretato da Tom Burke) si avvicenda ai ricordi e ai pensieri del protagonista, tra i quali spicca l'odio crescente nei confronti William Randolph Hearst (Charles Dance), magnate dei media che finisce per ispirare la figura di Kane all'interno del celeberrimo esordio alla regia di Welles.

Di primo acchito Mank potrebbe apparire come una ennesima ode al cinema che fu, sulla scia di altri lavori in bianco e nero come The Artist (Michel Hazanavicious, 2012) o Roma (Alfonso Cuarón, 2018) diversissimi in realtà già tra di loro. Persino le numerose inquadrature che citano in maniera evidente le inconfondibili angolazioni di Welles o la sperimentale profondità di campo di Quarto Potere potrebbero far pensare a una operazione di cinefilia nostalgica ma di questo sentimento le uniche tracce restano solamente nella cura maniacale con cui Fincher e i suoi collaboratori ricreano gli aspetti tecnici di una pellicola del periodo, sia nella resa visiva che in quella musicale. Tutto il resto, proprio come la sceneggiatura firmata dal padre del regista, il defunto Jack Fincher, ondeggia incessantemente tra passato e presente mettendo in luce soprattutto le ombre che si celano dietro lo sfavillante mondo della celluloide e del contesto politico nel quale respira. Niente di nuovo sotto il sole da questo punto di vista, fin da Viale del tramonto (Sunset Boulevard, Billy Wilder, 1950) il mito scintillante di Hollywood è stato decostruito nella sua disumanizzazione imperante, nel sacrificio dell'arte all'altare degli interessi economici e nella deflagrazione morale di chiunque ne venga a contatto ma in questo caso il vero centro d'attrazione del racconto è il suo protagonista, non l'ambiente in cui si muove.

Il Mankiewicz reso già iconico da Oldman funge costantemente da punto di fuga di ogni singola inquadratura, tutto ciò che lo spettatore vede e percepisce viene filtrato dal suo occhio attento ma, al tempo stesso, indolenzito dall'ennesimo bicchierino. Immobilizzato a letto in seguito a un incidente automobilistico, il protagonista viene mostrato, al contrario, quasi sempre nell'atto di passeggiare, come un viandante di romantica memoria che però si muove non più tra gli sterminati paesaggi delle montagne tedesche, bensì tra le strade e gli edifici fasulli dei teatri di posa losangelini. Proprio per questo suo moto continuo all'interno dei flashback Mank porta alla mente due figure cinematografiche ben più vicine a noi italiani, il giornalista scandalistico Marcello de La dolce vita (Federico Fellini, 1960) e lo scrittore Gep Gambardella de La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013). La coppia di personaggi appena menzionati condividono con lo sceneggiatore di origini ebraiche sia la familiarità con la parola scritta, con la quale si guadagnano da vivere, che una profonda crisi etica, acutizzata proprio da un ambiente nel quale vivono all'insegna della falsità e della meschinità. Tutti e tre vagano attraverso un vacuo circo in cui nessuna vita risulta realmente dotata di un significato per il prossimo, fino a quando non incontrano una figura femminile che risveglia il ricordo per un'innocenza perduta nei meandri del tempo che fu. In particolare il l'attrazione più platonica che sessuale tra Herman e l'attrice Marion Davies (Amanda Seyfried) mostra numerosi punti di contatto con quello che si instaura tra Gep e Ramona. Due donne all'apparenza semplici che accendono un barlume di luce tra le tenebre del processo di autodistruzione in cui vive la coppia di scrittori.

Dalla comparazione tra i tre personaggi in questione emerge anche uno dei temi maggiormente a cuore di Fincher: l'importanza della scrittura. Mank, Marcello e Gambardella nascono come talentuosi letterati che finiscono per appiattirsi al livello di mediocrità pretesa dal milieu in cui lavorano, abbandonando ogni velleità artistica reale e nascondendo il proprio vero io violentato dietro sarcasmo sprezzante e fiumi di alcol. Nella pellicola in analisi, però, la parola scritta diventa anche il mezzo di riscatto per il protagonista, l'oggetto della contesa storica per la firma su uno dei più grandi capolavori della storia del cinema e, soprattutto, il fil rouge che lega il film proprio a quest'ultimo. L'intera struttura narrativa riprende, infatti, la sfrontata assenza di linearità temporale caratterizzante Quarto potere, così come il Kane dal volto di Welles funge da centro di gravità permanente del racconto allo stesso modo del suo creatore nell'opera di Fincher. Senza dover sovrapporre in maniera semplicistica le due figure è possibile desumere che la scelta del regista di Seven (David Fincher, 1997), insieme ai già citati omaggi visuali, sia dettata dalla volontà di riportare alla luce l'autorialità insita nella scrittura filmica, spesso dimenticata in favore del divismo ormai sempre più diffuso dei registi, oltre a quello sempiterno degli attori. In quest'ottica di rivalutazione dell'importanza della sceneggiatura all'interno del cinema, cui contribuisce ovviamente anche la presenza massiccia di dialoghi dalla notevole qualità, assume un senso tutt'altro che iconoclasta anche la caratterizzazione proprio di Welles. Il leggendario cineasta appare nel film sempre in maniera fugace, spesso inquadrato addirittura con tagli chiaroscurali decisamente sinistri ed espressionisti, contribuendo in maniera davvero esigua alla stesura del copione di Citizen Kane. Una coraggiosa decisione che, alla luce anche di alcune dichiarazioni del regista, a mio modo di vedere sottolinea proprio la volontà di sfatare il mito della settima arte come atto creativo individuale del regista, andando per certi versi in controtendenza con le teorie di Alexandre Astruc. Più che un atto di lesa maestà il trattamento destinato all'autore de L'infernale Quinlan (Touch of Evil, Orson Welles, 1958) risulta dunque uno strumento per ricordare al pubblico che non esiste nessun taumaturgo in grado di fare cinema completamente da solo, rendendo al contempo omaggio a uno dei tantissimi artisti rilegati all'oblio da certe distorte visioni della settima arte.

Anche da questo punto di vista Mankiewicz rappresenta in pieno quella figura di Don Chisciotte moderno descritta proprio dal personaggio nel corso di una delle sequenze più memorabili del film, durante la quale lo scrittore, visibilmente ubriaco, descrive con fervore un ex idealista corrotto dal mondo che ha intorno che vive tutte le fasi della vita del futuro Charles Foster Kane ma che cela anche le medesime difficoltà personali vissute dallo stesso sceneggiatore. In fondo Herman ci prova, pur senza risultati, a combattere una battaglia persa in partenza contro la corruzione culturale e morale di Hollywood, trovando persino nell'innocente Marion una sua Dulcinea. Ci prova ma il potere di un creativo sembra arrestarsi dinanzi al denaro e soprattutto all'uso politico dei suoi stessi strumenti di battaglia, come dimostra la disfatta del candidato democratico provocata da un finto cinegiornale pieno di menzogne. Una sconfitta dell'uomo e dell'artista che non può non portare alla mente l'uso strategico di fake news da parte di molti politici attuali per persuadere la parte di popolazione più ingenua. I confini tra passato e presente sono sempre labili all'interno di Mank, un film ambientato all'interno di una delle più grandi crisi dell'America e del cinema a stelle e strisce e girato nel 2020, tra una crisi pandemica ed economica mondiale e un passaggio sempre più netto delle produzioni audiovisive dalla sala cinematografica alle piattaforme di streaming. E ricordiamo che quello di cui vi ho appena parlato è un lungometraggio targato Netflix, diretto da un regista completamente abbandonato dall'ambiente degli studios hollywoodiani.

Passato e presente in totale compenetrazione, proprio come nella rivoluzionaria sceneggiatura di Quarto potere.

giovedì 24 settembre 2020

TENET: LA PRESTIDIGITAZIONE NOLANIANA INCONTRA JAMES BOND

 Il 2020 ha, finora, portato via a tutti noi , in primis vite umane. Tra le vittime dell'ormai famigerato COVID 19 vi è certamente anche il cinema, soprattutto il mondo legato alla visione in sala. In maniera tragicamente simile a quanto accade proprio agli esseri umani, anche in questo caso il virus risulta ancor più letale per la condizione di salute già estremamente precaria nella quale versa da qualche anno la fruizione collettiva dei film, relegata a un ruolo secondario rispetto al più comodo e appetibile universo dello streaming on demand casalingo. La chiusura forzata di gran parte delle sale in tutto il mondo ha costretto, a loro volta, molte produzioni a rinviare la distribuzione sul grande schermo delle proprie opere o addirittura a virare verso il rilascio diretto in home video delle stesse. A tale stallo ha cercato di rispondere uno degli autori maggiormente affezionati alla tradizionale fruizione in sala della settima arte (nonché della pellicola rispetto al digitale): Christopher Nolan. Il cineasta inglese, pur con numerosi ritardi e uno slittamento costante delle date tra un mercato e l'altro, ha scommesso ancora più del suo solito sul futuro dei cinema rilasciando nel corso dell'estate appena conclusasi Tenet, un blockbuster costato circa 200 milioni di dollari e girato in larghissima parte con cineprese IMAX da 70 mm. Un vero e proprio titano lanciatosi in avanscoperta per provare a dimostrare al mondo intero che le "vetuste" sale possono ancora affascinare gli spettatori come mai potrebbe lo schermo di uno smartphone, persino in un periodo di grande incertezza e timore verso il contatto con il prossimo. Scopriamo adesso cosa offre la pellicola in questione oltre a queste, generose quanto ambiziose, velleità .


Delineare la sinossi di un'opera nolaniana risulta sempre un lavoro piuttosto infido, soprattutto quando ci si prefigge di evitare spiacevoli spoiler al lettore. Per questo motivo mi limito ad anticipare che il film mette in scena la missione ai limiti dell'impossibile di un anonimo agente della CIA (John David Washington), noto semplicemente come il "Protagonista", per salvare il mondo da un misterioso dispositivo proveniente dal futuro, in grado di invertire l'entropia di oggetti ed esseri viventi e persino quella del pianeta. La pericolosissima arma si trova nella grinfie del trafficante d'armi russo Andrei Sator (Kenneth Branagh), il cui unico punto debole viene individuato dall'eroe nella consorte Kat (Elizabeth Debicki), che decide di aiutare l'uomo pur di liberare se stessa e il figlio dal giogo del marito. Sebbene l'operazione sia affidata al Protagonista da una agenzia governativa nota come Tenet, l'unico reale supporto alla missione arriva quasi esclusivamente da Neil (Robert Pattinson), mediatore conosciuto in India che cela però molti segreti.


La passione nutrita dal regista di Memento (Christopher Nolan, 2000) per la saga dedicata a 007 non è un mistero, tanto da aver autorizzato in varie circostanze i suoi fan a sperare in un capitolo da lui diretto. Probabilmente a causa dei naturali vincoli dai quali la sua visione artistica verrebbe imbrigliata entrando all'interno di un franchise cementatosi nell'arco di più di cinquant'anni, a oggi Nolan non ha ancora apposto la propria firma a nessuna avventura dell'agente segreto britannico ma è tutt'altro che semplicistico vedere in Tenet una sua, personale, rivisitazione del mito bondiano. Sottraendo la complessa stratificazione di elementi fantascientifici e un montaggio volutamente anticlassico, il film rivela difatti una struttura narrativa pienamente aderente al canone nato con Agente 007 - Licenza di uccidere (Dr. No, Terence Young, 1962). Proprio come l'affascinante spia interpretata da Sean Connery il Protagonista incarna un ideale mascolino dotato di innegabile magnetismo, capacità di destreggiarsi attraverso una serie sempre più improbabile di incarichi da cui dipendono le sorti del mondo intero ma privo di gran parte di quelle coordinate personali a cui lo spettatore solitamente si affida per entrare in risonanza emotiva con un personaggio di finzione. Dare vita a un eroe avulso dalla costruzione del personaggio resa tipica dal romanzo ottocentesco potrebbe avallare l'idea di un disinteresse da parte del regista inglese per la sfera emotiva delle figure che mette in scena (come peraltro sostengono molti suoi detrattori) ma, a mio avviso, tale, ponderata, scelta narrativa ben si sposa sia con l'idea di omaggiare un genere da lui visceralmente amato che con quella visione di cinema come grande spettacolo di illusione affermata all'ennesima potenza in The Prestige (Christopher Nolan, 2006). 


Aggiornando in parte quanto già fatto all'interno di Inception (Christopher Nolan, 2010), il cineasta inglese crea un'opera leggibile a più livelli, a partire dalla base costituita dal cinema di genere e dalla cristallizzata tradizione della spy story sia cartacea che filmica. Da questa ossatura si dirama un "innesto" costituito dalle implicazione sci-fi dell'uso dell'inversione dell'entropia insita in ogni corpo fisico come arma di distruzione di massa, in luogo dell'ormai archetipico ordigno nucleare visto in tante avventure di Bond o Ethan Hunt. Tramite il ricorso a queste teorie fisiche il film riesce a offrire una versione più fresca dell'elemento piuttosto abusato del viaggio nel tempo, nonostante la presenza di una minaccia mondiale proveniente dal futuro ricalchi in larga misura quanto visto in Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984). Anche dal punto di vista prettamente fantascientifico, dunque, Nolan mostra semplicemente una diversa angolazione di storie già entrate nell'immaginario collettivo della settima arte ma, come ci ricordano i prestigiatori, il trucco per funzionare davvero e creare un genuino sentimento di stupore nel pubblico non deve mai essere complicato, bensì deve solo apparire tale.

Per creare l'illusione di complessità l'autore si affida in questo caso alla forma, in particolare al montaggio e alla colonna sonora, intesa come insieme di tutti i suoni presenti su pellicola, siano essi rumori o tracce musicali. Jennifer Lame, montatrice del lungometraggio, articola l'intreccio abbandonando la tipica struttura della fabula per abbracciare invece l'idea di palindromo che costituisce il cuore dell'intera opera. Dopo un incipit in medias res in pieno stile bondiano il film subisce una parabola che lo porta a piegarsi si se stesso a più livelli, dalle macrosequenze fino all'unità minima della grammatica filmica, l'inquadratura. Un processo di inversione e di manovra a tenaglia che chiaramente richiama quello a cui ricorrono i personaggi della diegesi e che nel corso del racconto, grazie anche alle spiegazioni fornite tramite i dialoghi, diventano progressivamente leggibili per lo spettatore nella misura voluta dal regista/prestigiatore. Al trucco del montaggio da novello Méliès, Nolan abbina anche un secondo strato illusorio, ottenuto grazie a una componente sonora estremamente aggressiva, capace di stordire i sensi del pubblico con la stessa potenza delle esplosioni di Dunkirk (Christopher Nolan, 2017) ma quasi del tutto priva di pause. Al momento non è possibile avere alcuna certezza su come questo espediente esclusivamente sensoriale potrà funzionare quando l'opera arriverà in home video ma risulta evidente come sia stato pianificato per dare il meglio di sé con gli impianti di surround della sala cinematografica, a conferma dell'idea nolaniana di girare sempre e comunque in primo luogo per il grande schermo.


Tenet, in conclusione, potrebbe essere considerato, con alcune semplificazioni, un aggiornamento delle istanze metacinematografiche al cuore di The Prestige e Inception, un terzo manifesto della visione del cinema come numero di prestidigitazione maturata dal cineasta britannico, arricchita dall'esperienza maturata con il più intimo Dunkirk nell'utilizzo del suono come trucco illusionistico. Potremmo persino definirlo un divertissement rispetto al precedente war movie ma un film d'intrattenimento dall'elevata qualità, pienamente inserito all'interno della poetica dell'autore (si pensi all'ennesima rivisitazione del tema genitoriale) e foriero persino di un futuro tanto accennato quanto inquietante proprio per la naturalezza con cui viene introdotto. Tra le righe della spy story stilizzata le maglie di un domani in cui l'umanità appare così disperata per i nostri errori da creare un'arma per annichilire il nostro presente pone una minaccia ben più inquietante, specie a livello etico, di molte distopie viste su celluloide.

lunedì 17 agosto 2020

IL FANTASMA DEL PALCOSCENICO: ISTITUZIONALIZZAZIONE E MORTE DI UN SOGNO D'AMORE

 Quando si parla di New Hollywood o dei fenomenali anni Settanta per il cinema americano uno dei primi nomi a cui si pensa è senza dubbio quello di Brian De Palma. Dopo i primi lungometraggi di matrice godardiana il cineasta di Newark raggiunge la fama mondiale proprio in questo decennio, in special misura tramite pellicole sospese tra il thriller e l'horror come Le due sorelle (Sisters, 1973) e Carrie - Lo sguardo di Satana (Carrie, 1976). In mezzo a questi successi, che lo trasporteranno nel centro della rinascente Hollywood, il regista americano filma anche una delle sue opere più singolari e incomprese dai contemporanei: Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise, 1974). Pur potendo contare su un budget notevole, messogli a disposizione da una major come 20th Century Fox, e fattori di richiamo come la presenza, nella doppia veste di attore-compositore di Paul Williams, il film si rivela un fiasco al botteghino, deriso anche da buona parte della critica. Il mix di generi ideato da De Palma finisce nell'occhio del ciclone dei giudizi, inaugurando l'altalenante rapporto tra i lavori scritti e diretti dal regista e il pubblico.


Il lungometraggio, chiaramente ispirato a classici letterari e teatrali (nonché alle rispettive trasposizioni cinematografiche) quali Il ritratto di Dorian Gray o Il fantasma dell'opera, segue la parabola discendente del geniale cantautore Winslow Leach (Willian Finley), autore di una magnifica opera pop ispirata al Faust goethiano che viene derubata dal potente produttore Swan (Paul Williams) con l'inganno. Nonostante i tentativi del protagonista di contattare quest'ultimo, l'impresario non solo rifiuta ogni contratto con l'autore delle musiche, bensì se ne libera facendolo condannare per possesso di stupefacenti. In carcere Winslow viene sottoposto a un programma odontoiatrico finanziato dallo stesso Swan che lo priva dei denti, sostituiti da una protesi metallica, mentre la sua opera viene completamente trasformata per inaugurare il Paradiso, locale del perfido produttore. Superando la debolezza finora messa in mostra, lo sfortunato musicista riesce a evadere dal penitenziario e a distruggere i nastri con le registrazioni dei suoi pezzi, eseguiti da una band surf rock di basso livello al posto di Phoenix (Jessica Harper), ragazza conosciuta da Winslow durante le audizioni per lo spettacolo che aveva dimostrato grande talento canoro, tanto da conquistare il cuore del giovane. Durante l'evasione il protagonista rimane gravemente sfigurato e dato per morto dalla polizia ma, nel corso delle prove per Faust, si presenta al Paradiso, dove, con un eccentrico costume, fa esplodere una bomba. L'evento convince Swan a incontrare il compositore per dare vita a un sodalizio artistico, ufficializzato da un sinistro contratto firmato con il sangue dai due. 


Fin dal prologo, con la voce fuori campo di Rod Serling e la successiva esibizione Juicy Fruits, Il fantasma del palcoscenico mette subito in chiaro la propria multiforme natura, sempre in bilico tra diversi generi ma perlopiù divisa tra il musical e l'orrore, con una certa dose di humour nero. Scavalcando costantemente i confini tra un genere e l'altro, De Palma realizza una pellicola in cui anche le barriere tra fiction e reale si assottigliano: un meccanismo a scatole cinesi in cui l'operetta composta dal protagonista non solo cita uno dei più celebri lavori teatrali di sempre (sia nella versione di Marlowe che in quella di Goethe), ma finisce per rappresentare in maniera estremamente fedele il triangolo di Eros e Thanatos che si instaura con Phoenix e Swan, con tanto di patti demoniaci firmati con il proprio plasma. Un sottile intreccio che sembra anticipare tutti gli stilemi della narrativa per immagini postmoderna, con la sua tipica tendenza a utilizzare la citazione come strumento ludico, la confusione tra i generi classici e la natura evidentemente metatestuale del racconto.

All'interno di questo lungometraggio intriso di postmodernità ante-litteram, il regista di Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) mette in scena una tribolata love story che viaggia su due binari, prima paralleli ma destinati a incrociarsi. Il secondo riguarda il sentimento che lega Winslow alla cantante che gli ruba il cuore fin dal primo incontro, come da tradizione del musical classico americano, ma il primo, quello ancor più centrale per la narrazione e che influenza anche quello appena descritto, percorre le vie del più alto e sacro amore per l'arte e la musica in particolare. Il protagonista si mostra immediatamente come il perfetto esempio di artista romantico, tutto dedito alle proprie creazioni e ignaro delle trappole che gli riserva la socialità meschina della società umana, rappresentata in pieno dall'egoismo senza freni di Swan. Un simbolo della perdizione, della ricerca del successo personale a discapito della morale e, più nello specifico, delle brutture a cui l'arte viene costretta dagli interessi dell'economia di mercato. Attraverso una rielaborazione del secolare mito faustiano e delle istanze romantiche inaugurate proprio da Goethe con I dolori del giovane Werther, De Palma allestisce una tragica e sagace critica al mondo dell'industria dell'intrattenimento, capace di trasformare in freddo e spietato profitto qualsiasi forma di bellezza, persino quella più pura o indomabile. La scelta di ricorrere per questa parabola a un'opera rock sottolinea proprio la volontà di denunciare la deriva subita da quella musica che, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, aveva guidato la voce della ribellione giovanile verso i rigidi schemi etico e sociali delle generazioni precedenti. Tramite l'appropriazioni indebita da parte di Swan della perfetta sintesi tra classicismo e gusto contemporaneo creata da Winslow, l'autore rappresenta, dunque, la fine del sogno di libertà costituito dalla controcultura, proprio come aveva fatto, seppur con simboli e mezzi estetici ben diversi, Wes Craven con L'ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972).


Per mettere in mostra un tale apologo sulla sacralità dell'arte e dell'amore rispetto ai meschini interessi economici della società borghese, De Palma sfodera una poderosa sintesi tra il suo cinema degli esordi e quello stile più sofisticato ed estetizzante degli anni successivi. Alle isteriche riprese con camera a mano durante l'evasione di Winslow, il regista abbina alcuni di quelli che diventeranno veri e propri marchi di fabbrica della forma dei suoi lavori più maturi, a cominciare dalle celeberrime citazioni hitchcockiane. Nel tentativo di impedirgli di cantare al posto di Phoenix, il protagonista sorprende il ruvido cantante Beef mentre si trova sotto la doccia in una sequenza che agisce come allucinata parodia dell'omicidio di Marion in Psyco (Psycho, Alfred Hitchcock, 1960), tanto da utilizzare persino le medesime angolazioni per le inquadrature ma con uno sturalavandini al posto del coltello. Ancor più depalmiane risultano però le due lunghe sequenze in split-screen, strumento preferito dal regista per ottenere un potente effetto di suspense, e le soggettive reiterate di protagonista e antagonista, che sembrano sottolineare i punti di contatto tra due figure caratterialmente agli antipodi ma accomunati dalla maledizione costituita dalla passione per l'arte e la bellezza.


Pur avendo raggiunto in tempi recenti lo status di cult movie, Il fantasma del palcoscenico risulta ancora una pellicola ben distante dalla popolarità di Scarface (Brian De Palma, 1983) o Gli intoccabili (The Untouchables, Brian De Palma, 1987), per questo vi invito a riscoprire una perla all'interno della sempre interessante filmografia di un maestro, finito purtroppo ai margini dell'industria hollywoodiana (si veda il caso Domino, diretto dallo stesso nel 2019).

domenica 2 agosto 2020

BURNING - L'AMORE BRUCIA: L'INEFFABILE REALTÀ CONTEMPORANEA

Pur non essendo il prototipo della prolificità artistica, Lee Chang-dong rappresenta indubbiamente uno dei registi più apprezzati all'interno del vivace panorama cinematografico coreano, tanto da aver trovato un buon numero di appassionati anche in Occidente. Dopo ben otto anni dall'osannato Poetry (2010) presenta in concorso al Festival di Cannes Burning (2018), lungometraggio liberamente tratto da una storia breve del romanziere giapponese Haruki Murakami. Pur senza portare a casa alcun premio dalla rassegna francese il film ottiene il plauso unanime da parte della critica, finendo persino in numerose classifiche dei migliori film dell'anno o del decennio. Con circa un anno di ritardo l'opera arriva anche in Italia, confermando un costante incremento dell'interesse del nostro paese nei confronti di realtà filmiche lontane da Hollywood.

La pellicola segue il fortuito incontro che riporta nella vita di Jong-uu (Yoo Ah-in), neolaureato con ambizioni da scrittore, la coetanea Hae-mi (Jeon Jong-seo), sua amica d'infanzia. I due vivono una breve frequentazione, che culmina in un rapporto sessuale il giorno immediatamente precedente alla partenza della ragazza per l'Africa. Il protagonista accetta di badare al gatto dell'amica durante la sua assenza e, proprio mentre si trova nel suo appartamento, riceve una telefonata da Hae-mi, che gli chiede di venirla a prendere in aeroporto. Ad attendere il giovane, però, si trova un'ulteriore persona, Ben (Steven Yeun). I tre finiscono per uscire insieme in varie occasioni, nonostante l'evidente gelosia di Jong-su, fino a quando, mentre il terzetto fuma dell'erba a casa del protagonista, il misterioso Ben non confessa di incendiare ogni due mesi delle serre abbandonate. Questo insolito e pericoloso hobby lascia turbato lo scrittore alle prime armi, in special misura dal momento in cui Hae-mi sparisce senza lasciare alcuna traccia di sé.

Analizzando la sola superficie dell'opera, Burning potrebbe essere considerato la prima incursione nel cinema di genere da parte di Lee Chang-dong, dato che la sparizione del personaggio interpretato, con sorprendente sensibilità dall'esordiente Jeon Jong-seo, segna la comparsa di elementi da giallo all'interno del racconto. In fondo l'industria coreana è famosa in tutto il mondo proprio per l'alto livello professionale e artistico delle proprie produzioni di genere, da cui sono spesso transitati autori affermatisi nei più prestigiosi festival e dunque non costituirebbe una grossa sorpresa vedere anche il regista di Secret Sunshine sperimentare con questo tipo di narrazione. Una visione maggiormente accorta rivela però come, in realtà, gli inserti da mystery thriller che caratterizzano soprattutto la seconda metà del film svolgano un ruolo ben più coerente con la poetica del cineasta asiatico e con le tematiche sottese all'opera in questione. Adattando a un contesto più radicato nella cultura e nella storia, anche politica, della Corea del Sud la lezione dell'Antonioni di Blow-Up (1966), il director di Taegu utilizza una decostruzione del whodunit per mettere in luce l'impossibilità per l'uomo di comprendere a pieno la condizione contemporanea, specie attraverso i soli strumenti della razionalità. Proprio come il fotografo dal volto di David Hemmings, Jong-su si trova suo malgrado circondato da eventi misteriosi e apparentemente inconciliabili tra loro, a cominciare dalla presunta esistenza del gatto Boil fino ai numerosi indizi che collegano Ben alla scomparsa di Hae-mi. Tutto ciò che coinvolge quest'ultima sembra avvolto da una fitta coltre di possibili menzogne (si pensi alla storia del pozzo), mentre l'altro vertice del triangolo amoroso viene, non a caso, definito un "Gatsby coreano" per il connubio di ricchezza e mistero di cui si ammanta. Una comparazione che, oltre a giocare sulle influenze letterarie presenti nella pellicola e nella storia originale di Murakami, conferma ulteriormente la volontà del regista di mettere in scena una realtà inafferrabile, fantasmatica, in cui, come nel romanzo di Fitzgerald e nel capolavoro di Antonioni, un giovane protagonista lotta con tutte le forze per riuscire a scovarne un senso ultimo, finendo per fallire miseramente.
La cinepresa di Lee Chang-dong accentua proprio l'incapacità di Jong-su di capire cosa realmente accada attorno a sé attraverso sinuosi long take in cui i personaggi risultano essere sempre troppo distanti gli uni dagli altri per potersi toccare, per poter percepire l'essenza del prossimo. Le opprimenti architetture di Seul enfatizzano la perdita di coordinate ben definite da parte dei personaggi, così come l'apparente calma bucolica della casa in campagna del protagonista si rivela un'ennesima gabbia, legata in questo caso al turbolento rapporto dello stesso con i genitori. In questo quadro così disumanizzante l'unica, vera traccia di ritorno a una vita degna di tale nome sembra essere riservato a un unico momento: la dionisiaca danza, ripresa attraverso uno struggente piano sequenza, di Hae-mi davanti al tramonto, sulle note di Miles Davis. Un episodio di pura, sensuale evasione dalle maglie della civilizzazione che verrà punita con la scomparsa della ragazza, forse arsa da Ben o forse semplicemente evaporata come il protagonista di Blow-Up.

Con un'eleganza formale a cui raramente si assiste sui nostri schermi, Burning mette in scena le idiosincrasie su cui si fonda interamente la realtà che circonda l'uomo contemporaneo, focalizzando per di più questa indagine sul microcosmo della gioventù in un paese ricco di contraddizioni come la Corea del Sud.

sabato 11 luglio 2020

FAVOLACCE: GENITORIALITÀ MOSTRUOSA NELLA PROVINCIA ITALIANA

Dopo l'Orso d'argento, premio riservato alla miglior sceneggiatura, assegnato lo scorso anno a La paranza dei bambini (Claudio Giovannesi, 2019), anche nel 2020 l'ambito riconoscimento del Festival di Berlino è finito in mani italiane: quelle di Damiano e Fabio D'Innocenzo. I due fratelli, poco più che trentenni, hanno infatti presentato in concorso al prestigioso evento tedesco la loro seconda opera, Favolacce, a due anni dagli ottimi riscontri ricevuti dall'esordio con La terra dell'abbastanza (2018). Come gran parte delle produzioni di questo sfortunato anno, anche la pellicola italiana ha subito le conseguenze delle misure di sicurezza atte ad arginare la diffusione del COVID-19, che hanno frenato in maniera decisiva le ambizioni commerciali dell'intero settore cinematografico. Nel momento in cui scrivo il lungometraggio è finalmente riuscito a raggiungere le esigue sale cinematografiche aperte in seguito ai mesi di lockdown, facendo registrare buonissimi risultati al box office in rapporto a questa difficile situazione, a cui si aggiungono anche le visioni da casa rese possibili dalla distribuzione sulle piattaforme on-demand.

Il film, ambientato nella periferia meridionale romana, mette in scena l'intrecciarsi delle vicende di tre famiglie, una giovanissima neo-madre e un professore delle scuole medie, nel corso di una estate. Attraverso la ricostruzione di un narratore (Max Tortora), che afferma fin da subito di mescolare realtà e fantasia, quella che sembra una tipica vacanza estiva si trasforma in una tragedia nel momento in cui Alessia (Giulietta Rebeggiani) e Dennis (Tommaso Di Cola), attraverso le nozioni apprese dal professor Bernardini (Lino Musella), costruiscono una bomba artigianale. L'ordigno viene scoperto dalla madre Dalila (Barbara Chichiarelli) prima che possa essere azionato ma le conseguenze saranno comunque disastrose per i Placido e il resto della comunità.

Come affermato dal titolo, Favolacce, nonostante l'ambientazione romana, trae maggiormente spunto dalla fiaba nera e dalle sue riletture cinematografiche contemporanee che non dall'immortale analisi delle borgate capitoline raccontate, sia con la penna che con la cinepresa, da Pier Paolo Pasolini. Nel dipingere tutte le brutture, l'ignoranza bieca e l'aspirazione al tipico perbenismo borghese di tre famiglie sospese tra proletariato e classe media (condizione ormai piuttosto tipica del panorama socio-economico italiano in seguito alla crisi del 2008), i D'Innocenzo filmano in primo luogo un episodio di formazione da parte di pre-adolescenti alle prese con i più noti mostri dell'immaginario dei fratelli Grimm: i genitori. Pur con i distingui legati alle particolari circostanze di ciascun personaggio, tutti i ragazzi presenti nel film vivono un evidente disagio nei confronti degli adulti di riferimento, acuito in maniera decisiva dalle prime avvisaglie di quelle transizioni tipiche dell'adolescenza, come la scoperta del sesso attraverso i siti porno sul cellulare di un genitore o il primo amore. Attraverso un meccanismo narrativo ed etico che riporta alla mente pellicole di genere quali Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984) e It Follows (David Robert Mitchell, 2014), i due registi laziali adattano i topoi più profondi del racconto fiabesco, ossia la dialettica generazionale e la lotta dei bambini contro situazioni straordinarie per poter crescere, a un contesto sociale contemporaneo, dove la provincia assurge al ruolo di simbolo delle derive più negative ed estreme della discrepanza tipicamente postcapitalista tra le presunte possibilità di ascesa di ciascun individuo e la sostanziale impossibilità di raggiungere lo status di benessere propagandato dai mass media per la maggioranza della popolazione, specialmente in un periodo di recesso economico come quello vissuto dall'Italia attuale. La frustrazione personale degli adulti, tra cui spicca proprio il caso di Dalila e Bruno Placido (Elio Germano) per la loro grottesca pretesa di ergersi al di sopra degli amici, in virtù di una ostentata, quanto patetica, facciata piccolo borghese, si riversa inevitabilmente sul fragile equilibrio di bambini in procinto di varcare la soglia della prima adolescenza, portando a conseguenze tanto assurde quanto, purtroppo, tragicamente reali, visto quanto ci racconta giorno dopo giorno la cronaca nera.
Da un punto di vista prettamente formale la coppia di cineasti ricorre a uno costante del long take, sia nei piani più ampi che nelle inquadrature più vicine ai volti dei personaggi. Una scelta stilistica che, così come la quasi totale assenza di commento musicale extradiegetico, non solo rifiuta gran parte delle convenzioni linguistiche tipiche del neoclassicismo statunitense, ma, nel negare costantemente il campo e controcampo, rende ancor più evidente la disumanizzazione che regna all'interno del contesto sociale rappresentato. Le numerose riprese di costruzioni abbandonate tra la arida campagna romana, difatti, confermano proprio la volontà di sottolineare, tramite una simbologia paesaggistica, la scomparsa progressiva dell'umanità da tali luoghi, come accadeva già in Dogman (Matteo Garrone, 2018), non a caso nato proprio da un soggetto partorito dai D'Innocenzo.

Favolacce, in conclusione, afferma con forza la vitalità di due giovani realtà del cinema italiano, mostrando come il racconto del reale possa ancorarsi a schemi narratologici di genere anche all'interno del non troppo coraggioso panorama nostrano, con risultati peraltro di straordinaria qualità. Persino i risultati al botteghino, pur nella penuria di sale aperte, dimostra come una sempre più consistente fetta di pubblico sia interessata a questo cinema così personale e caparbio, a dispetto dei soliti luoghi comuni sulla insormontabile distanza tra i gusti della critica e quelli degli spettatori medi.

sabato 6 giugno 2020

ARROW: DAL PURGATORIO AL CENTRO DI UN MULTIVERSO DI EROI

"My name is Oliver Queen. For five years, I was stranded on an island with only one goal: survive. Now I will fulfill my father's dying wish - to use the list of names he left me and bring down those who are poisoning my city. To do this, I must become someone else. I must become something else.". Con queste parole, in seguito riutilizzate e riadattate a seconda della diversa stagione, si apre il pilot di Arrow, serial ideato da Greg Berlanti, Marc Guggenheim e Andrew Kreisberg nell'ormai lontano 2012 per CW. Dopo ben otto anni e altrettante stagioni nella serata del 5 maggio 2020 anche gli spettatori italiani assistono all'episodio conclusivo dell'intera opera, un momento quanto mai propizio per spendere qualche parola su di essa.

La serie adatta con una certa libertà le avventure del supereroe Freccia verde, nato sulle pagine degli albi DC Comics nel novembre del 1941 dalla mente del geniale editor Mort Weisinger e dalle mani di George Papp. In questa reinvenzione del personaggio Oliver Queen (Stephen Amell) viene presentato come il rampollo della famiglia più ricca di Starling City, tornato a casa dopo aver trascorso ben cinque anni su un'isola deserta a causa del naufragio dello yacht su cui viaggiava insieme al padre e all'amica Sarah Lance (Caity Lotz). Il ritorno in patria non corrisponde, però, a un salto al passato, verso la vita precedente: il protagonista possiede una lista di nomi, fornitagli dal defunto genitore, corrispondenti ad altrettanti uomini coinvolti in loschi traffici che minano la salvezza di Starling City. Sfruttando le capacità di lotta a mani nude e con arco e freccia imparate nel periodo trascorso su Lian Yu (letteralmente traducibile in purgatorio), Oliver decide di votare la propria vita alla lotta verso le ingiustizie, diventando un vigilante dal volto coperto, inizialmente noto come L'incappucciato e successivamente come Green Arrow.

Riassumere in poche righe il contenuto narrativo di ben otto stagioni, ognuna di esse a sua volta costituita da ventitré episodi (con la sola eccezione dell'ultima), sarebbe un'impresa improba e anche fuori luogo, sia verso i fan della prima ora che nei confronti dei neofiti, eppure ribadire le origini del lungo percorso televisivo vissuto dall'arciere di smeraldo assume un valore estremamente catartico nei giorni immediatamente successivi alla messa in onda di Fadeout, episodio conclusivo di Arrow. Proprio l'incipit di questo serial e in generale l'intera prima stagione rivelano chiaramente le ispirazioni principali per il trio di creator alla testa del franchise. In primis due opere centrali all'interno della mitopoiesi del Freccia verde cartaceo, la miniserie Green Arrow: The Longbow Hunters (Mike Grell, 1987) e Freccia Verde: Anno Uno (2007), di Andy Diggle (citato, non a caso, nel cognome di uno dei personaggi più importanti) e Mark Simpson. Da questi due importantissimi archi narrativi Berlanti e co. traggono in particolare la origin story che trasforma un giovane playboy in un giustiziere e l'indole aggressiva del personaggio, disposto inizialmente persino a uccidere pur di fermare il crimine. Pur mantenendo quelle caratteristiche ereditate da Robin Hood come cappuccio e frecce, il Green Arrow televisivo abdica gran parte del bagaglio proveniente da Golden e Silver Age fumettistiche in favore dell'approccio maggiormente dark e realistico impresso al personaggio da Mike Grell, come dimostra anche la presenza di quelle tematiche sociali piuttosto scottanti introdotte nell'universo DC proprio dalle storie legate all'arciere come droga e corruzione politica.
A questa visione del supereroe, peraltro uno dei pochi a non possedere superpoteri, non può che contribuire anche il successo clamoroso della trilogia di Christopher Nolan dedicata a Batman. Come confermato persino dallo stesso Stephen Amell, il riferimento costante per David Nutter, regista del pilot, e degli showrunner di Arrow è fin dal principio Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, Christopher Nolan, 2008), che condivide con la serie l'idea di inserire la figura del supereroe all'interno di un contesto geopolitico e culturale del tutto coincidente con quello della realtà contemporanea, insieme anche ad alcune tematiche più intimamente legate alla sfera personale del protagonista, come il confine tra giustizia e vendetta o l'abnegazione del singolo per il bene della collettività. Da Batman Begins (Christopher Nolan, 2005), invece, si potrebbe rintracciare l'origine della peculiare struttura narratologica basata su incastri temporali, utilizzati soprattutto per poter tracciare in maniera estremamente dettagliata lo sviluppo psicologico di Oliver Queen, sia come eroe che come essere umano. Certamente nell'alternanza di diversi piani temporali, prima con flashback e poi, nel corso delle stagioni con flashforward, trae ispirazione anche da una pietra miliare della serialità televisiva come Lost (J. J. Abrams, Damon Lindelof, Jeffrey Lieber, ABC, 2004-2010) ma la prevalenza di scene notturne, lo stile di combattimento votato alla furtività e all'utilizzo di tecnologici gadget e l'addestramento alle arti marziali orientali mostrano in maniera inequivocabile l'influenza nolaniana sulla produzione CW.
Nel corso delle sue otto stagioni il serial in analisi è stato capace di accogliere persino le influenze dei blockbuster marveliani, dando vita a un universo narrativo condiviso costituito da spin-off altrettanto amati dal pubblico, come The Flash (Greg Berlanti, Andrew Kreisberg, Geoff Johns, CW, 2014-), che, in maniera non dissimile a quanto accade con le pellicole dedicate agli Avengers, porta per una settimana in ogni stagione verso degli episodi crossover, cresciuti ogni anno in numero di supereroi coinvolti e scala della minaccia affrontata dai protagonisti. Il culmine di questo percorso di convergenza è costituito dall'adattamento , avvenuto nel corso del 2020, del celeberrimo arco narrativo fumettistico Crisi sulle Terre infinite (Crisis of Infinite Earths, George Perez, Dick Giordano, 1985-1986), in cui tutti gli eroi del cosiddetto "Arrowverse" combattono una forza aliena in grado di distruggere tutti gli universi che costituiscono il multiverso DC Comics. Proprio come avvenuto a metà anni Ottanta per le testate cartacee, anche questo crossover televisivo costituisce una sorta di reboot per le serie coinvolte, coincidente non a caso proprio con l'epilogo delle avventure dell'arciere di smeraldo, la cui dipartita diegetica diventa un'appassionata occasione per fornire un commiato metatestuale anche allo show che ha dato origine a un intero conglomerato audiovisivo e a una peculiare idea di supereroismo.

Non potendo, per ovvi motivi di spazio, analizzare ogni singolo episodio attraverso cui si dipana Arrow mi preme porre l'accento proprio sul suo finale, il già citato Fadeout. Girato dallo stuntman James Bamford, il season finale dell'intero serial può essere considerato come una vera e propria sineddoche dello stesso e non soltanto per gli evidenti richiami a tutte le stagioni precedenti e il ritorno in scena della maggior parte dei personaggi più importanti, compresi alcuni ex defunti (gli effetti del reboot si avvertono anche in questo senso) come Moira Queen (Susanna Thompson) e Quentin Lance (Paul Blackthorne). In questo commovente commiato verso un personaggio e una serie, Bamford mette in scena la profonda umanità che alberga dietro le maglie dell'azione e dei superpoteri, nella quale trova un posto centrale il tema della famiglia, soprattutto quella costituita da legami che travalicano il sangue, saldati dalla reciproca collaborazione per il bene comune e accettazione dell'imperfezione insita in ogni essere umano. A tale sostrato prettamente poetico e narratologico, il regista aggiunge una breve sottotrama avventurosa, che funziona principalmente come showcase delle istanze estetiche che distinguono Arrow dalla maggioranza dei prodotti televisivi action: la qualità di matrice cinematografica delle sequenze action, ricche di brutali scontri corpo a corpo, con un gran numero di contendenti, rese ancor più intense e spettacolari dal ricorso sistematico a piani sequenza estremamente complessi, grazie anche a movimenti della mdp di virtuosismo notevole, specie per i canoni di una produzione per il piccolo schermo.

Per poter rendere pienamente giustizia a questi otto anni di lotte per la salvezza di Star City ci vorrebbero molte più pagine, inutile negarlo; nonostante ciò ho voluto tributare un mio personale saluto a Oliver Queen, Laurel Lance (Katie Cassidy) e tutti i personaggi dal 2012 accompagnano le vite di milioni di fan, sparsi per il mondo. Pur con qualche inevitabile caduta (mi riferisco alla quarta stagione) Arrow lascia un ricordo nello spettatore assolutamente positivo e un'eredità che vive nella forza degli altri show dell'Arrowverse, dimostrando che l'arciere smeraldo televisivo non ha assolutamente tradito la figura del supereroe, parafrasando la celebre frase con cui ha sconfitto innumerevoli nemici dell'umanità ("You have failed this city").

sabato 23 maggio 2020

THE LIGHTHOUSE: EGGERS TRA PSICANALISI E MURNAU

Con un ritardo che nel 2020 sta diventando davvero imperdonabile e inspiegabile, è finalmente arrivato ufficialmente in Italia The Lighthouse, diretto da Robert Eggers nel 2019. Prodotta da A24, studio indipendente creatosi nel corso degli ultimi anni un'ottima reputazione per la qualità delle sue proposte, la pellicola ha bissato il successo di critica del precedente The Witch (Robert Eggers, 2015), senza però pareggiarne i risultati al box office, complice anche una distribuzione meno massiccia nei mercati internazionali (stendiamo un velo pietoso sull'uscita in Italia ritardataria e solamente in digitale). Pur avendo convinto la stragrande maggioranza dei recensori anglosassoni il film sembra dividere maggiormente in Europa, dove viene spesso accusato di essere un vuoto esercizio di stile, privo delle suggestioni e della compostezza dell'opera prima firmata da Eggers.

L'essenziale canovaccio attorno a cui ruota il lungometraggio vede, attorno agli ultimi scorci del XIX secolo, l'arrivo su una sperduta isola da parte del giovane che si fa chiamare Ephraim Winslow (Robert Pattinson) e del suo più esperto superiore Thomas Wake (Willem Dafoe). I due hanno l'incarico di sorvegliare il faro presente sull'isola per poche settimane. Durante il soggiorno cresce una costante tensione all'interno della coppia, alleviata solo in parte dalle piccole confessioni reciproche che avvengono durante i pasti. Al culmine dello stress per i continui maltrattamenti subiti, Ephraim uccide un gabbiano, provocando così l'ira degli dei del mare, che si abbatte in forma di tempesta, bloccando gli uomini sull'isola. Privati di aiuti dalla terraferma e senza provviste a sufficienza, i due si dedicano incessantemente all'alcol, fino a perdere ogni percezione certa della realtà.

Pubblicizzato a più riprese come un secondo horror dal regista di The Witch, questo The Lighthouse si rivela in realtà un lavoro difficilmente inquadrabile all'interno di un genere cinematografico, pur presentando numerosi elementi, citazioni e suggestioni provenienti proprio dall'horror e dal thriller. In numerose interviste Eggers ha dichiarato la propria ammirazione per Nosferatu il vampiro di Murnau  (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, 1922) e la pellicola in analisi pare omaggiare su multipli livelli interpretativi il capolavoro tedesco. In primis la scelta di girare con pellicola in 35 mm, obiettivi risalenti agli inizi del secolo scorso e il formato 1.19:1 portano immediatamente lo spettatore verso un ideale viaggio a ritroso nel tempo, proprio verso quel periodo della storia della settima arte, così come l'ambientazione ottocentesca e il lessico esibito dai personaggi confermano uno status di oggetto antico, assolutamente distante dalla contemporaneità. Persino l'assenza quasi totale di movimenti di macchina sembra voler affermare l'estraneità del film al cinema del terzo millennio, sebbene nelle ultime fasi Eggers si lasci andare a carrellate e raffinatissimi movimenti ben più moderni.
Ancor più esplicitamente accostabili a Murnau risultano le scelte sull'illuminazione e sul tipo di bianco e nero utilizzato, con netti e antinaturalistici contrasti chiaroscurali che, oltre a omaggiare sequenze iconiche di Nosferatu (per esempio l'arrivo della peste a Londra o la scena del conte che sale le scale), sottolineano l'intenzione dell'autore di dare vita a un asfissiante kammerspiel in cui realtà e immaginazione finiscono per perdere i propri naturali confini. La pellicola vive costantemente in bilico tra presunta ragione e sprazzi onirici, fino a deragliare completamente verso la follia nel momento in cui Ephraim/Thomas causa la tempesta. Il suo rapporto con il più esperto custode assume contorni sempre più freudiani ed edipici, in perenne lotta tra odio viscerale e desiderio di approvazione, mentre i fiumi di alcol accrescono la comparsa di momenti allucinatori, tra cui dei sinistri rapporti sessuali con una sirena, intervallati dalle masturbazioni su una sinistra statuetta raffigurante proprio tale creatura marina. I crescenti riferimenti al mito classico, in particolare a Prometeo e all'Orestea di Eschilo, confermano ulteriormente la natura profondamente tragica e psicanalitica dello scontro tra i due protagonisti, che trova il suo culmine quando il più giovane pretende, con la forza, di poter accedere finalmente alla luce del faro, simbolo supremo di quella mascolinità che circonda l'intero lungometraggio. Il finale rappresenta il punto esclamativo su un percorso attraverso la follia in cui psicanalisi, kammerspiel e mitologia fungono da strumenti chiave.

Certamente The Lighthouse non si pone dinanzi al pubblico odierno con la chiarezza di lettura a cui ci abitua il post-classicismo hollywoodiano e, anzi, per certi versi estremizza l'eleganza soffusa con cui The Witch rileggeva i canoni dell'horror perdendo la sua immediata efficacia. Nonostante ciò film di questa personalità e maestria formale meritano solamente un plauso. Il cinema ha bisogno di personalità forti e coraggiose come quella di Eggers e dei suoi due attori, i mai troppo premiati Pattinson e Dafoe.

mercoledì 1 aprile 2020

ESP² - FENOMENI PARANORMALI: MOCKUMENTARY A SCATOLE CINESI

Probabilmente a causa della distanza cronologica ancora fin troppo breve che ci distanza da essa, l'ondata di mockumentary, ossia di film girati come se fossero documentari amatoriali, perlopiù horror esplosa in seguito all'exploit di Paranormal Activity (Oren Peli, 2007) viene solitamente relegata ai meandri critici della moda effimera. Un fenomeno utile solo a far entrare qualche soldo facile nelle tasche di produttori abbastanza furbi da saper cogliere l'attimo. Naturalmente sarebbe ingenuo negare l'importanza del lato pecuniario quando si parla di una tendenza (non solo cinematografica) ma è bene ricordare che senza delle analisi più attente, libere il più possibile dai facili pregiudizi appena accennati, oggi continueremmo a definire becere operazioni di marketing anche gli spaghetti western, i peplum o i new-horror. Per questo motivo credo che anche i mockumentary figli di Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato, 1980) e The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair (The Blair Witch Project, Eduardo Sanchez, Daniel Myrick, 1999) meritino una seconda chance e per questo oggi voglio porre all'attenzione ESP² - Fenomeni Paranormali (Grave Encounters 2), diretto da John Poliquin nel 2012. Arrivata probabilmente nel momento calante dell'ondata del suo filone, la pellicola non ha convinto la critica e ha incassato anche cifre minori rispetto al prequel, costato peraltro cifre nettamente inferiori. Nonostante ciò ho trovato interessante questo sequel fin dalla prima visione e adesso proverò a spiegarvi perché.

Protagonista del lungometraggio è Alex Wright (Richard Harmon), studente di cinema che per crearsi un nome attraverso la rete gestisce anche un blog in cui recensisce film dell'orrore. Tra di essi vi è proprio il primo ESP - Fenomeni Paranormali (Grave Encounters, The Vicious Brothers, 2011), bollato con una sonora insufficienza. In risposta al piccato giudizio riservato a quest'ultimo, il ragazzo riceve da un misterioso utente chiamato DeathAwaits666 un video con quella che sembrerebbe una breve scena inedita dello stesso ESP. Alex inizia a provare una curiosità crescente per l'alone di mistero che circonda l'intera crew coinvolta nella produzione del film, a cominciare dagli attori, tutti morti i scomparsi, decidendo di mettere da parte le riprese della sua opera prima in favore di un documentario che sveli i retroscena di Grave Encounters. L'unico modo per concludere degnamente questo reportage sembra essere un incontro proprio con DeathAwaits666, organizzato dal protagonista e i suoi amici/collaboratori all'interno dell'ospedale psichiatrico in cui si erano svolte le vicende del prequel.

Come si evince anche dalla breve sinossi appena enunciata, appare evidente come ESP² sia ancor più strettamente connesso della maggioranza dei sequel cinematografici. Sfruttando l'alone di cult movie indipendente creatosi attorno al loro secondo lungometraggio, il duo noto come The Vicious Brothers, in questo caso solamente in veste di sceneggiatori, immaginano uno scenario in cui le pareti che separano la diegesi e il mondo reale si assottigliano fino a scomparire, dando vita a un cortocircuito tra mondo fattuale e finzione che porta la mente alla mise en abym di (Federico Fellini, 1963) e soprattutto Scream 3 (Wes Craven, 2000). Gli attori e tutti membri del cast coinvolti nel primo ESP diventano soggetti di morti cruente e reali, tutte occultate ad hoc come in un perfetto film maledetto, assimilabile, non a caso, all'idea che la sua geniale campagna pubblicitaria aveva offerto di The Blair Witch Project. Un altro fenomeno del mondo reale dunque entra a far parte della fiction, così come la concezione stessa del prequel come falso documentario, costituito dal montaggio di filmati ricavati dal sesto episodio di una presunto reality televisivo, finisce per divenire ulteriore elemento narrativo.

La pellicola diretta da Poliquin sfrutta, con notevole sagacia, tutti questi spunti metatestuali per creare una variazione nella formula rispetto al predecessore, giocando con le aspettative dello spettatore, e allo stesso tempo allestire una interessante riflessione sul genere horror e sul mockumentary in particolare. La maggioranza dei seguiti, specialmente nel filone dell'orrore, gioca la carta del "more of the same", ossia di una reiterazione, magari con maggior truculenza o uccisioni, dell'impianto narrativo alla base del prequel e per questo il regista americano devia notevolmente da questa strada, percorrendola in parte solamente nella seconda metà della sua opera, nel preciso momento in cui Alex e la sua troupe si trovano all'interno del set del primo Grave Encounters, con la consapevolezza che tutto ciò che vi accadeva corrispondeva alla realtà e l'obbiettivo di girare la sezione del loro documentario più vicina proprio a un horror. Da questo punto di vista è importante notare come il percorso psicologico e artistico del protagonista subisca una svolta decisiva. Inizialmente il giovane studente sogna di diventare un regista capace di riportare ai fasti di un tempo (cita proprio Craven, tanto per avvalorare molte delle tesi da me esposte) il cinema dell'orrore ma la passione per il mistero legato a ESP lo porta ad abbandonare il suo film horror per dedicare tutte le sue forze a un progetto d'inchiesta sul terribile complotto ordito dal produttore Shawn Angelski. Proprio nella sopracitata fase della narrazione l'aspirante director viene folgorato da una nuova idea, quella di donare al suo documentario, fino a quel momento reso inquietante "solamente" dalla gravità delle verità rivelate, una connotazione prettamente horror, trasformando insomma il documentario d'inchiesta (da Sundance lo definisce lo stesso protagonista) in un vero e proprio found footage nello stile coniato da Cannibal Holocaust. Il personaggio interpretato con buonissima aderenza psicologica da Richard Harmon si trova a questo punto a girare il vero sequel di Grave Encounters, all'interno di quello che noi spettatori del mondo al di là della quarta parete interpretiamo come Grave Encouters 2, e nel farlo ovviamente finisce per riutilizzare gran parte degli elementi del film precedente, comprese molte inquadrature. Almeno fino a quando una svolta narrativa che preferisco non esplicitare non porta l'opera di Poliquin ad accentuare la traccia esoterica sottesa al predecessore, così da offrire al pubblico una variabile di genere in più e al suo protagonista un input per la sua definitiva trasformazione nel regista di un sequel del quale esegue quasi solamente le direttive del vero autore, lo sceneggiatore. Allo stesso modo in cui Poliquin dirige uno script dei veri demiurghi della saga, i The Vicious Brothers, Alex porterà a termine il suo mockumentary filmando tutto ciò che gli viene dettato dal volere dell'entità infernale che risiede all'interno dell'ospedale psichiatrico.

Un finale, estremamente cinico verso l'essenza stessa dell'industria hollywoodiana, che eleva all'ennesima potenza la struttura a scatole cinesi di ESP² - Fenomeni Paranormali, rendendolo un esperimento metacinematografico più interessante del prequel e da riscoprire, anche per molti recensori che, esattamente come aveva fatto il protagonista con il primo ESP, lo avevano liquidato con giudizi ingenerosi.

sabato 28 marzo 2020

UNSANE: L'ILLUSIONE DEL REALE ATTRAVERSO I MEZZI DI RIPRESA CONTEMPORANEI

Se Robert Louis Stevenson fosse vissuto oggi avrebbe sicuramente riconosciuto in Steven Soderbergh una perfetta incarnazione del suo celeberrimo dottor Jekyll, almeno cinematograficamente. Qualunque cineasta operante all'interno del sistema produttivo hollywoodiano deve, necessariamente, fare i conti con il difficile equilibrio tra l'espressione più pura della propria personalità e i paletti imposti dall'apparato economico che ne finanzia il lavoro. Molti finiscono per mettere completamente in secondo piano qualunque velleità stilistica o poetica, pochi riescono a imporre il proprio marchio alla produzione (si pensi a figure come Christopher Nolan o David Fincher) ma è quasi unico il caso di un autore che alterna da una trentina d'anni film smaccatamente commerciali (senza alcuna accezione negativa, si badi bene) ad altri più piccoli in termini di costi di produzione e ben più sperimentali. Forse proprio a causa di un percorso così singolare oggi Soderbergh non è più un nome capace di sbancare il box office come tra anni Novanta e primi vagiti del Duemila, ciononostante continua a regalare pellicole di notevole interesse in entrambi i settori della sua filmografia, dalla quale ho pescato oggi Unsane. Girato nell'arco di un paio di settimane, in totale segreto, il lungometraggio rientra senza dubbio tra quelli più indipendenti e personali del regista americano, pur avendo ricevuto, oltre a ottime recensione, un'accoglienza tutt'altro che negativa al botteghino, dove ha incassato quasi quindici milioni di dollari a fronte di uno solo speso per girarlo.

L'opera in analisi segue il difficile tentativo di ritorno a una vita normale da parte di Sawyer (Claire Foy), donna in carriera perseguitata in passato da uno stalker sempre più insistente. Nonostante gli incoraggianti risultati lavorativi raggiunti, la protagonista fatica ad instaurare rapporti interpersonali e sente di non essersi ancora del tutto ripresa dai suoi dolorosi trascorsi, così si rivolge a una terapista che, in maniera piuttosto ingannevole, la convince a firmare un documento di ricovero spontaneo di almeno ventiquattro ore all'interno della clinica in cui lavora. Con la legge che le volta le spalle, Sawyer si ritrova suo malgrado a dover sopportare una detenzione ancora più lunga, resa insopportabile dalla presenza tra gli inservienti proprio di David Strine (Joshua Leonard), il suo persecutore.

Come già avvenuto in numerose opere precedenti, Soderbergh torna ancora una volta a raccontare il complesso rapporto tra la società americana e la donna, mettendo quest'ultima e il suo percorso psicologico/emotivo al centro. Compiendo una sorta di sintesi tra la dimensione prettamente socio-politica di Erin Brokovich (2000) e quella maggiormente intima di The Girlfriend Experience (2009), Unsane si dipana attraverso due binari principali che si intrecciano nel corso del racconto: dal canale primario, dedicato all'angosciante thriller psicologico che vede Sawyer internata, contro la sua volontà, proprio insieme allo stalker che le ha rovinato la vita, si dipana un secondo filone narrativo, più legato al cinema d'inchiesta, incentrato sulla denuncia del diffuso sistema delle truffe organizzate dalle cliniche psichiatriche sovvenzionate dalle assicurazione sanitarie. Con grande abilità, il regista riesce non soltanto a evitare che il film offra la sensazione di essere un assemblaggio di due prodotti in uno, ma utilizza il fortissimo attacco a uno degli aspetti maggiormente disumani del sistema sanitario americano come un ulteriore strumento per amplificare il senso di oppressione trasmesso dal suo thriller.

Allo stesso modo l'autore di Sesso, bugie e videotape (Sex, Lies and Videotape, 1989) unisce le esigenze narrative alle tecniche di ripresa. Il ricorso a uno smartphone al posto della usuale cinepresa professionale non è un semplice vezzo o stratagemma per ridurre i costi di produzione, bensì una precisa scelta estetica e poetica. Se dovessi riassumere in un unico simbolo l'attuale condizione di convergenza tra le arti visive e tutte le nuove tecnologie digitali di riproduzione di immagini questi sarebbe sicuramente l'Iphone, il cellulare che ha creato lo status symbol dello smartphone. Il grande fratello orwelliano che segue tutti noi in ogni momento della nostra vita, finendo spesso per sostituirla con il regno del web che navighiamo ormai quasi esclusivamente attraverso il suo piccolo schermo. Persino il cinema oggi viene sempre più spesso sostituito dai sei pollici con cui postiamo nuove storie di Instagram. Uno strumento così influente sul nostro concetto di realtà da essere diventato una sorta di giudice, di discriminante su ciò che è vero e ciò che non lo è; ciò che esiste e quello che invece no. Ecco dunque che un assiduo sperimentatore e appassionato del rapporto tra settima arte e nuove tecnologie come Soderbergh si affida a questo device per raccontare proprio la storia di una donna qualunque alle prese con una situazione che ne mette in serio dubbio il concetto di reale. Sawyer, già visibilmente provata dal trauma subito in passato, una volta ricoverata forzatamente finisce per sentire la propria sanità mentale vacillare e persino il suo unico amico all'interno della clinica, il reporter Nate (Jay Pharoah), che tenta di tenere a galla la sua razionalità potrebbe in fondo essere un altro individuo affetto da gravi paranoie.

La tipica ambiguità del thriller trova in Unsane una corrispondenza ideale con le tematiche sociali sottese alla trama principale, proprio come accade nel cinema di genere più riuscito, sfruttando però anche la novità tecnologica rappresentata dall'uso di un cellulare al posto di una macchina da presa. Una vittoria su tutti i fronti per l'esperimento di Soderbergh e, allo stesso tempo, un fortissimo grido d'allarme per due temi di estrema attualità. Per quanto paradossale possa sembrare la sua storia, tutti noi conosciamo almeno una Sawyer distrutta nel corpo e nella mente da un uomo che sa amare solo in modo malato e da istituzioni che mettono sempre in secondo piano le richieste d'aiuto femminili.


venerdì 20 marzo 2020

FIRST MAN - IL PRIMO UOMO: IL CARO PREZZO DEI SOGNI

A trentacinque anni e con meno di cinque lungometraggi al proprio attivo, tra cui uno totalmente indipendente, difficilmente si riesce a raggiungere i vertici della piramide alimentare hollywoodiana, eppure Damien Chazelle si trova oggi in questa invidiabile posizione, soprattutto dopo il successo strepitoso di La La Land (2016). Come da prassi ormai consolidata anche il giovane regista di Providence, complici i tantissimi premi ricevuti, condivide in egual misura estimatori e detrattori in tutto il mondo, in special modo dopo l'uscita della sua ultima fatica: First Man - Il primo uomo (2018). Nonostante le recensioni in grandissima parte positive ricevute, il film ha ricevuto numerosi attacchi dalla classe politica statunitense che ne hanno inficiato il percorso al botteghino, rivelatosi piuttosto deludente considerato il budget molto cospicuo e le legittime ambizioni.

La pellicola racconta, proprio come la biografia omonima, la vita di Neal Armstrong (Ryan Gosling), in particolare degli eventi che dagli albori degli anni Sessanta lo portano a posare piede sul suolo lunare. Pur senza lesinare sulle numerosi missioni ed eventi pubblici a cui l'uomo partecipa, il racconto si concentra soprattutto sul privato del protagonista, a cominciare dalla morte della figlia, passando poi per i rapporti con i colleghi più intimi e la moglie Janet (Claire Foy).

Di primo acchito l'idea di un biopic, genere già di per sé spesso votato alla celebrazione, su una delle figure più idolatrate della giovane storia statunitense può far pensare a un trionfo della retorica a stelle e strisce più gretta ma Chazelle non è certamente il classico cantore dell'american way of living e lo dimostra persino nel trattare una materia tanto delicata come questa. First Man, come detto poc'anzi, non cela le grandi imprese di cui si rende protagonista Armstrong, così come non nega la portata epocale di quella breve passeggiata mai sperimentata prima da nessun essere umano, ma focalizza il proprio sguardo sull'uomo dietro la tuta da astronauta, dipingendo un personaggio del tutto coerente con quelli visti nelle sue precedenti opere. Attraverso anche la peculiare recitazione per sottrazione dell'ottimo Ryan Gosling, l'autore di La La Land mette in scena in primo luogo un'esplorazione acuta e molto intima di un uomo posto dinanzi a una delle peggiori tragedie possibili: la perdita di una figlia, ancora bambina per di più. Per tutto il corso del lungometraggio, sia nelle sequenze in ambito familiari che in quelle sui mezzi della NASA, il cineasta americano pone la sua cinepresa, quasi sempre a mano, in posizione estremamente vicina ai volti e ai corpi dei personaggi, in particolare quelli dei coniugi Armstrong. Attraverso questo costante pedinamento, tra i silenzi di Neil e i tentativi di risvegliare nel sopito marito lo spirito dell'uomo che ama da parte di Janet, viene esplicitato il ruolo centrale assorto dal tema dell'elaborazione del lutto e di come i continui colpi inferti da un fato crudele finiscano per inficiare persino il raggiungimento di un sogno. Un sogno non più solamente privato ed "egoistico" come quello vissuto da Miles Teller in Whiplash o dallo stesso Gosling nel successivo lavoro di Chazelle, bensì un ambizioso obiettivo condiviso da milioni di persone e per questo ancora più importante. Un traguardo così prezioso da essere perseguito a discapito anche di un sacrosanto momento per poter piangere la morte di un amico (si pensi allo straziante silenzio con cui Armstrong reagisce alla telefonata che gli annuncia la morte di Edward White, interpretato con notevole efficacia da Jason Clarke) o delle comprensibili perplessità di una fetta di popolazione, ormai fin troppo coinvolta dall'assurdità del Vietnam e dalle iniquità sociali degli USA del periodo.

Ancora una volta dunque Chazelle racconta la storia di un sogno così potente, così folle da fagocitare qualunque cosa: figli, amici, amore, consenso popolare. First Man non rappresenta una sviolinata alla politica di potenza americana (ecco perché non viene inserito, alla faccia di tutte le polemiche, il celeberrimo momento in cui viene affissa la bandiera a stelle e strisce sul nostro satellite), bensì un nuovo capitolo della riflessione del regista su quanto si possa perdere delle propria umanità pur di perseguire uno scopo, per quanto nobile possa essere. La meravigliosa sequenza sul suolo lunare sembra concedere finalmente la redenzione tanto agognata per il tormentato Armstrong, eppure quella parete, per quanto trasparente, nella scena finale che lo divide dalla coraggiosa consorte non può che riportare alla mente il desolante addio tra Sebastian e Mia in La La Land.

domenica 1 marzo 2020

BRIGHTBURN: DAL MESSIA ALL'ANTICRISTO ALIENO

Il cosiddetto cinecomic è il genere cinematografico attualmente più in voga, non solo per le cifre spaventose che, per esempio, i film del MCU riescono a incassare al botteghino, ma soprattutto per l'influenza sull'intero panorama di celluloide e sull'immaginario collettivo. Nonostante sia peraltro nata agli albori del cinema stesso la connessione tra la settima arte e il fumetto, è ancora oggi piuttosto fumoso il concetto stesso di cinecomic: indica forse ogni adattamento da comic book e simili oppure si limita a quelli a carattere supereroistico? Rientrano al suo interno anche le trasposizioni dei manga giapponesi o anche le avventure di supereroi nati direttamente sul grande schermo? A rendere ancora più complessa una delimitazione del genere, come spesso accade dalla rivoluzione portata dalla New Hollywood, si trova inoltre la tendenza crescente da parte di molte pellicole a ibridare più filoni estetico-narrativi al suo interno, come accade, ad esempio, con gli influssi western di Logan (James Mangold, 2017). Proprio la fusione al suo interno di più generi è alla base della pellicola che intendo porre all'attenzione oggi, Brightburn, diretta nel 2019 dall'esordiente David Yarovesky. Attraverso una sagace campagna pubblicitaria e il coinvolgimento nel ruolo di produttore di James Gunn, uno dei registi più amati all'interno del cinema supereroistico, quest'opera prima, dal budget peraltro molto contenuto per gli standard hollywoodiani, ha potuto godere di un buon successo al box office, pur dovendo pagare in sede critica lo scotto dovuto da attese rivelatesi probabilmente fin troppo elevate.

Protagonista assoluto del lungometraggio è Brandon Bryer (Jackson A. Dunn), dodicenne un po' schivo e con pochi amici ma molto legato ai genitori adottivi Tori (Elizabeth Banks) e Kyle (David Denman). Quello che potrebbe sembrare un tipico nucleo familiare americano nasconde un enorme segreto: il ragazzo dei Bryer in realtà è stato trovato dalla coppia, dopo l'ennesimo tentativo di concepire un figlio, nei pressi della loro casa nel Kansas, all'interno di una navicella spaziale schiantatasi al suolo. Nonostante ciò Brandon è cresciuto come un bambino qualsiasi, senza sapere niente delle proprie origini, almeno fino a quando degli strani messaggi provenienti proprio dall'astronave iniziano a modificarne in maniera sinistra il comportamento.

Persino da questo esigua sinossi appare evidente, persino al meno avvezzo ai fumetti, quanto la narrazione di Brightburn sia figlia delle origin story del princeps dei supereroi, Superman. Come già anticipato dal geniale trailer che riutilizzava, con una potente carica parodica, il tema Flight che Hans Zimmer aveva composto per L'uomo d'acciaio (Man of Steel, Zack Snyder, 2013), l'esordio al lungometraggio di Yarovesky si rivela una sorta di "what if", di trasposizione del percorso di crescita del kryptoniano più famoso della nona arte modificando un unico, tutt'altro che insignificante dettaglio: la trasformazione del campione di moralità che tutto il mondo conosce in un essere privo di scrupoli. Come in uno dei celebri Elseworlds di DC Comics, il regista rievoca tutti o quasi gli elementi cardine della mitologia del supereroe di Smallville come, per l'appunto, l'arrivo in un piccolo borgo del Kansas e i genitori adottivi dediti all'agricoltura per poi ribaltarli nel momento in cui Brandon viene spinto dal lascito dei suoi avi alieni ad agire in maniera egoistica e violenta.
In ogni origin story che si rispetti il giovane destinato a diventare un eroe vive una fase in cui la scoperta dei propri poteri soprannaturali si sovrappone ai cambiamenti dell'adolescenza, in cui i primi diventano chiari simboli del traumatico passaggio dall'infanzia all'età adulta. Nel caso del protagonista del film in analisi, a differenza di quanto accade per Clark Kent, la pubertà e la contemporanea scoperta delle proprie vere origini creano un solco incolmabile tra sé e i genitori adottivi, reso ancor più profondo dalle proprie straordinarie abilità. Come spesso accade in situazione simili, il ragazzo finisce per avvicinarsi in maniera repentina e inesorabile alla sfera etico-emotiva della propria famiglia "di sangue", senza riuscire a ricucire lo strappo con Tori e Kyle. In questo senso assume un ruolo centrale l'influsso della voce proveniente dalla navicella spaziale, che inaugura la trasformazione della pellicola da tipica origin story da cinecomic in un ibrido con l'horror. In particolare il modo in cui le misteriose frasi che risuonano nella testa di Brandon, i suoi inquietanti disegni e in generale il modo in cui modifica il proprio comportamento ricordano filoni orrorifici ormai classici come quelli della possessione demoniaca e soprattutto quello, inaugurato da The Omen (non a caso diretto, nel 1976, da quel Richard Donner famoso soprattutto per la saga dedicata all'Uomo d'acciaio), incentrato sui figli del Diavolo.

La peculiare natura di meticcio tra cinecomic, coming of age e horror satanico di Brightburn si conferma anche per quanto concerne il lato visuale dell'opera. Pur non potendo contare su un budget da centinaia di milioni come le pellicole del MCU, il film non lesina nel mostrare la supervelocità o la vista calorifica del protagonista, eppure la reale potenza delle loro apparizioni si situa nel sapiente utilizzo del sonoro e in generale nel loro inserimento all'interno di sequenze ricche di tensione. Yarovesky dimostra un'abilità notevole nel gestire il registro tipico dell'horror, unendo l'attenzione per la profondità di campo e i long take di James Wan a un accorta alternanza tra silenzi ed esplosioni sonore, certificando la discesa verso l'orrore puro del lungometraggio dopo la prima metà.

Pur pagando probabilmente l'inesperienza del proprio regista, Brightburn rappresenta un coraggioso esperimento narrativo e formale all'interno dei due generi maggiormente in forma nel panorama contemporaneo, aprendo peraltro la strada a dei sequel che potrebbero dare vita a un contraltare indipendente e nichilista del modello Marvel.