martedì 11 novembre 2025

FRANKENSTEIN: MOSTRI, PADRI E PADRI MOSTRUOSI

Anche senza aver mai prestato la minima attenzione alle tante dichiarazioni in merito, chiunque seguendo la filmografia di Guillermo Del Toro avrebbe potuto scorgere una comune matrice, il mai abbastanza celebrato Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley, che echeggia perfino nelle produzioni più insospettabili o apparentemente lontane da un caposaldo della letteratura gotica. Era dunque inevitabile che prima o poi il cineasta messicano riuscisse nell'impresa, agognata fin da ragazzo, di trasporre direttamente il romanzo. L'opportunità gli viene fornita da Netflix, che porta sul proprio catalogo e in alcune sparute sale nell'autunno del 2025 Frankenstein, dopo la presentazione in concorso al Festival di Venezia, accolto da recensioni perlopiù positive, sebbene non manchino alcune voci fuori dal coro, soprattutto in seno alla critica italiana.


Il film, al netto di alcune non secondarie variazioni rispetto al materiale d'origine, segue piuttosto fedelmente l'ormai arcinota vicenda dello scienziato Victor Frankenstein (Oscar Isaac), che prima riesce a dare vita a una creatura (Jacob Elordi) per poi abbandonarla in un impeto di rigetto nei suoi confronti, scatenando in quest'ultima un sentimento di vendetta.


Fin dalla divisione in tre atti, un prologo narrato con oggettivo distacco, un secondo atto dedicato al punto di vista di Victor e un terzo invece che si identifica con la soggettività della Creatura, Frankenstein rivela la volontà di spostare il focus narratologico dal Bildungsroman del creatore a un sostanziale equilibrio tra le due parti in conflitto. Conflitto che è il cuore pulsante della pellicola, non quello però tra scienza ed etica, che viene rilegato ai margini da Del Toro, bensì quello tra padri e figli. La porzione di racconto dedicata allo scienziato, difatti, mette subito in evidenza, con grande scarto rispetto al romanzo, la relazione molto complessa con il barone Leopold (Charles Dance), che non riserva alcuna dimostrazione di affetto verso il figlio. Al contrario il suo primogenito viene trattato come un discepolo, un fantoccio da plasmare secondo la propria volontà e il desiderio di renderlo una copia di sé, in grado di reggere il lignaggio famigliare senza arrecare danni alla reputazione dei Frankenstein. Atteggiamento del tutto opposto a quello riservato all'altro figlio, William (Felix Kammerer), cresciuto con tutte le premure affettive negate al fratello maggiore e che, per un ulteriore scherzo del destino, trova anche l'amore, ricambiato, di Elizabeth (Mia Goth), donna di grande intelligenza, sensibilità e libertà di pensiero, incredibilmente somigliante alla madre del protagonista (Goth interpreta entrambi i personaggi).


Victor cresce e diventa un adulto certamente geniale ma anche e soprattutto orfano, privato prima dell'affetto paterno e in tenera età anche di quello che riceveva dalla madre, con cui aveva uno splendido rapporto e che neanche la notevole esperienza medica di Leopold riesce a salvare. Prendendo in prestito le parole che Sorrentino, anch'egli orfano, affida al saggio regista Antonio Capuano in È stata la mano di Dio (2021), l'uomo vive la propria condizione come un completo abbandono, inasprito dalle opposte fortune vissute dal fratello, compresa la relazione con Elizabeth, della quale si invaghisce, e tenta di sublimare questo abbandono diventando egli stesso creatore di un essere privo dei difetti e delle imperfezioni umane a lui rimproverate dal padre, dimostrando al contempo di essere degno di ammirazione da parte di quella comunità scientifica che identifica con lo stesso Leopold. Il risultato però è la trasformazione del protagonista in un surrogato paterno non appena si trova nella posizione di dover educare e formare la Creatura, disprezzandone i mancati progressi proprio come faceva il barone fino a conseguenze sempre più estreme.

Di padre in figlio Del Toro nella terza e ultima sezione del lungometraggio fa della Creatura il protagonista assoluto, libero nel mondo ma prigioniero della sua diversità, che gli permette di stringere amicizia solamente con un anziano cieco (David Bradley), in piena sintonia con uno dei temi centrali di La forma dell'acqua (The Shape of Water, 2017), mentre il resto dell'umanità lo rigetta come un mostro. L'unico altro essere umano in grado di vedere la natura sostanzialmente buona, memore delle teorie di Rousseau, della Creatura è Elizabeth, la cui apertura verso ciò che non rientra nei canoni del perbenismo borghese ottocentesco, introduce anche un'interessante dinamica di genere, che sembra relazionare donna e "mostro" grazie alla comune disparità di trattamento rispetto al maschio bianco, in una sorta di comune sentire di chi si sente emarginato dalla maggioranza in controllo della società.


Certamente il film soffre in alcuni casi di didascalismo ed eccessiva verbosità nell'esprimere i tanti conflitti che intercorrono tra i personaggi, ma è anche un prezzo da pagare per la riuscita di una produzione che mira a coniugare le istanze autoriali di un regista con una precisa cifra stilistica e poetica con le esigenze di kolossal da più di 100 milioni di dollari di budget e fiore all'occhiello dell'offerta autunnale di una piattaforma di streaming generalista, per cui sono perdonabili alcune concessioni all'attuale panorama audiovisivo mainstream. Anche il maldestro ricorso eccessivo alla CGI in alcune sequenze, che finisce per minare l'usuale e certosina cura che l'autore di Blade II (Guillermo Del Toro, 2002) riserva a scenografie e architetture elevate al rango di personaggi veri e propri, alla stregua del grande cinema gotico ed espressionistico, sembra tradire la necessità in sede di regia di assecondare alcune intemperanze di Netflix, attenta a non alienarsi il pubblico più vasto possibile. Il risultato finale è comunque un grandissimo esempio di convergenza tra autorialità e spettacolarità da blockbuster con cui ancora una volta Del Toro riconcilia chiunque si sia sentito almeno una volta nella vita un mostro con il mondo che lo circonda, perché persino chi ha davvero agito da mostro può interrompere prima che sia troppo tardi il ciclo di odio in cui sembra piombato il mondo contemporaneo.

lunedì 10 novembre 2025

DRACULA - L'AMORE PERDUTO: DA COPPOLA AL BESSONVERSE

Tra la seconda metà degli anni Ottanta e i Novanta, nel pieno dell'era dei blockbuster e agli albori della rivoluzione digitale, c'è stato un autore europeo che, dopo degli esordi fortemente sperimentali, ha tentato con successo di offrire un'alternativa alle produzioni americane giocando sullo stesso terreno, alla stregua di quanto accadeva decenni prima in Italia: Luc Besson. Nel terzo millennio la carriera del regista francese ha intrapreso una strada ben più tortuosa, costellata da tonfi rumorosi, così come da discreti successi e sorprendenti exploit positivi, tra i quali rientra certamente Dogman del 2023, esaltato dalla straordinaria interpretazione di Caleb Landry Jones. La coppia torna a lavorare insieme nel 2025 per Dracula - L'amore perduto (Dracula: A Love Tale), una produzione internazionale, nella quale rientra anche l'Italia, che racconta nuovamente il mito del vampiro per eccellenza a pochi mesi di distanza dal Nosferatu di Eggers. In attesa di una distribuzione ufficiale nel resto del mondo, il film, arrivato nelle sale nostrane poche settimane fa, sta raccogliendo pareri contrastanti, ma con buone cifre al botteghino.


Dopo un prologo ambientato nel XV secolo, durante il quale il principe valacco Vlad III (Caleb Laundry Jones) rinnega Dio in seguito alla perdita dell'amata Elisabeta (Zoe Bleu), la pellicola racconta l'incontro tra il vampiro e la reincarnazione della sua antica sposa, Mina Harker (Zoe Bleu), a Parigi, mentre la società civile gli dà la caccia, in particolare attraverso l'azione di un prete (Christoph Waltz) incaricato dal Vaticano di combattere i non-morti.


Fin dal succitato prologo Dracula - L'amore perduto non nasconde e, anzi, espone apertamente la propria filiazione dal Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker's Dracula, 1992) diretto da Francis Ford Coppola, che però rilegge in chiave ben più esplicita nei sottotesti sociali e perfino narrativi secondo una visione cinematografica fieramente bessoniana. Il primo discrimine rispetto alla pellicola del 1992, che pure operava alcune integrazioni rispetto al romanzo d'origine e cambi di prospettiva legati a una sensibilità chiaramente differente rispetto a quella vittoriana, risiede nel punto di vista ostentatamente spostato verso la soggettività del vampiro. Dalla forte dialettica tra il dramma interiore di Vlad e la disperata lotta per liberare il mondo dal Male di Jonathan e Van Helsing, l'autore di Nikita (Luc Besson, 1990) sposta completamente il baricentro narratologico sul primo elemento, motivo per cui l'horror, seppur presente in sparuti momenti, cede il passo a un melò postmoderno, che mescola al proprio interno influenze provenienti dall'intera filmografia del cineasta transalpino e da colleghi non casualmente protagonisti della medesima stagione cinematografica in cui Besson è stato all'apice del successo di critica e pubblico. 

La strisciante critica al perbenismo borghese, che solamente in superficie si ammanta di razionalità e altruismo per poi scadere nel più becero fanatismo, finanche religioso, quando la caccia al mostro viene perpetrata anche al rischio della vita di giovani innocenti, che caratterizza il romanzo di Stoker e, con ancor più veemenza, il capolavoro diretto da Coppola si declina nel lungometraggio in analisi in una caustica satira rivolta a tutti i personaggi che abitano la "civilissima" Parigi capitale della Belle Époque, tra i quali spicca un Jonathan Harker (Ewens Abid) totalmente inetto e caricaturale, che arriva persino ad attirare una certa simpatia nel conte proprio a causa di una caratterizzazione così naif da farlo somigliare alla versione del personaggio tratteggiata da Mel Brooks in Dracula morto e contento (Dracula: Dead and Loving It, 1995). La vena ironica, che non si limita al solo futuro marito di Mina, che peraltro sembra provare per l'uomo al massimo una sorta di umana pietas, crea un forte contrasto con il ritratto romanticamente sofferente di Dracula, in pieno stile Besson, non nuovo alla commedia sia nelle vesti di regista, sia di produttore con la sua EuropaCorp, con effetti talvolta brillanti (gli scambi di battute tra il protagonista e il suo rivale in amore, il sardonico sarcasmo del prete), in altri casi però fin troppo stridenti con la storia di un vampiro alla ricerca non solo dell'amore perduto, ma anche di una conclusione a una secolare esistenza segnata da dolore ed emarginazione, molto vicina all'interpretazione esistenziale di Werner Herzog (Nosferatu, il principe della notte, Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979). Pur rappresentando un tratto caratteristico del cinema made in Besson, il pastiche di generi in questo caso depotenzia la carica emozionale del racconto, che avrebbe beneficiato di un approccio ugualmente sferzante e astorico ma meno altalenante, come nel magnifico Giovanna D'Arco (The Messenger: The Story of Joan of Arc, 1999).


Al netto delle citate criticità, il film brilla nella messinscena, specialmente nelle battaglie e in alcune sequenze di grande impatto visivo, come quella ambientata in un convento, e nella interpretazioni estremamente intense e, al contempo, divertite del cast, nel quale spiccano Jones e Matilda De Angelis, perfettamente a loro agio con i variegati toni richiesti dalla regia. Dracula - L'amore perduto, tirando le somme, riporta in sala una tipologia di settima arte fortemente spettacolare, emozionale e scanzonata al tempo stesso, che proviene direttamente e in maniera conclamata da quegli anni Novanta segnati proprio da Besson, Coppola e Tom Tykwer (citato a più riprese il suo Perfume: Sory of a Murderer del 2006). Una rivendicazione proveniente dal passato perfettamente coerente con la sofferta vicenda del conte vampiro, che chiede solamente di poter ardere un'ultima volta in compagnia della sua dolce metà.

venerdì 7 novembre 2025

PRESENCE: WE LIKE TO WATCH

Tra le figure più singolari che popolano Hollywood da ormai trent'anni, Steven Soderbergh fa della propria vita un'opera d'arte sul tema del doppio: alterna blockbuster o produzioni ad alto budget e fieramente di genere, spettacolari e ricche di star riconosciute in tutto il mondo, a pellicole fuori dagli schemi convenzionali, in cui sperimenta con le infinite possibilità offerte dal mezzo cinematografico, in special misura dall'avvento del digitale. Come ogni racconto sul doppio ci rivela, però, ognuna delle due anime costituisce parte integrante di un singolo individuo, per cui anche questa apparente dualità nasconde in realtà un'unica, forte idea di cosa sia la settima arte, nella quale convivono in perfetta simbiosi narrazione e stile, emozione e riflessione intellettuale. Perfetto esempio di questa visione è Presence, diretto dall'autore statunitense nel 2024 a partire da una sceneggiatura dell'altrettanto esperto David Koepp. Con un budget molto ristretto per gli standard americani (circa 2 milioni di dollari) e una sola star a dominare il cast, Lucy Liu, il film viene accolto da recensioni in gran parte positive e discrete cifre al box office per una produzione di questo tipo, sebbene gli aggregatori online relativi alle opinioni dell'utenza comune mostrino reazioni ben più tiepide.


La pellicola, composta da una serie di piani sequenza interrotti da alcune dissolvenze al nero, segue l'arrivo in una nuova casa della famiglia composta dai coniugi Rebekah (Lucy Liu) e Chris Payne (Chris Sullivan) e dai due figli Chloe (Callina Liang) e Tyler (Eddy Maday). Mentre i protagonisti si trovano in una crisi dei loro rapporti che sembra pronta a esplodere da un momento all'altro, Chloe, che soffre a causa della perdita di due sue amiche per una presunta overdose, diventa spettatrice in camera sua di eventi soprannaturali, che si propagano poi in tutta la casa, fino a coinvolgere tutti gli abitanti.


A cominciare dal primo dei numerosi piani sequenza che lo costituiscono, Presence rivela la sua natura di ghost story atipica, che solo in superficie rispetta i canoni di uno dei racconti che accompagna la settima arte fin dai suoi albori. La scelta di limitare fortemente l'uso del montaggio, evidenziato peraltro con un segno di interpunzione forte come la dissolvenza al nero, insieme alla natura ambigua dello sguardo della macchina da presa, che inizialmente sembra palesemente soggettivo per poi porsi in alcuni casi alla stregua di una oggettiva da cinema classico, riporta proprio alle origini del medium, quando la sua grammatica non era ancora ben definita, così come il suo status narratologico, e dunque ogni singolo artista utilizzava le immagini in movimento secondo la propria sensibilità di pioniere. Recuperando dunque il forte carattere sperimentale del cinema delle origini, o delle attrazioni come direbbe Sandro Bernardi, Soderbergh crea un horror che pesca a piene mani dalla fantasmagoria e da tutto quell'immaginario di spiritismo (citato anche esplicitamente attraverso una sensitiva nella trama) e strumenti illusori precinematografici di cui il cinematografo rappresenta il culmine tecnologico e spettacolare, motivo per cui molti dei primi film di cui abbiamo notizia (si pensi a Méliès) giocano proprio sulle capacità di affabulazione affine alla prestidigitazione della cinepresa.

All'interno della suddetta fascinazione per il mondo del cinema delle origini, l'autore di Sesso, bugie e videotape (Sex, Lies and Videotape, Steven Soderbergh, 1989) esalta il carattere scopico di questo mezzo espressivo, facendo dello spettro che segue costantemente le vicende della famiglia Payne un avatar non solo del regista stesso, che in questo caso assume anche le vesti di direttore della fotografia, ma, soprattutto, del pubblico, che proprio in quanto tale si rende protagonista di un atto di scopofilia, di piacere provocato dalla possibilità di spiare quanto accade a un gruppo di personaggi dall'altra parte dello schermo, esattamente come un voyeur che spia il proprio vicinato con un cannocchiale, ricordando la lezione hitchcockiana o depalmiana. Ma come si concilia tutto ciò con il racconto della crisi famigliare e del lutto che ha colpito Chloe? Proprio l'identificazione tra spettro, macchina da presa e spettatore permette a quest'ultimo di entrare attivamente tra le maglie delle dolorose disavventure cui vanno incontro i personaggi, dando forma sensibile al desiderio di aiutare chi vive la diegesi che è proprio del rapporto empatico tra i due estremi dello schermo, abbandonando la caratura prettamente teoretica e ideale di tutte le riflessioni ormai centenarie sul tema della spettatorialità.


"I like to watch" affermava a più riprese Jake Scully in Omicidio a luci rosse (Body Double, Brian De Palma, 1984), riassumendo in quattro brevi parole il cuore dell'esperienza cinematografica, che Presence sceglie di formalizzare attraverso una ghost story in cui il pubblico interagisce direttamente nella lotta con i propri demoni di quattro personaggi comuni, in cui non casualmente il vero mostro non è il fantasma, bensì un ragazzo benestante dal viso acqua e sapone.

domenica 10 agosto 2025

THE OUTRUN - NELLE ISOLE ESTREME: LET THE OCEAN TAKE ME

A distanza di dieci anni dall'uscita dell'album che ha reso famosi, almeno tra gli appassionati di metalcore, gli Amity Affliction la cineasta tedesca Nora Fingscheidt scrive e dirige un film che mi ha immediatamente evocato quel Let the Ocean Take Me, cantato anche nel ritornello di Don't Lean on Me: The Outrun (2024). Il film, voluto fortemente dalla coppia formata da Saoirse Ronan e Jack Lowden, entrambi co-produttori, è un adattamento dell'omonima autobiografia di Amy Liptrot, co-sceneggiatrice insieme alla regista teutonica, presentato al Sundance Festival, dove ha ricevuto ottime recensioni, mentre in Italia è passato pressoché inosservato.


Seguendo un andamento cronologicamente non-lineare, la pellicola segue il tentativo di tornare a vivere davvero da parte di Rona (Saoirse Ronan), quasi trentenne laureata in biologia con problemi di alcolismo. Dopo essersi disintossicata in una comunità per 90 giorni, la giovane lascia Londra per le Orcadi, dove vivono i genitori, seppur separati. La convivenza con i due non è semplice, così come il progressivo reinserimento nella società tramite un lavoro per una ONG che si occupa di preservare la fauna locale, mentre i ricordi del passato e la mancanza del suo ex fidanzato Daynin (Paapa Essiedu) contribuiscono alle difficoltà della protagonista.


The Outrun inizia con la voce fuori campo di Rona che racconta allo spettatore di alcune particolari figure della mitologia norrena in grado di alternare forma acquatica e umana, ma che se restano sulla terraferma troppo a lungo restano intrappolate nell'involucro terrestre, anelando per il resto della loro esistenza il ritorno tra gli abissi, mentre la macchina da presa si sofferma proprio sulle onde dell'Atlantico. Un prologo quanto mai profetico per la narrazione che segue, il cui andamento ciclico e paratattico ricorda l'azione delle onde stesse e che mette in scena la costante battaglia di una donna che sembra trovare la propria ragione d'essere solo a contatto con il mare. La giovane biologa, del quale vengono mostrati frammenti di vita fin da quando è bambina, appare sempre fuori posto, vicina solamente all'apparenza alle persone che la circondano, che raramente riesce a comprendere. Probabilmente è questo disagio esistenziale, la consapevolezza di non appartenere a nessun luogo, esasperata anche dalla disorientante vastità di una metropoli come Londra, che la porta a rifugiarsi nell'alcol, senza il quale, parafrasando quello che dice a un compagno nel percorso di riabilitazione, non riesce proprio a vedersi felice. Nei flashback del suo percorso universitario e della convivenza con Daynin, l'unica persona con cui intrattiene conversazioni che non siano di pura circostanza, è quasi sempre alticcia o completamente ubriaca, che si tratti di contesti felici o di ricordi dolorosi. Una dipendenza che la porta a fare terra bruciata intorno a sé, sul piano lavorativo prima e poi su quello personale, perdendo proprio l'amore della sua vita e, in una spirale discendente, arrivando a toccare il fondo quando subisce un tentato stupro.


Il turbine di salti temporali tra presente e passato rende evidente anche quanto abbia influito sul disagio cronico della ragazza la convivenza con la precaria salute mentale del padre, le cui crisi dissociative distruggono a poco a poco il nucleo famigliare di Rona, ma sembrano al contempo confermare l'affascinante ipotesi di matrice mitopoietica che padre e figlia siano in fondo anime incomprese e cronicamente infelici poiché nate per vivere tra le forze ancestrali della natura, in particolare il vento nel caso dell'uomo e il mare per la giovane. Una sorta di interpretazione in chiave panica della malattia mentale tanto efficace poeticamente grazie in primis alla straordinaria interpretazione di Ronan, il cui corpo si rivela un serbatoio infinito di storie ed emozioni come un aedo di epoca omerica, ma in misura non inferiore alla potenza immaginifica della regia di Fingscheidt, che rende palpabile la connessione tra la protagonista e i suggestivi paesaggi delle Orcadi attraverso illuminazione rigorosamente naturale e un uso del colore fortemente simbolico, che si ritrova nelle variegate sfumature del cielo nordico, così come in dettagli apparentemente insignificanti come le tinte di capelli di Rona o le variazioni nello smalto sulle sue unghie. Esemplare la lunga sequenza priva di dialoghi nei minuti finali della pellicola, in cui la danza liberatoria della giovane piano piano si tramuta nei movimenti di un direttore d'orchestra i cui strumenti musical sono le primigenie forze della natura, le uniche in grado di aiutarla realmente a uscire dal tunnel della dipendenza quando vi si abbandona completamente, come in un coraggioso bagno tra le gelide acque dell'oceano tra i richiami dei versi delle foche.

In un momento storico di progressiva e fantasmatica smaterializzazione dell'esperienza umana, The Outrun è una splendida, seppur sofferente, esperienza aptica resa possibile solo dalla magia del cinema.   

domenica 20 luglio 2025

I PECCATORI: THE PRICE OF FREEDOM

A conferma delle innumerevoli idiosincrasie che animano il nostro paese, mi sorge spontanea una domanda: esattamente perché Ryan Coogler, in mezzo a una pochezza disarmante nel panorama americano mainstream, piace in tutto il mondo con la sola eccezione dell'Italia? Me lo chiedo già da quando ho visto per la prima volta Creed - Nato per combattere (Creed, 2015), ma il quesito mi sembra ancor più complesso alla luce della visione de I peccatori (Sinners in originale), arrivato nelle sale nello scorso aprile con il plauso unanime in tutto il mondo, incassi molto elevati considerando l'attuale crisi dell'esperienza cinematografica e, puntualmente, non poche ricezioni negative dove? Ovviamente nel nostro amato stivale. Qualche idea sull'argomento è maturata nella mia testa in questi anni, fino a toccare questioni culturali piuttosto annose e meritevoli di una disamina articolata, per cui mi limito a focalizzarmi in questo momento sull'ultima fatica del cineasta statunitense.


Ambientato in una sola, lunga giornata del Mississippi del 1932, il film mette in scena il tentativo da parte dei gemelli Stack e Smoke Moore (entrambi interpretati da Michael B. Jordan) di aprire un juke joint nella propria città natale, abbandonata per anni in cerca di fortuna a Chicago. Per garantire il successo del locale chiedono aiuto al giovane cugino Sammie (Miles Caton), asso della chitarra, al navigato musicista Delta Slim (Delroy Lindo) e all'ex moglie, nonché esperta di magia e cuoca, di Smoke Annie (Wunmi Mosaku). Nonostante qualche difficoltà, soprattutto legata agli introiti economici, l'inaugurazione sembra andare alla grande, almeno fino alla comparsa di un trio di misteriosi bianchi, guidati dall'irlandese Remmick (Jack O'Connell), che chiede di poter partecipare alla festa.


Uno dei primi pensieri che balena nella mente dello spettatore durante e dopo aver concluso I peccatori si concentra su quante cose, quanti film ne film lo compongano. Dalla ricostruzione della vita negli stati del sud nel pieno della crisi del Ventinove al gangster movie, dall'horror soprannaturale al western, il pastiche organizzato da Coogler non nasconde la propria essenza postmoderna e metacineamtografica, che però non si limita a flirtare con la conoscenza pregressa del pubblico, bensì lavora come strumento indispensabile per la poetica del regista. Dichiaratamente militante in ogni sua opera, l'autore di Black Panther (2018) dopo aver messo a nudo le contraddizioni e iniquità cui va incontro la comunità afroamericana dal momento stesso della sua nascita tenta un'azione ben più sovversiva, ovvero filmare il suo riscatto nei confronti degli oppressori tramite l'appropriazione di quegli spazi che gli sono sempre stati negati. Protagonisti di tale operazioni sono i fratelli Moore, che, dopo aver conosciuto le condizioni tipiche della vita degli uomini di colore nel profondo sud, tentano una scalata sociale attraverso i sentieri più oscuri dell'American Dream, in quella malavita di Chicago che, pur trovandosi evidentemente al di là dei confini della legge, resta comunque a esclusivo appannaggio dei bianchi. Allo stesso modo denaro e potere, il connubio che muove le fila del mondo, come spiegato in una scena anche da Smoke, è sempre stato esclusivo dei colonizzatori, persino nelle sue implicazioni più superficiali e apparentemente innocue (divertimento, abbigliamento, automobili ecc.). Per quanto moralmente esecrabili, i due gangster rappresentano uno dei tanti modi in cui la classe dominata può ribaltare i rapporti di forza, mettendo in crisi quelle convenzioni che tengono ai margini dei centri di potere, perfino culturali, il gruppo di outsider, esattamente come accadeva ad altri personaggi di Coogler, dal supereroe africano T'Challa al pugile di colore che rivive il mito di Rocky Adonis. I generi popolari e gli eroi che li popolano non devono più essere WASP, bensì un territorio franco per permettere anche ai giovani di colore di aspirare alle vette del proprio immaginario e, quando questo non accade, ecco allora che qualcuno si rifugia nel lato oscuro della luna, quello degli antieroi, dei fuorilegge che dominano un periodo storico in cui è ancora il più forte a determinare il destino della collettività, in contiguità con il Far West.


Sinners potrebbe "accontentarsi" di trasmigrare il mito dei vari Dillinger, Butch Cassidy e Sundance Kid verso la popolazione nera e invece punta più in alto. La svolta horror nella seconda metà della pellicola, ad esempio, a prima vista crea una versione alternativa della dicotomia bianchi buoni/indiani cattivi del western classico, dove i vampiri sono ovviamente di origini anglosassoni e collusi con il Klan, eppure nel corso dello snervante assedio questi ultimi mostrano una complessità interpretativa ben lontana dalla manichea divisione tra buoni e cattivi. Nelle parole e nelle azioni di Remmick e di coloro che vengono morsi emerge una idea comunitaria allettante nella sua distanza da qualunque discriminazione etnica, per non parlare della prospettiva dell'immortalità, che però, al contempo, nella sua intrinseca violenza e limitazione in molti di quegli aspetti che rendono così speciale l'esperienza umana (si pensi alla possibilità di ammirare il sole) non può non far pensare ai vacui propositi di uguaglianza di cui si frega la contemporaneità, teoricamente priva di discriminazioni per legge scritta e morale, ma di fatto fondata proprio su una élite che detiene il potere e una massa sempre più uniforme che si limita a sopravvivere alla sua ombra. Ecco perché persino il tanto vitale e ottimista Stack, in una delle sequenze conclusive, rimpiange amaramente la prima parte della giornata inaugurale del juke joint. Umanità e libertà non potranno mai essere slegate, per cui l'unico potere in grado di donare un assaggio reale di entrambe per un popolo sottomesso da secoli è quello dell'arte, in particolare della musica, che, al di là delle notevoli evoluzioni subite con gli innumerevoli ricambi generazionali, simboleggia nel migliore dei modi la ricchezza di tale popolo, il suo lancinante grido di autoaffermazione e le possibilità espressive di qualunque forma artistica. Se siete tra i detrattori de I peccatori provate a dare un'altra occhiata al piano sequenza del ballo extradimensionale, uno di quei momenti che ci ricorda perché amiamo il cinema e ne abbiamo così disperatamente bisogno.



sabato 12 luglio 2025

SUPERMAN: LA PERVERSIONE DELLA LEGGEREZZA

Siamo nel 2025, i fumetti non sono esattamente un medium in voga da almeno un paio di generazioni, neanche il cinema se la passa tanto meglio eppure Superman a quasi cento anni dalla sua nascita continua a vivere nella memoria collettiva e, dunque, risulta ridondante dover spiegare chi sia. La stessa idea è passata per la testa (giustamente) anche di James Gunn, tra i pochi nomi dell'attuale panorama hollywoodiano a sbagliare davvero di rado un colpo, ad attirare gli spettatori come o persino più di un divo davanti alla macchina da presa. Dopo essere salito alla ribalta all'interno del Marvel Cinematic Universe il cineasta statunitense è divenuto CEO di DC Studios, per il quale però non si limita a coordinare il più ampio progetto artistico crossmediale, al punto da scegliere di mettere sulle proprie spalle un onore e onere da far tremare i polsi, quello di scrivere e dirigere il reboot del primo supereroe. Ereditando il timone lasciato suo malgrado dall'amico di lunga data Zack Snyder, l'autore di Guardiani della Galassia (Guardians of the Galaxy, James Gunn, 2014) proprio in questi giorni porta nelle sale di tutto il mondo il suo Superman, che nel momento in cui vi scrivo sta riscontrando consensi quasi unanimi da parte della critica, mentre più divisiva appare la ricezione da parte del pubblico, com'è anche ormai prassi per una proprietà intellettuale così famosa e con un fandom tanto vasto, nel bene e purtroppo nel male.


Evitando di ripercorrere le origini del protagonista per l'ennesima volta, il film mostra Superman (David Corenswet) nel suo terzo anno di attività da eroe, alle prese però con le prime grandi difficoltà all'interno di essa, in particolare dopo una deludente sconfitta subita da Ultraman, un potente e misterioso metaumano comandato da Lex Luthor (Nicholas Hoult), intelligentissimo magnate della tecnologia che odia a morte il kryptoniano. Oltre alla suddetta disfatta fisica contro lo sgherro del villain, l'Uomo d'acciaio è costretto ad affrontare ulteriori difficoltà, in primis di tipo emotivo-psicologico, come i litigi a causa di diverse vedute con la compagna Lois Lane (Rachel Brosnahan), le accuse pubbliche di aver agito arbitrariamente in politica estera difendendo il paese del Jarhanpur dall'invasione della vicina Boravia, fino alla scoperta, ovviamente causata da una delle machiavelliche trame di Luthor, di una parte sconosciuta del messaggio lasciatogli dai suoi genitori biologici che lo esorta a conquistare la Terra.


Quando un creativo si approccia a un personaggio dall'evidente caratura mitologica come Superman le possibilità, così come le insidie sono infinite: molto è stato già detto, vista anche la moltitudine di media che hanno adattato il fumetto originale, ma al tempo stesso l'eroe permette a qualunque autore di poterlo maneggiare e plasmare a seconda della propria sensibilità, senza perdere l'essenza di ciò che lo rende riconoscibile. In virtù di questo Gunn opta per una lettura che non rinnega assolutamente il passato più o meno vicino dell'eroe, non soltanto per le citazioni dirette, come ad esempio il riarrangiamento dell'iconico tema musicale composto da John Williams nel 1978, ma anche per i tanti spunti tematici passati che continuano a risuonare nel mondo contemporaneo. Si pensi, tra le tante, alle implicazioni politiche delle azioni del protagonista, già affrontate decenni fa da Frank Miller su carta ma ancor di più da Snyder in Batman v Superman: Dawn of Justice (2016), dove, in maniera analoga, Superman viene accusato di non rispettare la legislazione nazionale e internazionale, tanto da venire posto dinanzi alla pubblica accusa alla stregua di un terrorista. Ciò non significa che la pellicola viva nel mash-up di un passato glorioso, anzi, in pieno rispetto dell'idea di cinema professata a più riprese da Gunn, la conoscenza di ciò che è stato diventa strumento per donare maggiore forza all'esplorazione di ciò che più appassiona l'autore, ossia l'umanità del kryptoniano. Spesso i detrattori del personaggio gli rinfacciano una monodimensionalità di caratterizzazione all'insegna di una bontà eccessiva (il famoso paragone con i boyscout), che lo rende poco credibile e affascinante. Il regista a tal proposito decide di partire proprio da questa bontà d'animo e mostrare al pubblico quanto il mondo attuale non solo necessiti di questo spirito in tutti noi, ma che in una società in cui tutti non aspettano altro che mostrare rancore e il proprio lato più meschino nei confronti del prossimo, specie sui social, l'altruismo esasperato, la fiducia incondizionata verso l'umanità, anche nei casi più estremi, rappresentano un atto di ribellione molto, molto punk (citando direttamente la sceneggiatura) a scapito della deriva cui ci sta portando questo modo di agire.


Il Superman di Gunn, dopo essere stato attratto per tutto l'incipit dalla sua parte aliena a discapito di quella umana, una volta tradito dai genitori biologici che aveva mitizzato abbraccia al 300% il versante terrestre della sua essenza, come evidenziato dal ritorno alle origini a Smallville o dalla sequenza conclusiva e, conseguentemente, anche l'enorme fragilità e le tante sconfitte subite da un personaggio teoricamente invincibile rientrano nell'idea di mettere in scena un eroe del popolo, un primo tra pari, riprendendo il concetto di princeps latino. In questo concetto però, a mio parere risiede una delle delusioni legate al lungometraggio. Per quanto la semplicità sia di per sé un valore nobile e degno di essere ostentato e difeso a oltranza, spesso nell'arte schematizzare sottrae il fascino dell'incertezza, della domanda sulla facile risposta, della riflessione a discapito della cieca accettazione. La scelta pienamente autoriale di privare l'eroe di Metropolis di quella dicotomia tra uomo e divino, alieno e americano annienta quella dimensione epica intrinseca di un profugo che viaggia attraverso le stelle per unire il meglio di due civiltà, di un messia venuto dallo spazio che sacrifica tutto di sé per il bene di coloro che lo hanno adottato, nonostante le differenze. Certamente anche l'abbandono dell'epica sembra rientrare scientemente nell'ideale di Gunn, rispettabile e anzi degna di ammirazione proprio in quanto lettura propria di un singolo autore del mito, ciononostante sarebbe miope negare quanto faccia male alla fruizione della pellicola il costante diniego del pathos in favore di siparietti comici discutibili e di un'estetica che molto spesso sembra voler confermare i peggiori pregiudizi all'insegna dell'infantilismo con cui i cultori delle distinzioni tra arte alta e arte bassa collocano il fumetto tra la spazzatura culturale. Tra i tanti sprazzi di ricercatezza formale, come nello splendido momento da videoclip che esalta le capacità di Mr. Terrific (Edi Gathegi) o nei campi lunghissimi dedicati al protagonista, spicca purtroppo anche una lacuna di personalità, per cui diventa difficile distinguere l'opera del cineasta nato a St. Louis rispetto a quello di molti altri colleghi attivi nel calderone dei blockbuster contemporanei. Un saliscendi suffragato da tantissimi altri elementi, dalla magica sequenza del bacio tra Clark e Lois a pessimo costume indossato dal supereroe, da un Lex Luthor che riecheggia perfettamente certi leader mondiali e come stiano ingurgitando le risorse di tutti per lisciare il proprio ego passando però attraverso reiterate battute che potrebbero essere utilizzate per spiegare alla perfezione alla generazione Boomer il significato del termine cringe.

Superman, in conclusione, rappresenta un'incoraggiante inizio per il nuovo corso DC, oltre a una visione tanto divertente quanto intelligente anche singolarmente, eppure resta l'amaro in bocca per uno studente che spesso si perde in un bicchiere d'acqua o in quella che Sorrentino definiva perversione della leggerezza in Youth (2015), perché onestamente non se ne può più nel 2025 di un'idea innocua e ridicola del cinecomic, quando Nolan, Reeves, Phillips, Snyder e Gunn stesso in altre occasioni ci hanno dimostrato la vasta gamma di possibilità espressive offerte dal filone. Se un bambino dinanzi ai fucili degli oppressori del proprio paese mostra una bandiera con la S è perché l'Uomo d'acciaio rappresenta degli ideali, delle speranze e un immaginario emotivo che va ben oltre delle sciocche mutande rosse su una tuta da forzuto del circo di inizio Novecento, per cui James smettiamo di dare ragione ai conservatori della critica cinematografica e non solo. Grazie.

domenica 29 giugno 2025

L'ORTO AMERICANO: LO SPECCHIO SCURO AVATIANO

Il cinema, come moltissimi altri argomenti popolari, è ricco di frasi fatte, vulgate e stereotipi con cui molti riescono a evitare la presunta ignominia di dover ammettere di non sapere niente su un determinato movimento, regista o di non aver mai visto neanche mezzo minuto di quel film. A mio modesto parere rientra in questa categoria l'etichetta di "gotico padano" cui viene accompagnato immancabilmente Pupi Avati, autore certamente di alcuni straordinari lungometraggi di genere, in particolare horror o gialli, ma gotici? Fino a qualche giorno fa avrei detto che in realtà ne ha diretto solamente uno, Il nascondiglio, nel 2007, poi ho finalmente recuperato L'orto americano, presentato al Festival di Venezia del 2024 per poi essere distribuito ufficialmente in sala solamente nel marzo di quest'anno, ricevendo recensioni piuttosto tiepide, soprattutto per quanto concerne la sceneggiatura.


Ambientata nell'immediato secondo dopoguerra, la pellicola segue la ricerca da parte di un giovane scrittore anonimo (Filippo Scotti) di una ausiliaria americana scomparsa (Mildred Gustavsson), vista in realtà una sola volta mentre il ragazzo si trovava da un barbiere. L'investigazione inizia negli Stati Uniti, dove il protagonista si trasferisce per qualche tempo, finendo proprio nella casa accanto a quella della madre della giovane (Rita Tushingham), la cui disperazione, insieme alla stranezza della coincidenza, convince lo scrittore di dover riuscire in tutti i modi a ritrovare la ragazza, persino a costo della sua vita quando è costretto a rientrare in Italia.


Se anche la breve sinossi appena esposta può apparire confusionaria è perché, difatti, L'orto americano si dipana in un racconto tutt'altro che lineare e classico, non per svogliatezza da parte di Avati, autore anche della sceneggiatura, bensì a causa di una precisa volontà di perseguire un andamento sognante, tipico dell'altrettanto preciso riferimento facilmente riscontrabile nel film. La centralità di una coppia di donne (quasi) identiche fisicamente ma apparentemente opposte caratterialmente, una complessa indagine che porta il protagonista a scendere negli inferi del lato oscuro della società e della propria psiche, il bianco e nero della fotografia estremamente stilizzato nel taglio delle ombre e così via: una lunga serie di caratteri onnipresenti nel noir americano degli anni Quaranta e in particolare nella filmografia di Robert Siodmak, maestro tedesco trasferitosi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste. L'autore di capisaldi del genere quali Lo specchio scuro (The Dark Mirror, 1948) o I gangsters (The Killers, 1946) esemplifica alla perfezione la tendenza che porta molti colleghi europei trapiantati a Hollywood a utilizzare la maggiore libertà espressiva offerta dalle storie criminali di questo tipo per poter continuare a sperimentare con i mezzi utilizzati nel corso dell'esplosione delle avanguardie tedesche della Repubblica di Weimar, compresa l'esplorazione, tramite anche una messinscena estremamente antinaturalistica, di ossessioni e perversioni fin troppo umane, agli antipodi della rassicurante visione cinematografica della classicità hollywoodiana. Una vera e propria versione filmica di quel mondo gotico che aveva segnato nei decenni precedenti la letteratura, europea e non solo, in cui realtà e immaginazione sfumano l'uno nell'altro costantemente e gli edifici, spesso infestati da presenze più o meno fantasmatiche, finiscono per diventare simboli dei traumi da cui i personaggi tentano, con scarso successo di fuggire. 


Questo è l'immaginario che Avati, con molta più decisione anche rispetto al suo capolavoro La casa dalle finestre che ridono (1976), riporta in vita, a partire dall'elegantissimo quanto opprimente bianco e nero con cui dipinge le peregrinazioni dell'anonimo scrittore, la cui presenza quasi kafkiana, resa con grande efficacia da Scotti, da un lato recupera anche il flaneur tipico del giallo all'italiana cui può essere ascritto il sopracitato lungometraggio, ma dall'altro sottolinea come il vero fulcro della narrazione non sia la soluzione del mistero più concreto, bensì quello ancor più complesso e inafferrabile riguardante la natura del reale, la fallacia della percezione umana e i demoni con cui siamo costretti a scendere a patti ogni singolo giorno. La Bologna distrutta dai bombardamenti, così come lo sperduto paesino dell'Iowa e le ormai celeberrime langhe delle valli di Comacchio sempre presenti nel versante più oscuro della filmografia avatiana, rappresentano con notevole forza immaginifica e persino sensoriale la presenza del Male, quello atavico, irrazionale che popola le fiabe, nel mondo quotidiano, sfociando poi in infinite varietà, dall'orrore della guerra e delle sue conseguenze (si pensi alla pratica di vendere i cadaveri caduti in battaglia ai loro cari) fino a un serial killer che trova soddisfazione nel mutilare i genitali femminili e rivendicare la sua "arte" con dei frammenti poetici ellenisti. Per molti potrà risultare straniante l'andamento onirico, privo di risposte certe anche nel finale, scelto dall'autore di Zeder (Pupi Avati, 1983), ma altri non è se non il marchio di fabbrica di quel gotico travestito da thriller metropolitano che il cineasta bolognese trapianta nel milieu che conosce meglio e che si adatta perfettamente allo scavo attraverso la cantina più spaventosa dell'animo umano. Come ogni incubo L'orto americano non si spiega e non si comprende, si abbraccia per poterci risvegliare scossi, ma anche un po' felici di esserne usciti vivi.