lunedì 25 novembre 2024

IL GLADIATORE II: ROMA DECADENCE

Stavo per esordire con una constatazione sulla divisività legata al nome Ridley Scott, ma riflettendo su quante volte abbia dovuto evidenziare quest'aspetto per registi sempre diversi mi rendo conto che ormai tutto e tutti sono divisivi, solamente qualcuno più di altri. Scott, dopo aver convinto proprio tutti, almeno a distanza di anni, con Alien (1979) e Blade Runner (1982), torna all'apice del panorama hollywoodiano con Il gladiatore (Gladiator, 2000), campione di incassi e pluripremiato, eppur criticato sia allora, sia oggi per le fantomatiche inesattezze storiche figlie di chi non ha capito come funziona il peplum e il cinema di fiction tout court. Per mantenere alta la soglia delle battaglie dialettiche tra ammiratori e detrattori, così come ovviamente per provare a replicare l'incredibile successo appena citato, il cineasta britannico realizza nel 2024 Il gladiatore II (Gladiator II), requel alla maniera degli studios attuali che ottiene buoni riscontri dalla critica, mentre i numeri al botteghino al momento sembrano più tiepidi, specie considerando l'astronomico budget profuso per la realizzazione.


A circa venti anni dalla morte di Massimo (Russell Crowe) e Commodo (Joaquin Phoenix) nel predecessore, il film si concentra sul ritorno a Roma, come prigioniero di guerra prima e gladiatore poi, di Annone (Paul Mescal), il cui nebuloso passato lo lega agli intrighi di potere della Urbs, che vedono scontrarsi da un lato i due imperatori gemelli Geta (Joseph Quinn) e Caracalla (Fred Hechinger), dall'altro Augusta Lucilla (Connie Nielsen) e suo marito, il generale Marco Acacio (Pedro Pascal). Tra i contendenti tenta di inserirsi un outsider, il commerciante di gladiatori Macrino (Denzel Washington), sfruttando proprio il protagonista e la sua sete di vendetta nei confronti di Acacio, responsabile della morte della consorte in Numidia.


Per quanto possa sembrare complessa, quantomeno per l'accumulo di situazioni e personaggi, anche solo da questa breve sinossi la narrazione, de facto Il gladiatore II rispetta in pieno le caratteristiche del requel o legacy sequel, replicando gran parte del cammino messo in atto dal capitolo precedente, aggiungendo ai protagonisti dell'epoca dei nuovi, in bilico costante tra remake e serializzazione. Questo rende anche l'idea di quanto a Scott importi solo superficialmente del percorso di formazione e redenzione di Annone o di renderlo un nuovo e iconico membro di quel gruppo di figure cult della settima arte. Il vero focus della pellicola risiede altrove, motivo per cui la vera protagonista è Roma, riflesso speculare di quell'Occidente odierno, simboleggiato da New York e Stati Uniti. D'altronde il mondo antico, almeno quello europeo, possedeva un centro di gravità permanente ben preciso, che ne racchiudeva luci e ombre, vizi e virtù, coordinate etiche, politiche e sociali. Se nel primo capitolo la città eterna viene costantemente irradiata di una luce quasi divina, persino nei momenti più truculenti e drammatici dell'epopea di Massimo, come ad esempio durante lo scontro finale contro Commodo, quella dipinta a distanza di quasi venti anni dal regista inglese appare fosca, crepuscolare e particolarmente decadente, come si può evincere anche solo dalle masse di lebbrosi alle sue porte o dai mendicanti che assaltano qualunque carro o biga giri per le strade della prima metropoli del Vecchio continente. La differenza nasce dall'involuzione subita da essa nel corso di questo lasso temporale, espressa anche dall'insistenza con cui durante il lungometraggio si fa riferimento al sogno coltivato dall'imperatore e filosofo Marco Aurelio: allora Roma veniva ritratta ancora come quel bagliore di civiltà e promesse possibili, ingabbiata, ostaggio però di un potere corrotto e personalistico, reificato in egual misura dal succitato Commodo ma anche da senatori infidi e doppiogiochisti. D'altro canto la sua versione successiva è ormai completamente o quasi inquinata da questo morbo socio-politico, una lontana ombra di un passato glorioso in cui dilagano corruzione e brama di potere, in cui chiunque, con il giusto mix di astuzia e forza bruta, alla maniera del principe ideale di Machiavelli, può assoggettare alla propria volontà un impero sconfinato. Ecco dunque che la vita politica si riduce a uno scontro tra individui ambiziosi e assetati di potere, tra i quali spicca naturalmente il luciferino Macrino, che, grazie anche alla performance da gangster di Denzel Washington, somiglia davvero tanto a quegli squali della finanza post-capitalista che, dopo aver indirettamente tirato le fila delle decisioni amministrative attraverso l'arma dell'economia di mercato selvaggia, arrivano sempre più spesso a impegnarsi in prima persona nell'arena (il Colosseo?) del confronto democratico, ormai molto più simile a quella oclocrazia descritta da Polibio proprio a quell'altezza cronologica.


Niente di nuovo sotto il sole? Il cinema, come qualunque forma di espressione artistica, privilegia il come rispetto al cosa e Scott da questo punto di vista offre una visione tanto potente quanto funzionale alla parabola politica messa in scena. Alla magniloquenza vicina a David Lean e ai grandi roadshow a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta  del capostipite, il film in analisi sceglie una via quanto mai barocca, tracotante e gargantuesca nell'esasperazione degli aspetti più grotteschi della Roma tardoantica. In un turbinio di animali esotici, tumulti popolari, influenze orientali sempre più ostentate, spettacoli all'insegna dell'eccesso, contro l'ideale equilibrio alla base della bellezza classica, l'autore di Thelma & Louise (Ridley Scott, 1991) dà libero sfogo al proprio talento visivo di matrice pittorica, facendo riferimento soprattutto a un immaginario dai contorni decadenti (da Caravaggio a Gericault) per sottolineare la connivenza tra trash nell'enterteinment e nell'arte in genere e trash interiore nei periodi di forte crisi, esattamente come accade nel nostro presente storico. Persino le citazioni provenienti da autori quali Cicerone e Virgilio rispecchiano una volontà di ritrarre le brutture di quell'impero e, di conseguenza, di quello che, seppur zoppicante, regola ancora i destini dell'Occidente attuale e non solo. O tempora, o mores affermava il celebre oratore a proposito del nemico Catilina, accostato a tutta una serie di cambiamenti in negativo dei costumi che però, al di là di un certo paternalismo tipico delle generazioni anziane verso quelle giovani, sintetizza al meglio il mondo ritratto da Scott. Un'imperfetta e bislacca mescita in cui spiccano solamente predatori e squali, spesso brutti e ridicoli proprio come quelli realizzati con una cgi obiettivamente cringe ma poeticamente adeguata.

venerdì 22 novembre 2024

SMILE 2: ATTRAVERSO LO SCINTILLANTE REGNO DELLA SMILING DEPRESSION

Nel 2022, a partire da un efficace cortometraggio e con un budget piuttosto risicato per gli standard hollywoodiani, Smile (Parker Finn) si era imposto come un vero e proprio fenomeno, arrivando a incassare una cifra superiore ai 200 milioni di dollari, circa venti volte quanto speso per la realizzazione dell'esordio di Parker Finn. A due anni di distanza da questo inatteso exploit, il regista porta in sala l'inevitabile sequel (Smile 2) ma con idee ben chiare e ambizioni elevate, pronto a smentire chi aveva frettolosamente bollato il predecessore come un mero miracolo del marketing. Seppur meno remunerativo da un punto di vista economico, questo seguito viene accolto da ottime recensioni, stavolta anche nel nostro paese, permettendo a Finn di superare lo scivoloso scoglio della seconda opera, quella della conferma.


Dopo un prologo ambientato a meno di una settimana di distanza dal finale del primo capitolo e che vede il poliziotto Joel (Kyle Gallner) trasmettere la maledizione a uno spacciatore (Lukas Gage), perdendo nel frattempo la vita, il film sposta il proprio focus su Skye Riley (Naomi Scott), popstar appena tornata in sella dopo un gravissimo incidente automobilistico, nel quale ha perso la vita il compagno e attore Paul Hudson (Ray Nicholson). La cantante sta preparando il suo primo tour di concerti, dopo essersi ripresa dalle ferite e dal lungo processo di disintossicazione da alcol e droghe, ma è costretta ad affidarsi proprio al succitato pusher per procurarsi degli antidolorifici a causa delle forti di fitte di dolore alla schiena. Qui assiste impotente all'apparente suicidio del ragazzo, che in questo modo le passa il testimone dell'entità dal sordido sorriso.


Solitamente, specie nelle produzioni dei grandi studios, la filosofia dietro un seguito è quella della reiterazione degli elementi alla base del predecessore ma esasperati all'eccesso. Bigger and louder. Smile 2, pur riproponendo alcuni degli spunti fondamentali del primo capitolo, persino inquadrature quasi identiche (si pensi alle panoramiche con la macchina da presa che volta di 180 gradi sullo skyline), interpreta quel bigger portando l'esplorazione di un fenomeno psicologico estremamente diffuso nella nostra contemporaneità, la cosiddetta smiling depression, all'interno del milieu che ne rappresenta le estreme conseguenze, quello dello spettacolo. Avvicinandosi a pellicole dalla medesima ambientazione come Perfect Blue (Satoshi Kon, 1997) e Il cigno nero (Black Swan, Darren Aronofsky, 2010), Finn rende l'entità trasformista non più solamente una manifestazione (meta)fisica della pressione sociale dilagante a mostrare sempre la versione migliore di sé, nascondendo sotto il tappeto tutto il corredo di problematiche psicologiche delle quali tutti noi soffriamo, bensì un simbolo di quelle più specifiche connesse allo showbiz. Un microsistema sineddoche all'eccesso di qualsiasi caratteristica intrinseca dell'attuale apparato sociologico, sia positiva, sia negativa, nel quale la fama rende qualunque individuo carne da macello, da cui una filiera attinge nutrimento economico fino a prosciugarne l'umanità giorno dopo giorno, esibizione dopo esibizione. Esemplare di questa oggettificazione cui va incontro in questo specifico caso Skye è il personaggio di Elizabeth (Rosemarie DeWitt), una madre che vive solamente in funzione della carriera della figlia e che relega sullo sfondo qualsiasi difficoltà accusata da quest'ultima pur di mantenere lo status economico e sociale acquisito grazie alle fortune della cantante, a costo persino di nasconderne un eventuale ricaduta nelle dipendenze pur di mandare avanti il tour. La protagonista, conseguentemente, si trova a dover sopportare il senso di colpa per quanto accaduto in passato, il ritorno sulle scene con tutto lo stress che comporta, resistere alle tentazioni delle sostanze stupefacenti e in ultimo la persecuzione da parte del villain facendo leva unicamente su sé stessa, poiché priva di qualsivoglia sostegno emotivo reale. L'unica eccezione potrebbe essere costituita dalla sua ex migliore amica (Dylan Gelula), non a caso la sola a essere totalmente estranea alle dinamiche dello spettacolo. Il marasma di pressioni fin qui descritto permette all'autore di giocare ancor più rispetto al passato con il confine tra realtà e immaginazione e la progressiva marginalizzazione del personaggio principale, del cui precipizio psicologico le visioni di uomini e donne sorridenti finiscono per fungere quasi unicamente da goccia che fa traboccare il vaso.


Altro elemento solamente accennato nel predecessore e che in questo secondo capitolo assume un valore ben più centrale è la valenza metacinematografica del meccanismo con cui agisce l'entità. Meccanismo innescato dallo sguardo e in particolare dalla visione di un evento particolarmente violento e tragico (un truculento suicidio) che non può non fare riferimento all'assuefazione dello spettatore al sangue, soprattutto quello appassionato di horror, e che esplode nel riuscitissimo finale, dove si crea una mise en abyme tra pubblico al primo concerto di Skye post-incidente e quello dietro lo schermo, oltre la quarta parete. Se la giovane star è certamente lontana dall'essere senza peccato, dalla final girl pura e immacolata, siamo sicuri di non essere anche noi parte di quei fantasmi che affliggono lei e tutte le vittime del demone al centro del film?

mercoledì 20 novembre 2024

THE SUBSTANCE: LE BELLE RAGAZZE DOVREBBERO SORRIDERE SEMPRE

In un vero e proprio tour de force per gli amanti dell'horror e del cinema di genere il periodo a cavallo tra ottobre e novembre ha visto le sale italiane proporre un trittico che, per quanto distante anni luce per narrativa, stile e poetica, è accomunato da un livello qualitativo ben al di sopra della media e campagne marketing che ne hanno decretato un non così scontato successo di pubblico. Mi riferisco a Longlegs (Oz Perkins, 2024), Terrifier 3 (Damien Leone, 2024) e l'oggetto di questa analisi, The Substance. Diretto da Coralie Fargeat, già autrice del sorprendente Revenge (2017), il film viene presentato all'edizione 2024 del Festival di Cannes, dove riceve un'eccezionale accoglienza, che gli vale persino il premio per la miglior sceneggiatura. Il medesimo entusiasmo attorno a esso si crea anche al momento della distribuzione mondiale, riuscendo persino a registrare ottime cifre al botteghino per una co-produzione europea lontana dalle coordinate sia produttive, sia cinematografiche di un blockbuster.


Elisabeth Sparkle (Demi Moore), protagonista della pellicola, è un'attrice alla soglia dei cinquant'anni che, dopo una scintillante carriera sul grande schermo, condita da un Oscar e una stella sulla leggendaria Hollywood Walk of Fame, mantiene una certa fama attraverso un programma televisivo di fitness. Quando lo spietato produttore dello show, Harvey (Dennis Quaid), le dà il benservito per sostituirla con una figura più giovane, la donna rivolge le proprie speranze al misterioso siero The Substance, che promette di fornirle una versione perfetta di sé stessa, che si traduce nello sdoppiamento con la giovane Sue (Margaret Qualley), alla quale deve alternarsi ogni sette giorni.


Dopo aver abilmente elaborato secondo una prospettiva contemporanea e coerente con le istanze della quarta ondata femminista il rape and revenge attraverso Revenge, Fargeat stavolta si appropria degli elementi più riconoscibili del body horror cronenberghiano, sia quello del periodo anni Ottanta, sia quello più recente, nel quale il cineasta canadese applica il proprio sguardo materico al mondo della superficie per eccellenza, ovvero quello dello spettacolo. The Substance, difatti, nasce e si sviluppa nel medesimo milieu di Maps to the Stars (David Cronenberg, 2014), mettendo in scena anche una simile riflessione sulla decadenza morale dello showbiz reificandolo tramite i corpi sempre più artificiosi e imbruttiti dalla paura della vecchiaia di chi ne fa parte per poi approdare su lidi più affini alle tematiche care alla regista francese. Nel momento in cui, in contiguità con quanto appena affermato, dalla carne di Elisabeth nasce Sue, il lungometraggio adotta un impianto formale totalmente opposto alle algide inquadrature geometriche e alla serie di long take precedenti, prendendo in prestito il linguaggio della televisione più becera e sessista degli anni Ottanta. Un tripudio di primi piani e particolari sulle forme, irreali nella loro perfezione, della versione giovane della protagonista, coadiuvati dalla musica elettronica volontariamente coatta composta da Raffertie, con cui Fargeat mette in scena la perfetta sublimazione del male gaze insito in quel tipo di mentalità e, conseguentemente, offerta audiovisiva, con un rigore teorico che sembra quasi trasporre alla lettera le riflessioni di genere sul cinema di figure quali Laura Mulvey e Carol Clover. Certamente molto di quanto viene portato in scena non può non riportare alla mente opere precedenti a quella in oggetto, da The Neon Demon (Nicolas Winding Refn, 2016) a Raw (Grave, Julia Ducournau, 2016) passando per il meno conosciuto Starry Eyes (Kevin Kolsch, Dennis Widmyer, 2014), ma ciò non toglie nulla del valore intrinseco dell'operazione filmata dalla cineasta transalpina, la quale fa proprio del postmodernismo e dell'ipertestualità una cifra stilistica e poetica. Esemplare è la costante citazione dell'immaginario kubrickiano e, in particolare, di Shining (1980), passato alla storia non solo per le indiscutibili qualità filmiche, bensì anche per il trattamento riservato a Shelley Duvall, la cui fragilità psico-emotiva venne esasperata dall'artista newyorkese per enfatizzare la caratterizzazione del personaggio su schermo, finendo però per segnare indelebilmente la vita dell'attrice. Un link metacinematografico perfettamente in linea con la scelta di Demi Moore nel ruolo principale (altra interprete finita nel dimenticatoio dopo il sopraggiungere della mezz'età) ma soprattutto con il j'accuse verso la violenza del male gaze, perpetrato per decenni anche dalla settima arte, considerando peraltro che l'obiettivo della macchina da presa secondo molti studi settoriali altro non è che una meccanizzazione dello sguardo umano. Un preciso e continuo riferimento alla teoria femminista sul cinema che esplode, letteralmente e non solo, nel tripudio di sangue finale, in cui il famoso mostruoso femminile di Barbara Creed trova la sua concretizzazione con un mix citazionista che unisce Carrie - Lo sguardo di Satana (Carrie, Brian De Palma, 1976) e Society - The Horror (Society, Brian Yuzna, 1989).


The Substance, in conclusione, si inserisce con pieno merito in un più diffuso clima culturale che denuncia attraverso la potenza del cinema di genere e della intertestualità pop tipica del web 2.0 la tutt'altro che deperita cannibalizzazione del corpo e della mente femminile da parte di una società, purtroppo, ancora fortemente patriarcale e impregnata di un horror vacui, di cui lo spettacolo rappresenta unicamente la punta dell'iceberg.

sabato 9 novembre 2024

PARTHENOPE: È IMPOSSIBILE ESSERE FELICI NEL POSTO PIÙ BELLO DEL MONDO

Uno dei mantra che ripete, quasi ossessivamente, almeno da qualche anno a questa parte un vate della riflessione filmica nostrana quale è Gianni Canova è che il cinema, come l'arte in genere, deve provocare, dividere e scuotere. Se in Italia qualcuno è ancora capace di farlo, parlando sia al grande pubblico, sia a quello più cinefilo, questi è Paolo Sorrentino. Amato quasi incondizionatamente all'estero, specie negli Stati Uniti, nella madrepatria è al centro di dibattiti all'uscita di ogni sua nuova fatica. Situazione puntualmente verificatasi anche quest'anno, in cui firma Parthenope. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film incontra fin da subito reazioni contrastanti, che estremizzano le posizioni sulla sua filmografia fin qui assunte portando però, in una quasi naturale conseguenza, a buonissimi risultati al botteghino italiano, come spesso accade alle opere divisive.


Ambientato principalmente intorno alla metà degli anni Settanta, il lungometraggio segue il percorso di maturazione dell'omonima protagonista (Celeste Dalla Porta), la cui giovinezza apparentemente perfetta, frutto anche di una bellezza ai limiti del prodigioso, viene totalmente distrutta dal suicidio dell'amato fratello Raimondo (Daniele Rienzo). Il turbolento lutto viene in parte mitigato solamente dai suoi studi di antropologia, che le permettono di conoscere il professor Marotta (Silvio Orlando), che tenta di guidarla tra le acque profonde dell'età adulta.


Limitarsi a recintare la gargantuesca ricchezza di spunti presente in Parthenope tramite una manciata di righe è un compito quanto mai arduo, per cui mi limito a riflettere su uno degli elefanti nella stanza dei pareri scaturiti: di cosa parla? Fin dal titolo e dalla mitologica sequenza della nascita della protagonista è chiaro l'obiettivo di Sorrentino, ossia rendere questo personaggio la personificazione di Napoli e della sua dimensione altrettanto mitologica, figlia delle origini elleniche e di una costante opera di mistificazione e narrazione di cui è contemporaneamente soggetto e oggetto ancora oggi. La giovane, nata dal mare come Afrodite proprio come la stessa città, incarna, attraverso un viatico da Bildungsroman che è solo strumento simbolico, l'intero spettro del variegato rapporto che con lei instaura l'umanità che le gravita intorno e come, nel corso degli anni, questi cambi, a seconda appunto dell'età. Parthenope in gioventù è la perfezione adamantina, la statuaria e folgorante bellezza di un periodo della vita in cui la meschinità della vita adulta è più lontana della linea dell'orizzonte, al punto da risultare persino stupida agli occhi dell'adolescente che vive il capoluogo campano. Come si può andare via quando si ha tutto? Questo lo si può comprendere soltanto alla morte dell'innocenza, rappresentata in questo racconto allegorico da Raimondo, ammaliato dalla luccicanza partenopea fino a sfidare i taboo etici più basilari nello slancio vitalistico della giovinezza, senza però avere le spalle abbastanza larghe da sopportare l'ombra che la luce più fulgida emana. Bello anch'egli come una divinità pagana, intrinsecamente e fatalmente legato alla sorella e oggetto del desiderio, mostra immediatamente quell'attrazione per la easeful death, come cantava un esteta quale John Keats (cantore della bellezza del sud Italia), a cui si riferisce anche il dandy disincantato dal volto stanco ed ebbro di Gary Oldman, che forse simboleggia proprio quello che sarebbe diventato Raimondo se non si fosse lasciato andare (verbo caro alla poetica sorrentiniana e più volte ripetuto durante il film).


Proprio il John Cheever interpretato con folgorante aderenza dal divo britannico introduce quella lunga serie di figure che aprono gli occhi alla protagonista sulle molteplici brutture e tipologie umane (si parla pur sempre di una antropologa) che popolano e gravitano intorno a Napoli e che da essa cercano di carpire fino all'ultima goccia di sangue/bellezza, come quel vampiro cui Oldman aveva regalato una infinita malinconia nel capolavoro di Francis Ford Coppola (Bram Stoker's Dracula, 1992). Persino coloro che non se ne rendono conto o lo fanno senza malizia continuano imperterriti a chiedere un pezzo di Parthenope senza però darle mai niente in cambio, senza mai provare a lenire il dolore viscerale della perdita. Dal seducente e spietato camorrista, dal volto di quel Marlon Joubert che sembra suggerire una sorta di what if sul futuro di Marchino Schisa di È stata la mano di Dio (Paolo Sorrentino, 2021), fino all'eterno spasimante Sandrino (Dario Alta), passando per il luciferino cardinale Tesorone (Peppe Lanzetta), tutti accarezzano il sogno di avere tutta per sé la divina bellezza della città ma privandola di qualunque reciprocità. Lo scandaloso discorso dell'attrice in decadenza Greta Cool (Luisa Ranieri), insieme al suo aspetto tristemente pomposo come nell'esemplificazione dell'umorismo pirandelliano, riassume il peccato originale dell'eterna tristezza che attanaglia Napoli e il popolo napoletano, troppo occupato a succhiarne la linfa vitale e incolpare l'altro per fare concretamente qualcosa che ne lenisce le ferite. Tutto diventa dunque carnevale, folklore finanche mito e mistero ma per mascherare una truffa, in primis verso sé stessi, come quella della liquefazione del sangue di San Gennaro.



Eppure se da millenni chiunque posi gli occhi su quella giovane incompiuta non può fare a meno di innamorarsene follemente un motivo deve esserci e Sorrentino ce lo ricorda, estetizzando agli estremi quella che solo per un occhio distratto può essere una semplice pubblicità di profumi costosi lunga 136 minuti.


giovedì 7 novembre 2024

LONGLEGS: RITORNO DELL'ORRORE SUBLIMINALE DI PERKINS

Se il proprio cognome è Perkins risulta difficile fuggire un destino all'insegna dell'horror, sebbene Osgood, a differenza del celeberrimo padre Anthony, preferisca stare dietro la macchina da presa e non davanti. E una traccia di questa sorta di predestinazione quasi luterana del vissuto privato del regista si trova al centro della sua ultima fatica, Longlegs. Distribuito in Italia in occasione dell'ultimo Halloween, il film si è reso protagonista di una inaspettata cavalcata al box office americano, resa possibile da una campagna pubblicitaria estremamente creativa sul web, insieme a recensioni entusiastiche che gli hanno permesso di decuplicare il proprio budget.


Ambientata nell'Oregon di metà anni Novanta, la pellicola segue le indagini da parte dell'agente federale Lee Harker (Maika Monroe) per riuscire a scoprire l'identità del misterioso Longlegs (Nicolas Cage), serial killer che lascia dei messaggi criptati su ogni scena del crimine, dove in realtà non è mai esecutore diretto degli omicidi, bensì concorre in qualche modo al raptus di un membro di una famiglia verso gli altri. Attraverso delle capacità di intuito quasi paranormali la giovane detective riesce a mettere insieme crescenti informazioni sul modus operandi dell'assassino, sebbene questo la porti a essere sempre più intimamente coinvolta nel caso.


Sbrigativamente, seppur in taluni casi con accezione non denigratoria, paragonato a classici del thriller che flirta con l'horror quali Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991) e Seven (David Fincher, 1995), Longlegs non lesina ammiccamenti e link a opere ben conosciute dal pubblico appassionato, solamente per poi depistarli in un gioco tra superficie e sottosuolo (il piano di sotto a cui fa riferimento a più riprese il personaggio di Cage), visibile e sotteso, memoria e rimosso. La detection, ad esempio, che sembra il fulcro della sceneggiatura scritta dallo stesso Perkins, infatti, cede lentamente il passo alla soverchiante atmosfera malsana e mefistofelica evocata fin dalla sequenza d'apertura. Un flashback in cui il formato 1.33 : 1 più che accodarsi a una tendenza di certo cinema art-house ed elevated horror emula la pellicola vintage Super 8, principalmente utilizzata per le riprese amatoriali e, di conseguenza, l'idea di spiare dal buco della serratura di un orrore che solo all'apparenza è larger than life. L'incontro tra la bambina e l'inquietante villain, candido (solo nel colore) come il paesaggio innevato e apparentemente bucolico che funge da sfondo, possiede tutto quell'armamentario iconologico dell'abuso su minori in ambito casalingo, prospettando dunque fin dal principio una dimensione estremamente intima di Male. Un Male che, come spesso accade, si tende a voler identificare con l'alterità, con tutto ciò che è diverso, esterno, lontano dalla familiarità e dai luoghi simbolo della stessa, in primis la casa dell'infanzia. 


Insinuandosi attraverso i movimenti quasi impercettibili della macchina da presa, che alterna long take del tutto statici come nel cinema di Ozu o a virtuosismi, talvolta persino della lente focale, in stile Argento, la percezione di una presenza sinistra che non abbandona neanche per un istante lo spettatore, persino durante quella che dovrebbe essere una normale conversazione madre-figlia al telefono, diventa la vera protagonista e antagonista al contempo del lungometraggio, in anticipo rispetto persino al turning point del racconto per quanto concerne i rapporti tra i personaggi. Il crescente tripudio di apparizioni più o meno celate di un'ombra dai tratti evidentemente luciferini non è che punto di esclamazione finale di una concezione del lato più oscuro e irrazionale dell'essere umano che Perkins aveva già esplorato in February (2015), che allo stesso modo viveva costantemente in bilico con il soprannaturale per mostrare quanto sia insito nel nostro sistema sociale l'impulso distruttivo e l'innocenza solamente una chimera. E chi meglio di Nicolas Cage poteva personificare l'istintività e pervasività del Male con la sua recitazione lontana anni luce dalle elucubrazioni razionalistiche e illusorie del metodo che domina il cinema americano contemporaneo? Soltanto il tempo ci dirà cosa ancora può regalarci una più attenta analisi dei tanti segni e significanti della riuscitissima pervasività subliminale di Longlegs.


venerdì 1 novembre 2024

TERRIFIER 3: LE VISCERE DELL'ESPERIENZA CINEMATOGRAFICA

Curiosamente, specie se si considera la penuria di offerta a cui assistiamo solitamente dall'avvento della pandemia da COVID-22, le sale nostrane in questi giorni sono invase da horror, tra i quali spicca per gli appassionati l'accoppiata "elevated" composta da Longlegs (Oz Perkins, 2024) e The Substance (Coralie Fargeat, 2024), ma nonostante il plauso della critica e gli ottimi riscontri ricevuti all'estero da questi ultimi l'evento che ha catapultato una moltitudine di persone a invadere i multisala, in una sola giornata, è la proiezione di Terrifier 3 (2024). L'ultima fatica di Damien Leone, forte dello status di autentica icona e meme vivente di Art il clown ma anche di un'oculata campagna pubblicitaria, sta infrangendo ogni record di incassi per un film vietato ai minori, raccogliendo buone recensioni in tutto il mondo, non a discapito di opere dalla opposta idea di cinema come quelle sopramenzionate, ma caso mai a complemento di esse, come accadeva qualche decennio fa nel periodo d'oro del cinema italiano, sorretto da quello che Mikel Koven definisce cinema vernacolare, così da fornire risorse anche ai Fellini, Antonioni o Ferreri.


Ambientata a cinque anni di distanza dal finale della precedente, la pellicola segue, in un percorso parallelo destinato a incrociarsi inevitabilmente, il tentativo di parte di Sienna (Lauren LaVera) e Jonathan Shaw (ElliottFullam) di tornare a vivere normalmente, superando il trauma vissuto, e il ritorno a uccidere di Art (David Howard Thornton), accompagnato stavolta da una posseduta Vicky Heyes (Samantha Scaffidi).


La sinossi così breve appena illustrata non deriva da un mio tentativo di celare al lettore eventuali e importanti spoiler, bensì dall'ennesima dimostrazione che per Damien Leone il racconto è un mero pretesto teso a connettere il succedersi di omicidi estremi. Terrifier 3, infatti, opera una sorta di sintesi tra la totale noncuranza per la narrazione del primo capitolo e il "vorrei ma non posso" mimare lo stile onirico di Wes Craven, raggiungendo un equilibrio in grado di evitare sia di appesantire la visione, sia di scoprire tutti i limiti di storyteller dell'autore, ormai ben più autoconsapevole rispetto al passato. Ancora una volta protagonisti assoluti risultano gli effetti speciali protesici che donano una visceralità, molto spesso letterale al 100%, a ognuna delle stragi operate dal sadico serial killer, che, esaltati da un ottimo accompagnamento sonoro e di montaggio, donano una matericità quasi aptica agli eventi, fondamentale per raggiungere lo scopo prefissato dal regista. Scopo che non può non essere il divertimento più sfrenato, cafone e politicamente scorretto possibile, poiché al gusto per il gore si unisce una sempre crescente componente ironica offerta dalla performance di Art, la cui mimica del tutto priva di voce, fornisce una carica umoristica proveniente dal repertorio dell'avanspettacolo, dei mimi e della commedia tutta fisica del cinema muto, permette all'insito elemento autoironico dello splatter di esplodere. Ecco dunque che persino la più truculenta delle sequenze trasforma quella che dovrebbe essere una smorfia di puro disgusto da parte dello spettatore in una fragorosa risata e persino quando le vittime rappresentano l'idea stessa di innocenza, ecco che un balletto o una smorfia o un più compiuto commento intra ed extra diegetico del personaggio strappa un sorriso, anche a denti stretti, che spazza via ogni remora morale.


Ed è proprio questo il vero punto chiave della pellicola: ritornando alle origini fieristiche e da spettacolo vernacolare della settima arte, Leone confeziona un'esperienza incredibilmente catartica per il pubblico, che può esternare i propri istinti meno cerebrali e più viscerali grazie alla coperta di Linus offerta dalla consapevolezza della natura fittizia dell'esperienza a cui assiste. Un ritorno al divertimento da Grand Guignol che catturava i consensi di ogni strato di popolazione, al netto del teatro dei grandi attori o della nascente regia che certa storiografia evidentemente schierata cerca di farci dimenticare. La sensazione una volta arrivati ai titoli di coda del film è paragonabile a quella di un concerto metalcore o death metal dopo aver liberato ogni energie repressa nel mosh durante i brani più carichi e trascinanti. Certamente suscita più di qualche dubbio la resa che il film avrà sul piccolo schermo, con una fruizione solitaria, poiché, restando in tema con la metafora musicale, molti pezzi che esaltano nel corso di un live perdono gran parte della loro carica nelle cuffiette di un pendolare che torna da lavoro ma perché preoccuparsene quando finalmente un lungometraggio indie, fieramente di genere non solo riesce a riempire le sale, oltretutto in gran parte di ragazzi per i quali l'esperienza collettiva del film costituisce un retaggio di un passato remoto? Grazie Art per questa catarsi di cui ogni tanto tutti noi abbiamo davvero bisogno.

lunedì 7 ottobre 2024

BARBARIAN: L'ORDINARIO ORRORE DI UN MONDO AL MASCHILE

La diffusione del movimento Metoo non ha "solamente" permesso di smascherare un vero e proprio sistema di sopraffazione adottato da un gigante di Hollywood come Harvey Weinstein nei confronti delle donne a lui sottoposte, ma, soprattutto, ha soverchiato un vaso di Pandora di più vaste dimensioni su una lunga serie di comportamenti e abitudini maschili che discriminano e mortificano il mondo femminile in ogni ambito della vita. Come quasi sempre accade per i grandi mutamenti sociali e culturali la narrativa horror riesce a captare con efficacia unica ciò che comportano queste piccole o grandi rivoluzioni, facendo di presenze soprannaturali e non solo delle potenti metafore con cui affrontare il cambiamento. Nel solco di quanto già fatto da titoli quali A Girl Walks Alone at Night (Ana Lily Amirpour, 2014), Midsommar (Ari Aster, 2019) o L'uomo invisibile (The Invisible Man, Leigh Whannel, 2020) si inserisce Barbarian, diretto da Zach Cregger nel 2022. Nonostante un budget piuttosto risicato per gli standard statunitensi, il film si rivela un inaspettato successo al botteghino, suffragato da recensioni entusiastiche in tutto il mondo, rendendolo una delle maggiori sorprese, nel genere e non solo, dell'anno.


Tess (Georgina Campbell), protagonista delle pellicola, arriva a Detroit per un colloquio di lavoro e prenota online una casa in un quartiere che si rivela tutt'altro che raccomandabile. Arrivata allo stabile in una notte tempestosa scopre però che è stata affittata anche a Keith (Bill Skarsgard), che le offre di condividere l'edificio date le condizioni della zona e la totale assenza di camere libere negli hotel circostanti. L'iniziale diffidenza verso il coinquilino viene dissipata nel corso della notte ma quando Tess il giorno seguente, dopo aver incontrato la sua possibile datrice di lavoro, scopre all'interno della casa una serie di stanze e corridoi segreti nel seminterrato la situazione si trasforma radicalmente.


Indugiare oltre sulla trama di Barbarian rischia di privare lo spettatore di uno dei grandi pregi dell'opera in analisi, ovvero la sua capacità di deviare a più riprese dopo aver intrapreso strade molto familiari per qualunque appassionato di horror e thriller. Dopo una prima sezione in cui Cregger gioca in maniera molto consapevole ed efficace con la capacità di sopportazione della suspense da parte del pubblico, infatti, il regista vira completamente personaggi e punti di vista alla maniera di Psycho (Alfred Hitchcock, 1960) ma anche registro narrativo ed estetico. Dalla crescente e strisciante tensione creatasi tra Tess e Keith la macchina da presa sposta il proprio obiettivo verso AJ (Justin Long), attore mostrato inizialmente mentre sfreccia su una decappottabile nel tipico ambiente idealizzato della California più ricca ed estetizzata, sfoggiando un atteggiamento altrettanto solare e una sbadataggine che porta quasi forzatamente lo spettatore a provare simpatia nei suoi confronti, salvo poi scoprire, con lo stesso andamento in crescendo visto in precedenza, quanto le accuse di abusi sessuali a lui rivolte siano tutt'altro che campate in aria e che dietro la metamorfosi in horror comedy si cela in realtà un personaggio totalmente incapace di provare empatia per il prossimo, specie se donna e di suo interesse sessuale. Anche stavolta, nel momento di Spannung della parabola legata all'attore ecco che l'autore tira fuori dal cilindro un ulteriore deviazioni di punto di vista, a cui si accompagna anche un salto temporale verso il passato, in quegli anni Ottanta reaganiani resi ancor più vividi nel loro ostentato e falso perbenismo dai colori pastello della fotografia che ricordano pellicole che svelavano proprio l'ipocrisia di quella fase della storia americana come Velluto blu (Blue Velvet, David Lynch, 1986) o Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984).


Nel solco della migliore tradizione del cinema di genere questa costruzione anticlassica del racconto serve a Cregger non solo per donare freschezza agli elementi più riconoscibili dell'horror, evitando che il pubblico possa perdere interesse per quanto accade sullo schermo, ma a questa più superficiale chiave di lettura aggiunge una, persino troppo, evidente manifestazione tramite i medesimi topoi di una sorta di spettro della mascolinità tossica, a partire dal grado più basso fino a quello più violento e quasi disumano. Se nel caso della terza dimensione della narrazione, quella nel passato, è quanto mai chiaro il motivo per cui l'uomo agisce in maniera predatoria verso le donne, la situazione assume sfumature diverse in AJ, che solamente nel finale sembra mostrare una reale consapevolezza di quanto oggettifichi le persone che lo circondano, dopo aver invece parlato con una disarmante superficialità di come abbia avuto dei rapporti con una collega nonostante lei gli avesse detto di no a più riprese. Ancor più sottile, specie per molte generazioni di uomini, è la situazione che si crea nella primissima parte del lungometraggio: agli occhi di molti il comportamento di Keith potrebbe apparire galante e attento ai bisogni di Tess ma qualunque donna si rende conto fin dagli inziali scambi di battute tra i due come egli imponga, seppur senza esasperare i toni, la propria volontà all'altra, minimizzando peraltro qualsiasi sua preoccupazione facendo pensare al tipico pregiudizio sull'isterismo femminile. Pregiudizio che esplode successivamente quando la protagonista gli rivela della presenza di sordide stanze nascoste nella casa e il coinquilino, invece di comprende la sua paura e aiutarla, ridicolizza queste sensazioni e arriva fino al punto di frapporsi anche fisicamente a lei. Per quanto sia palpabile una certa attrazione tra i due, dunque, l'uomo anche in questa relazione impone la proprio volontà alla donna sminuendone ogni emozione o bisogno, oltretutto quando la loro conoscenza avviene già in un contesto chiaramente rischioso e che avrebbe fatto fuggire a gambe levate molti di noi, a prescindere dal genere. E non è un caso che neanche la polizia, rappresentata da due agenti maschi, dia peso alle richieste di soccorso di Tess, sebbene qui si aggiunga anche una questione più socio-politica legata al sospetto verso chi vive suo malgrado situazioni di degrado, del quale Detroit è simbolo perfetto per il crollo vertiginoso a cui è andata incontro in seguito alla crisi dell'industria dell'automobile.


Certamente Barbarian soffre, probabilmente anche a causa della poca esperienza del suo autore, di un certo didascalismo e forse anche di essere arrivato dopo una serie di precedenti illustri ma non è così comune trovarsi dinanzi a un film in grado di offrire divertimento e analisi di una delle piaghe che ancora divide nettamente la popolazione occidentale in egual misura. 

lunedì 23 settembre 2024

SMILE: UNA SETTIMANA DI ORDINARIA SMILING DEPRESSION

Grazie alla visibilità procurata da piattaforme come Youtube i cortometraggi possiedono da almeno un decennio una platea ben più ampia rispetto al passato, tanto da portare un numero considerevole di registi a trasporre le proprie creazioni divenute virali in lungometraggi distribuiti da grandi studios, come nel caso di Lights Out, diretto da David F. Sandberg nel 2016 in quanto espansione dell'omonimo corto risalente a tre anni prima. Simile iter produttivo investe anche Smile, espansione e sequel a firma di Parker Finn del precedente Laura Hasn't Slept (2020). Il film, arrivato nelle sale di tutto il mondo nel 2022 si rivela un inaspettato successo commerciale, con incassi paragonabili a quelli di blockbuster da centinaia di milioni di dollari a fronte di un budget inferiore ai venti, accolto anche da discrete recensioni, che forse, almeno a mio avviso, sono rimaste fin troppo in superficie rispetto a un lavoro piuttosto stratificato, pur nelle sue imperfezioni.


La terapeuta Rose Cotter (Sosie Bacon), protagonista della pellicola, sembra la perfetta esemplificazione della donna in carriera, almeno fino a quando non riceve l'incarico di soccorrere una dottoranda, Laura Weaver (Caitlin Stasey), in preda a improvvise allucinazioni. La paziente asserisce di vedere, in seguito al suicidio davanti ai suoi occhi di un professore, un'entità assumere l'aspetto di diverse persone, anche a lei conosciute e già defunte, per poi minacciarla mentre sorride nel più inquietante dei modi. La seduta si tramuta in tragedia quando la giovane, dopo una breve lotta contro qualcosa di invisibile, rivolge un ghigno spaventoso a Rose per poi tagliarsi la gola con un frammento di vaso. Da quel momento la dottoressa, comprensibilmente turbata da quanto accaduto, inizia a essere affetta dalle medesime visioni di Laura, che la isolano dalle persone a cui tiene di più, compreso il compagno Trevor (Jessie Usher). L'unico ad aiutarla, nonostante l'improbabilità della situazione, è l'ex fidanzato e poliziotto Joel (Kyle Gallner).


Espandere concetto e sceneggiatura alla base di un'opera di una manciata di minuti non è mai semplice. Utilizzando una comparazione sportiva non è un lavoro troppo distante dal passaggio dai cento metri alla marcia, per cui un atleta dovrebbe stravolgere completamente metodo di allenamento, abbandonare l'idea di concentrare tutte le proprie energie in un breve scatto in favore della resistenza sul lungo periodo e in tal senso modificare anche la propria forma mentis agonistica. Ecco perché Smile, come molti suoi predecessori, vive talvolta di episodicità, di ripetizione di taluni meccanismi che sul breve funzionano in maniera ben più efficace rispetto a quanto può accadere in una marcia filmica. Detto ciò la trasposizione a lungometraggio dell'intuizione dell'esordiente Finn mostra, però, una stratificazione di letture e significanti degna del migliore cinema di genere, quello in cui il pubblico, a seconda del proprio background culturale, può comunque trovare una traccia che ne soddisfi il palato. Sebbene il soggetto ricordi quasi pedissequamente il capolavoro di David Robert Mitchell It Follows (2014) il regista rielabora il calco di superficie adattandolo a un contesto generale completamente diverso: i personaggi hanno superato l'adolescenza ormai da un bel pezzo, la provincia più reietta degli States lascia il posto a un milieu tipicamente altoborghese ed è rimarcata anche la temporalità contemporanea in cui si svolge il racconto, dato che il vero fulcro dello stesso è la simbologia legata all'entità sorridente. Anche nella vicenda di Rose vi sono molti degli archetipi della fiaba e del viaggio dell'eroe a cui attingeva Mitchell per mostrare la maturazione di Jay, recuperando a propria volta l'impalcatura poetica craveniana, come ad esempio la discesa agli inferi e il terrible place rappresentato dalla casa dell'infanzia, ma l'autore fa di questo percorso atemporale una sineddoche di un fenomeno estremamente attuale e figlio del nostro tempo, la cosiddetta "smiling depression". Termine che designa il particolare stato, molto diffuso, nel quale vive chi pur accusando gran parte dei sintomi tipici della depressione li nasconde, anche solo parzialmente, in occasioni pubbliche adducendo una felicità totalmente illusoria e artificiosa. Un comportamento figlio di quella strisciante imposizione culturale prettamente contemporanea per cui l'unico modo attraverso il quale un individuo può trovare accettazione sociale è mostrarsi vincente, realizzato sia nella carriera, sia nel privato e costantemente in grado di tenere nel palmo delle proprie mani qualunque difficoltà. Uno spaventoso horror vacui mascherato da felicità che trova una notevole rappresentazione metaforica negli altrettanto perturbanti, nel senso freudiano del termine, sorrisi con cui si manifesta l'essere che perseguita Rose e tutti coloro che l'hanno preceduta, i quali, nel momento in cui cercano di esprimere liberamente il disagio provato a persone idealmente fidate, ricevono unicamente sospetto, incomprensione, disgusto e altre reazioni negative, come quelle di globuli bianchi che tentano di isolare tutto ciò che potrebbe minare il perfetto equilibrio dell'organismo sano. La malattia mentale, la devianza, il dolore, la sofferenza di qualunque tipo sono per la nostra società semplicemente dei virus da eliminare al fine di difendere la maschera di ostinata salute e ineluttabile felicità che propaganda come nelle peggiori distopie fantascientifiche e Fin lo ritrae con la propria cinepresa con la forza immaginifica di chi, al netto di singhiozzi figli probabilmente di poca esperienza, sa sfruttare gli strumenti più potenti della grammatica filmica, dall'efficacia del dosaggio sonoro, sia esso rumoristico o musicale, fino a movimenti di macchina che amplificano la sensazione di disagio della protagonista e di chiunque viva sulla propria pelle l'esclusione sociale, facendo propria la lezione del coevo cinema dell'orrore maggiormente riuscito, come il già citato It Follows ma anche The Witch (Robert Eggers, 2015), Hereditary (Ari Aster, 2018) o Malignant (James Wan, 2021).


Smile vive, in definitiva, molte delle contraddizioni che contrassegnano il cinema, specie mainstream, del terzo millennio, in cui l'esasperazione del postmodernismo e l'estemporaneità minano il risultato finale ma è davvero encomiabile la perizia formale con cui un cineasta esordiente ricorre al genere per dare forma a un malessere tanto etereo quanto impattante nella vita di molti tra noi spettatori, assolvendo a una delle funzioni ataviche dello spavento su schermo e che la continua ricerca della perfezione attuale, la stessa messa alla berlina dal film, porta tanti cinefili e recensori a liquidare con pareri superficiali come i sorrisi del mostro mutaforma. 

mercoledì 11 settembre 2024

THE WELL: UN AMERICANO A ROMA

Ciclicamente all'uscita, piuttosto miracolosa e sporadica, in sala di un horror diretto da un italiano stampa e appassionati gridano al ritorno ai fasti di un tempo, quando Cinecittà rivaleggiava con Hollywood per incassi e i drive-in degli States erano invasi dai capolavori di Mario Bava, Riccardo Freda, Sergio Martino, fino all'arrivo di Dario Argento, capace di travalicare anche fuori dall'Europa l'idea che queste produzioni appartenessero a una serie b. Inutile sottolineare come manchino in primis le condizioni istituzionali e produttive per far sì che tornino quei tempi ma già quindici anni fa qualcuno ci sperava all'uscita di Shadow (2009), diretto dal leader dei Tiromancino Federico Zampaglione con ottimi risultati artistici e buoni responsi anche internazionali. Quest'anno il musicista torna al suo amore per il cinema dell'orrore con The Well, che dopo essere stato presentato al prestigioso Festival di Sitges, riesce a trovare una discreta distribuzione sugli schermi nostrani incoraggiata da buonissime recensioni ma priva di altrettanto supporto da parte del pubblico, visti gli incassi e i tanti commenti negativi diffusi sul web.



La protagonista del film, Lisa (Lauren LaVera), è una restauratrice, figlia di uno dei professionisti più affermati nel settore (Giovanni Lombardo Radice), chiamata nella campagna laziale dalla duchessa Emma Malvisi (Claudia Gerini) per ridare vita a un dipinto di notevole valore in tempi strettissimi. Durante il viaggio in autobus verso la piccola località la giovane stringe amicizia con un gruppo di escursionisti, che finiscono, durante una notte in tenda, tra le grinfie di uno psicopatico che li tiene in gabbia come animali. Nel frattempo Lisa inizia ad avere strane e inquietanti visioni ogni volta che lavora al quadro, connesse all'altrettanto disturbante racconto sulle origini dell'opera narratole da Giulia (Linda Zampaglione), figlia tredicenne della contessa.



Leggendo recensioni ma soprattutto pareri su The Well mi aspettavo un vero e proprio ritorno alle atmosfere, alla forma e alla tipologia di racconto per immagini che rendevano unici i gotici e i gialli della cinematografia nazionale tra anni Sessanta e Settanta. Mai come in questo caso sembra che molti abbiano commentato un altro film e sarebbe interessante recensire la ricezione dello stesso ma sarà per un'altra volta. Nonostante alcune strizzate d'occhio e omaggi molto evidenti a quella stagione precedentemente menzionata Zampaglione, esattamente come accadeva in Shadow, mette in mostra un impianto formale molto vicino all'horror americano di inizio millennio, in cui la macchina da presa segue le vicende con un voyeurismo tale da non distogliere il proprio sguardo neanche dinanzi alle scene più truculente e sadiche, creando un funzionale parallelo con il reportage di guerra che portava nelle case di tutti noi le incredibili immagini di orrore tutt'altro che fantastico provenienti dai combattimenti in Afghanistan e Iraq. Certamente la scelta di suddividere la narrazione per buona parte del minutaggio in due linee parallele fa sì che in una di esse riescano a risaltare gli elementi di ascendenza gotica, come ad esempio la villa antica e piuttosto austera in cui vivono i Malvisi o un pre-finale che cita Suspiria (Dario Argento, 1977), ma l'occhio del cineasta romano non adotta mai soluzioni diverse rispetto a quelle dell'altro filone del racconto, più smaccatamente accostabile al torture porn inaugurato da Saw (James Wan, 2004). Manca completamente l'idea di matrice operistica per cui la costruzione della psicologia e dei rapporti tra i personaggi funzioni da raccordo in recitativo prima di mettere in scena le arie rappresentate da omicidi estremamente estetizzanti e stilizzati, ricchi di virtuosismi visivi e ulteriori sottolineature da parte della colonna musica, così come il ricorso a tonalità antinaturalistiche o i famosissimi zoom, marchio di fabbrica per il lato più superficiale di quel cinema. L'autore, al contrario, ricorre costantemente a movimenti di macchina di sicura efficacia ma per raggelare il sangue dello spettatore attraverso la resa particolarmente convincente di effetti speciali prostetici, che sfidano la capacità di sostenere la visione dall'altro lato della quarta parete, quella pulsione sadica dell'appassionato del genere a cui allude Carol Clover nei suoi iconici scritti su slasher e rape and revenge.



Tramontato però anche il fervore di crudeltà estrema dei primi anni Duemila a cui Zampaglione si ispira cosa resta dunque da dire con tale idea di orrore? Quello che si potrebbe definire horror for horro sake, un lavoro che, in questo ben distante dal già citato Shadow e la sua critica antimilitarista, si pone l'obiettivo di trasportare il pubblico all'interno di un'ideale giostra a tema orrorifico, che spazia principalmente in territori statunitensi per poi piazzare qua e là qualche omaggio italico come farebbe un turista tra i resti del passato glorioso del Belpaese. Persino la scelta di ambientare la pellicola negli anni Novanta, il decennio che ha di fatto chiuso l'esperienza della filmografia di genere italiana, e il finale che decostruisce e distrugge alcuni capisaldi della mitologia gotica sembra affermare proprio questo: quell'horror italiano è morto e al massimo qualcuno può di tanto in tanto succhiarne via qualche goccia di sangue per scopi altri.

venerdì 6 settembre 2024

TRAP: SHYAMALAN CI RICORDA L'IMPORTANZA DELLA FORMA

Negli ultimi anni si è diffuso tra gli appassionati di cinema un certo malcontento nei confronti dell'offerta proveniente dagli Stati Uniti, accusata di adagiarsi su una mediocritas tutt'altro che aurea e una mancanza di idee che si manifesta in una lunga serie di remake, reboot, sequel, requel ecc. Quanto è singolare che in questo panorama tra i registi che più dividono vi sia M. Night Shyamalan, che nonostante una carriera ormai quasi trentennale ha sfornato solamente due sequel e porta avanti una visione filmica estremamente personale e riconoscibile. Il 2024 vede il suo ritorno alla regia con Trap, che potendo contare su un budget di medio livello può dirsi un successo commerciale ma spacca nettamente i pareri, sia degli spettatori comuni, sia della critica.


Il film vede Cooper (Josh Hartnett), pompiere e padre come tanti altri, accompagnare la figlia Riley (Ariel Donoghue) all'attesissimo concerto di Lady Raven (Saleka Shyamalan). Quello che scopre dopo una manciata di canzoni è che l'evento nasconde una trappola ordita dall'FBI per catturare il macellaio, un serial killer colpevole di più di dieci omicidi e che si cela proprio dietro il volto del protagonista.


Trap fin dal titolo mette in chiaro la connivenza tra due generi raramente accostati: il thriller di matrice hitchcockiana e il musical, in cui il commento sonoro assume la stessa importanza narrativa di quello che nel lessico operistico si definisce recitativo. Per questo motivo Shyamalan, che fin dai tempi de Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) aveva abbracciato la riflessione sulle possibilità dello sguardo attraverso l'uso della macchina da presa, pone una doppia sfida al pubblico, ovvero in prima istanza quella di identificarsi in piena consapevolezza con un assassino, successivamente con le figure femminili che tentano di fermarlo, tra cui una popstar. In passato già era accaduto che dei registi sfruttassero la grammatica filmica, come l'insistenza sui primi piani ad esempio, per connettere emotivamente lo spettatore con un personaggio razionalmente e moralmente ripugnante (si pensi ad Hannibal Lecter sia sul grande che sul piccolo schermo) ma l'autore di origini indiane mette alla prova l'efficacia di tali strumenti e la capacità di chi osserva di scindere tra ragione e sentimento, cervello e stomaco, esattamente come Cooper, che in una sequenza a casa sua afferma apertamente di vivere un volontario sdoppiamento tra la vita domestica e pubblica e quella del macellaio, grazie a cui riesce a mantenere un irreale equilibrio tra istinti omicidi e rispettabilità, oltre a un profondo amore verso i figli espresso fino all'ultimo. Per chi si trova dall'altra parte della quarta parete aderire al punto di vista dell'uomo significa anche sperimentare questa dialettica interiore tipica degli assassini sociopatici, una deriva estrema di un fenomeno di dissipazione dell'empatia da cui è affetta l'intera nostra contemporaneità, come diventa evidente a più riprese nella pellicola: dai commenti totalmente fuori luogo dei fan alla live sui social in cui Lady Raven chiede aiuto perché qualcuno liberi il ragazzo imprigionato da Cooper fino all'ossessione dell'addetto al merchandising per il serial killer e le sue imprese, visto alla stregua di un eroe.

La stesso distanziamento empatico vissuto tra le diverse generazioni che assistono al concerto. Un evento che, oltre a citare altri maestri della suspense ripresa in diretta come il già citato Hitchcock ma anche Brian De Palma, viene girato con il linguaggio proprio della musica dal vivo e così evidenzia la totale mancanza di sintonia e, conseguentemente, la divergenza di sguardo tra le adolescenti che vivono con sincera partecipazione il live e i genitori che le accompagnano, chiaramente distaccati emotivamente e intellettualmente da ciò che li circonda. L'insistenza della cinepresa su una moltitudine di schermi però ricontestualizza l'amato split-screen dell'autore di Omicidio in diretta (Snake Eyes, Brian De Palma, 1998) per denunciare la distanza che si crea anche tra le fan e il loro idolo, di cui non riescono realmente a percepire la dimensione umana e pertanto istintivamente posizionano costantemente un filtro tra di essi, lo stesso peraltro a cui spesso ricorrono per dare un senso maggiormente comprensibile a un reale la cui percezione viene sempre più ovattata da chi vorrebbe proteggerli nei riguardi del male che il mondo nasconde. Esattamente ciò che fa Cooper per Riley, con la sola differenza che in questo caso è il mostro dentro di sé la minaccia.


Tutto questo e molto altro in Trap non si evince attraverso interminabili conversazioni o monologhi stantii, bensì grazie a ogni singolo movimento di macchina, stacco di montaggio, sovrapposizione visivo-sonoro che Shyamalan mette in scena, ricordandoci che il cinema, come tutte le arti, è soprattutto una questione di forma espressiva e di abilità nel manipolare l'occhio del fruitore. Se non riusciamo ad apprezzare un affabulatore in grado di riportarci al senso più profondo e primigenio della rappresentazione di sé forse dovremmo interrogarci almeno quanto Cooper.

lunedì 2 settembre 2024

THE FIRST SLAM DUNK: BILDUNGSROMAN E REMAKE DA MANUALE

C'era una volta (boomer nostalgico mode on) un mondo in cui Netflix non esisteva e il panorama anime si distribuiva sui palinsesti televisivi, segnando un appuntamento orario imperdibile e irripetibile perché il bingewatching era un concetto estraneo anche alla fantascienza e chi non si sintonizzava all'orario giusto davanti a quell'ingombrante tubo catodico rischiava di perdersi la trasformazione in super saiyan di Goku o la battaglia finale tra Seiya/Pegasus e il corrotto gran sacerdote delle dodici case. In questo contesto molti come me si sono innamorati di Slam Dunk (Nobutaka Nishizawa, 1993-1996), anime a tema sportivo tratto dall'omonimo manga ideato da Takehiko Inoue tra 1990 e 1996 in cui la testa calda Hanamichi Sakuragi si unisce a un altrettanto colorito team di basket liceale arrivando a sfiorare il titolo nazionale. A distanza di quasi venti anni dalla conclusione del fumetto il suo stesso autore, dopo una gestazione quindicennale, ritorna a quell'universo narrativo che ne ha lanciato la carriera scrivendo e dirigendo The First Slam Dunk (2022), film campione di incassi in Giappone universalmente acclamato dalla critica di tutto il mondo.


La pellicola adatta per il grande schermo uno dei momenti più importanti dell'originale cartaceo, la partita del campionato nazionale tra lo Shohoku, squadra dei protagonisti, e il Sannoh, istituto superiore con una tradizione cestistica invidiata in tutto il paese. Il match viene intervallato da una serie di flashback e momenti intimi legati a tutti i giocatori del team sfavorito, con particolare attenzione però per Ryota Miyagi (Shugo Nakamura), playmaker del quale viene rivelato per la prima volta il passato tormentato dalla perdita del padre e dell'amato fratello maggiore.


Viviamo anni estremamente legati al passato , specie per alcune fasce di età, motivo per cui cinema e serialità cavalcano quest'onda sfornando una moltitudine di remake, reboot, requel, sequel spirituali e chi più ne ha, più ne metta. L'idea di questo The First Slam Dunk potrebbe far pensare all'ennesimo tentativo di guadagnare sulla nostalgia dei Millennials ma bastano i primi minuti a smentire qualunque retropensiero. Dal tratto fumettistico iconico dell'autore di Vagabond (1998-2015) la macchina da presa passa a una commistione tra animazione digitale e tradizionale capace di donare movimento e conseguentemente vita ai disegni del mangaka, superando la capacità di fedeltà nell'adattamento anche dell'anime, e al contempo rendere la partita uno spettacolo visivo quasi indistinguibile da quelli dell'NBA visti in tv, con tanto di tecniche di montaggio e inquadrature acquisite proprio da quel linguaggio. A tale riuscito mix di grammatiche provenienti da diversi media Inoue aggiunge un'ulteriore strategia atta ad arricchire il pathos e il coinvolgimento dello spettatore tramite un costante ricorso a cambi di ritmo e altre manipolazioni temporali: accelerazioni improvvise quando il cuore (non a caso citato a più riprese dai personaggi) dei protagonisti batte a velocità inusitate per la fatica e la paura di non essere all'altezza dei fortissimi avversari, bruschi rallentamenti per soffermarsi sugli stati d'animo dei personaggi e sugli eventi personali che li hanno portati a dare letteralmente tutto per quella partita.

A proposito di non sentirsi all'altezza, sentimento tipico dell'adolescenza che molti di noi hanno provato a più riprese in quegli anni, lo spettacolare match sportivo messo in scena quasi in tempo reale rappresenta a tutti gli effetti un simbolo di quei riti iniziatici che segnano il passaggio dall'infanzia all'età adulta. Sebbene ognuno dei cinque titolari dello Shohoku godano di una certa introspezione, come ad esempio Mitsui (Jus Kasama) e il suo ambivalente rapporto con la pallacanestro, il centro emozionale e strumento attraverso cui percorrere questa delicata fase dell'esistenza è Ryota. Il regista del team, che in quanto tale determina tutti i movimenti dei compagni ma per fare questo li osserva più da vicino di qualunque altro spettatore, diventa l'osservatore privilegiato di quanto accade sul parquet per noi dall'altra parte della quarta parete ma, soprattutto, il filtro soggettivo dell'intera vicenda, poiché ciò a cui assistiamo è il suo momento. Troppo basso per uno sport in cui i fuoriclasse solitamente superano i due metri, poco talentuoso, seppur dotato di velocità non comuni e grandissima tecnica di palleggio, rispetto al fratello che non c'è più, troppo immaturo per fare da supporto a madre e sorellina. Il confronto con chi non c'è più è così impari da spingere il ragazzo a scrivere una lettere, che poi getta via, in cui esordisce chiedendo scusa al genitore perché a sopravvivere è stato il figlio sbagliato. In una sola, desolante frase è racchiuso l'intero mondo di insicurezze, dolore, rabbia e incapacità di esprimere sé stessi che caratterizza l'adolescenza, ancor di più forse in quella terra di mezzo che sono stati gli anni Novanta di cui è imbevuta la creatura di Inoue, quelli del disagio esistenziale cantato da Nirvana prima e Linkin Park poi e portati su schermo da David Fincher con Fight Club (1999). In questo caso, però, la tendenza autodistruttiva del giovane, che del resto condivide anche con tutti gli altri giocatoti dello Shohoku, persino l'allegro Sakuragi pronto a fare a botte con chiunque pur di affermare la propria esistenza a un mondo che altrimenti lo ignorerebbe, non si risolve in conseguenze funeste: la comunanza tra i cinque, quel gioco di squadra che decreta la differenza tra successo e insuccesso nello sport diventa ancora di salvezza anche a livello personale, nella partita della vita in cui, qualche volta, anche degli outsider che hanno subito pugni e calci continui dal destino riescono a togliere la gloria a chi ha sempre goduto del sorriso del fato.


The First Slam Dunk è letteralmente il cerchio che si chiude per un racconto iniziato decenni fa, una generazione, l'annosa dialettica tra animazione tradizionale e digitale, le coordinate su come si possa ritornare su una propria opera passata con qualcosa di nuovo da comunicare e il passato in toto. Un Bildungsroman da manuale in ogni sua componente.

giovedì 1 agosto 2024

CONAN THE BARBARIAN: ESTETICA E PASSIONE MA EPICA NON PERVENUTA

Tra i nomi meno apprezzati (per evitare termini più forti e che neanche dovrebbero essere accostati all'arte) dai cinefili che hanno iniziato ad amare il cinema nei primi anni Duemila c'è di sicuro Marcus Nispel, reo di aver diretto principalmente reboot di classici, a loro volta in realtà fortemente osteggiati quando furono originariamente distribuiti. Mentre oggi almeno Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 2003) gode di una certa rivalutazione, specie tra chi ha avuto modo di avvicinarsi a quella saga proprio tramite questo titolo, indubbiamente l'opera meno amata del regista tedesco resta Conan the Barbarian, reboot del dittico tratto dai racconti di Robert E. Howard girato in stereoscopia nel 2011. Accolto con recensioni in gran parte negative e incassi ben al di sotto delle aspettative per un blockbuster, scopriamo, con la giusta distanza critica permessa dai quasi quindici anni trascorsi, cosa riserva allo spettatore odierno.


La pellicola, ambientata nell'immaginaria era hyboriana, segue il percorso di vendetta del cimmerio Conan (Jason Momoa), guerriero che ha perso tutto il suo clan e suo padre (Ron Perlman) a causa delle mire dello spietato Khalar Zym (Stephen Lang), che utilizza qualsiasi mezzo per ottenere tutti i frammenti di una maschera dai poteri magici enormi, Per riuscire ad attirare l'odiato nemico, il protagonista salva e porta con sé la sacerdotessa Tamara (Rachel Nichols), indispensabile per utilizzare l'artefatto mistico.



Ciò che attira in prima istanza l'attenzione durante la visione di Conan the Barbarian è la scelta da parte degli sceneggiatori di modificare buona parte degli eventi che segnano l'infanzia dell'eroe hyboriano rispetto all'iconico lungometraggio diretto nel 1982 da John Milius, così da avere maggiori libertà creative e tentare allo stesso tempo di smarcarsi dal continuo e, chiaramente deleterio, confronto con lo stesso. Questo non vuol dire però che Nispel non utilizzi come riferimento l'originale letterario in cui nasce il personaggio, anzi: alcuni scorci, specie nelle panoramiche o nei campi lunghissimi, così come l'aspetto di Momoa riecheggiano con grande reverenza le illustrazioni dei racconti realizzate da Frank Frazetta, così come la caratterizzazione interiore di Conan rievocano l'aspetto più libertario e picaresco dei lavori di Howard, verso cui non mancano anche easter egg e ammiccamenti per i fan. Altrettanto apprezzabile è in generale l'impianto formale della pellicola. Se nelle precedenti fatiche di matrice horror il cineasta aveva già mostrato una notevole cura nella composizione delle inquadrature, minata in parte però da un ricorso quasi ossessivo alla macchina a mano, stavolta preme l'acceleratore sul lato più estetizzante del proprio sguardo, persino durante le concitate scene d'azione, in cui il ralenti conferisce un'ulteriore impatto e anche una leggibilità dei movimenti spesso carente nell'action contemporaneo.
Di buon livello risultano le interpretazioni del cast, a partire dal già citato Momoa, passando dai due villain principali: Stephen Lang dona una certa gravitas al suo personaggio, mentre sua figlia Marique assume tratti lascivi e persino incestuosi grazie all'apporto di drammaturgia attoriale offerto da Rose McGowan, che in tal modo spinge anche ai limiti il perbenismo americano e l'autocensura tipica delle produzioni di massa. Proprio come l'abbondanza di sangue e gore durante i combattimenti, i cui arti mozzati, teste staccate di netto e flotti di sangue, evidentemente derivanti dagli horror dai connotati splatter diretti da Nispel, sono figli certamente dei modelli di Milius e Howard e molto lontani dal mondo dei blockbuster, specialmente quelli di matrice disneyana da cui siamo sommersi oggi.
Allora come mai il film è stato un tale insuccesso ed è ancora ricordato con vergogna, persino dalla sua star? Sicuramente per un eccesso di damnatio memoriae legata al dissenso dei fan del materiale originale, ma anche per oggettivi demeriti. In primis la sceneggiatura soffre di una grande mancanza di personalità e, soprattutto di epica; difetto quest'ultimo accentuato da un ritmo eccessivamente rapido e un commento musicale davvero anonimo. In questo senso risulta impietoso il confronto con la pellicola con protagonista Arnold Schwarzenegger, che brillava proprio nella distensione del racconto, le divagazioni estetico-poetiche in bilico tra Kurosawa e il western di John Ford e la colonna musica ricca di pathos firmata Poledouris.


Conan the Barbarian è, in conclusione, un buonissimo action fantasy, un'opera esteticamente ben più pregevole della media dei blockbuster degli ultimi anni ma priva di quello che contraddistingue il nome che porta, l'epica.