sabato 7 dicembre 2024

BLONDE: LA FABBRICA DEGLI INCUBI

La categoria dei film divisi è sempre stata ricca e lo è ancora di più nell'era dei social, dove solitamente le opinioni si riflettono in una contrapposizione binaria tra poli estremi: o capolavoro o inguardabile, senza vie di mezzo. Spesso sono proprio questo tipo di produzioni a divenire, nel corso degli anni, dei cult, trovando una maggiore comprensione e atteggiamenti meno schierati da parte del pubblico, ed è questa, almeno a mio avviso, la strada sulla quale si sta incamminando Joker: Folie à Dieux (Todd Phillips, 2024). Su un percorso nettamente più tortuoso si trova, d'altro canto, Blonde, il biopic sulla diva per eccellenza, Marilyn Monroe, diretto da Andrew Dominik nel 2022. Opera presentata al Festival di Venezia con ben quattordici minuti di applausi per poi venire gradualmente demolita dal reso della critica al momento della sua distribuzione su Netflix, suscitando persino reazioni scandalizzate di presunte femministe e accuse di propaganda antiabortista. Il simbolo della netta polarizzazione intorno al lungometraggio è la sua presenza, in contemporanea, sia agli Academy Awards che ai Razzie del 2023. Un cortocircuito evidente di cui proverò a sviscerare i motivi.


La pellicola, seguendo un andamento cronologico non prettamente lineare, mette in scena le vicende umane di Norma Jeane, in arte Marilyn Monroe (Ana de Armas) a partire dalla tragica infanzia vissuta tra le grinfie di una madre (Julianne Nicholson) affetta da gravi disturbi psichiatrici e violenta, passando poi per la carriera hollywoodiana e i rapporti con uomini tanto famosi quanto incapaci di amarla e comprenderla, tra cui Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), Arthur Miller (Adrien Brody), i due figli d'arte Cass Chaplin (Xavier Samuel) ed Eddy Robinson Jr. (Evan Williams) e in ultimo il presidente Kennedy (Caspar Phillipson).


Il biopic è da un lato uno dei generi maggiormente in voga degli ultimi anni, come dimostrano i risultati al box office e la crescente percentuale che occupano sia in sala, sia sui palinsesti on demand, eppure soffrono al contempo di una staticità estetico-narrativa che va ben oltre l'usuale dialettica tra rispetto dei canoni e variazioni che contraddistingue il cinema di genere. Escluse poche, notevoli eccezioni, come ad esempio la filmografia di Pablo Larraìn, si limita fin troppo spesso a ricalcare la parabola da manifesto dell'american dream nella quale un individuo partito dal niente riesce, grazie a tenacia e talento fuori dal comune, a scalare la piramide sociale fino al successo, superando anche fasi di vita oscure e complicate. Dominik, d'altro canto, sceglie una vita molto diversa, destrutturando il genere esattamente come aveva fatto in precedenza con il western (The Assassination of Jesse Jamesby the Coward Robert Ford, 2007) e il neo-noir (Killing Them Softly, 2012), a cominciare dalla struttura del racconto, che viene rarefatta divenendo una sorta di collage di momenti uniti tra di loro con un montaggio più vicino a quello di Ejzenstejn che non a quello classico a cui fa riferimento la protagonista stessa durante un dialogo, nel quale sottolinea quanto sia carente la componente creativa degli attori al cinema proprio a causa delle manipolazioni offerte dall'editing. Blonde, difatti, al netto di alcune coordinate temporali fornite da date o dai riferimenti ad alcune delle pellicole più note della carriera di Marilyn Monroe, si sviluppa come un flusso il cui cuore è rappresentato non dalle usuali dinamiche di causa ed effetto, bensì dalla progressiva frantumazione della psiche del personaggio che racconta, il cui punto di non ritorno diviene la nascita proprio del suo alter ego pubblico, che anno dopo anno, film dopo film, si distanzia sempre più dalla vera Norma. Lo sgretolarsi dell'equilibrio tra le due anime che condividono il corpo della diva porta progressivamente la donna sull'orlo del baratro, accelerato dal modo in cui viene oggettificata da qualunque figura maschile entri nella sua vita. Se la sua carriera hollywoodiana comincia con uno stupro da parte di un produttore, anche in seguito, quando l'opinione comune la vorrebbe così ricca e famosa da poter gestire la propria vita in piena autonomia, finisce solamente per essere cannibalizzata da quel pubblico che la tratta come un pezzo di carne per il male gaze, mentre i suoi compagni o mariti vorrebbero solamente plasmarla secondo i propri comodi, arrivando in tanti casi anche picchiarla o violentarla.


Il cinema e Hollywood in particolare rappresentano per il cineasta australiano l'esatto opposto della fabbrica dei sogni con la quale vengono spesso associati, persino nei tanti film di natura metatestuale, tanto da costituire per la protagonista un lungo ed estenuante incubo, dove non esistono linee di demarcazione tra pubblico e privato; gli esseri umani vivono solamente per essere usati, sbranati e digeriti e dietro ogni mito si nasconde solamente l'ennesimo orco. Traendo spunti anche estetici dall'andamento onirico della filmografia lynchiana, soprattutto Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006), non a caso le pellicole più vicine all'horror della stessa e di ambientazione cinematografica, l'autore di Chopper (Andrew Dominik, 2000) demistifica in toto l'alone di fiaba che circonda l'eredità della diva bionda in un caotico viaggio infernale tra violenze domestiche, speranze di incontrare quel padre mai conosciuto e dialoghi immaginari con i feti che la donna ha portato nel grembo prima di una serie di aborti. La razionalità tipica di un genere che pretende una certa oggettività di matrice storiografica cede il passo alla volatilità inquietante dell'incubo e addirittura l'eroe di generazioni di americani, John F. Kennedy, si tramuta nell'ennesimo padre padrone che vede in Norma letteralmente soltanto un buco da riempire del proprio sperma. In questa discesa negli inferi esistenziali dell'attrice interpretata splendidamente da De Armas la perdita dell'innocenza e di ogni coordinata logica si traduce perfino in uno schizofrenico salto continuo tra diversi aspect ratio, tra colore e bianco e nero, lunghi piano sequenza e campi e controcampi sui volti dei personaggi da classicismo americano, inquadrature fisse e macchina a mano nello stile di Terrence Malick.


Come poteva un'opera tanto destabilizzante sotto ogni punto di vista accontentare tutti? Ecco perché Blonde è tra le opere più polarizzanti degli ultimi anni, ma anche una delle più coraggiose e viscerali nel coinvolgimento emotivo dello spettatore e nel ricordarci che, dietro i proclami, gli schieramenti ideologici e i miti collettivi la realtà è ben più complessa e, purtroppo, spaventosa.

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