In un vero e proprio tour de force per gli amanti dell'horror e del cinema di genere il periodo a cavallo tra ottobre e novembre ha visto le sale italiane proporre un trittico che, per quanto distante anni luce per narrativa, stile e poetica, è accomunato da un livello qualitativo ben al di sopra della media e campagne marketing che ne hanno decretato un non così scontato successo di pubblico. Mi riferisco a Longlegs (Oz Perkins, 2024), Terrifier 3 (Damien Leone, 2024) e l'oggetto di questa analisi, The Substance. Diretto da Coralie Fargeat, già autrice del sorprendente Revenge (2017), il film viene presentato all'edizione 2024 del Festival di Cannes, dove riceve un'eccezionale accoglienza, che gli vale persino il premio per la miglior sceneggiatura. Il medesimo entusiasmo attorno a esso si crea anche al momento della distribuzione mondiale, riuscendo persino a registrare ottime cifre al botteghino per una co-produzione europea lontana dalle coordinate sia produttive, sia cinematografiche di un blockbuster.
Elisabeth Sparkle (Demi Moore), protagonista della pellicola, è un'attrice alla soglia dei cinquant'anni che, dopo una scintillante carriera sul grande schermo, condita da un Oscar e una stella sulla leggendaria Hollywood Walk of Fame, mantiene una certa fama attraverso un programma televisivo di fitness. Quando lo spietato produttore dello show, Harvey (Dennis Quaid), le dà il benservito per sostituirla con una figura più giovane, la donna rivolge le proprie speranze al misterioso siero The Substance, che promette di fornirle una versione perfetta di sé stessa, che si traduce nello sdoppiamento con la giovane Sue (Margaret Qualley), alla quale deve alternarsi ogni sette giorni.
Dopo aver abilmente elaborato secondo una prospettiva contemporanea e coerente con le istanze della quarta ondata femminista il rape and revenge attraverso Revenge, Fargeat stavolta si appropria degli elementi più riconoscibili del body horror cronenberghiano, sia quello del periodo anni Ottanta, sia quello più recente, nel quale il cineasta canadese applica il proprio sguardo materico al mondo della superficie per eccellenza, ovvero quello dello spettacolo. The Substance, difatti, nasce e si sviluppa nel medesimo milieu di Maps to the Stars (David Cronenberg, 2014), mettendo in scena anche una simile riflessione sulla decadenza morale dello showbiz reificandolo tramite i corpi sempre più artificiosi e imbruttiti dalla paura della vecchiaia di chi ne fa parte per poi approdare su lidi più affini alle tematiche care alla regista francese. Nel momento in cui, in contiguità con quanto appena affermato, dalla carne di Elisabeth nasce Sue, il lungometraggio adotta un impianto formale totalmente opposto alle algide inquadrature geometriche e alla serie di long take precedenti, prendendo in prestito il linguaggio della televisione più becera e sessista degli anni Ottanta. Un tripudio di primi piani e particolari sulle forme, irreali nella loro perfezione, della versione giovane della protagonista, coadiuvati dalla musica elettronica volontariamente coatta composta da Raffertie, con cui Fargeat mette in scena la perfetta sublimazione del male gaze insito in quel tipo di mentalità e, conseguentemente, offerta audiovisiva, con un rigore teorico che sembra quasi trasporre alla lettera le riflessioni di genere sul cinema di figure quali Laura Mulvey e Carol Clover. Certamente molto di quanto viene portato in scena non può non riportare alla mente opere precedenti a quella in oggetto, da The Neon Demon (Nicolas Winding Refn, 2016) a Raw (Grave, Julia Ducournau, 2016) passando per il meno conosciuto Starry Eyes (Kevin Kolsch, Dennis Widmyer, 2014), ma ciò non toglie nulla del valore intrinseco dell'operazione filmata dalla cineasta transalpina, la quale fa proprio del postmodernismo e dell'ipertestualità una cifra stilistica e poetica. Esemplare è la costante citazione dell'immaginario kubrickiano e, in particolare, di Shining (1980), passato alla storia non solo per le indiscutibili qualità filmiche, bensì anche per il trattamento riservato a Shelley Duvall, la cui fragilità psico-emotiva venne esasperata dall'artista newyorkese per enfatizzare la caratterizzazione del personaggio su schermo, finendo però per segnare indelebilmente la vita dell'attrice. Un link metacinematografico perfettamente in linea con la scelta di Demi Moore nel ruolo principale (altra interprete finita nel dimenticatoio dopo il sopraggiungere della mezz'età) ma soprattutto con il j'accuse verso la violenza del male gaze, perpetrato per decenni anche dalla settima arte, considerando peraltro che l'obiettivo della macchina da presa secondo molti studi settoriali altro non è che una meccanizzazione dello sguardo umano. Un preciso e continuo riferimento alla teoria femminista sul cinema che esplode, letteralmente e non solo, nel tripudio di sangue finale, in cui il famoso mostruoso femminile di Barbara Creed trova la sua concretizzazione con un mix citazionista che unisce Carrie - Lo sguardo di Satana (Carrie, Brian De Palma, 1976) e Society - The Horror (Society, Brian Yuzna, 1989).
The Substance, in conclusione, si inserisce con pieno merito in un più diffuso clima culturale che denuncia attraverso la potenza del cinema di genere e della intertestualità pop tipica del web 2.0 la tutt'altro che deperita cannibalizzazione del corpo e della mente femminile da parte di una società, purtroppo, ancora fortemente patriarcale e impregnata di un horror vacui, di cui lo spettacolo rappresenta unicamente la punta dell'iceberg.
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