mercoledì 11 settembre 2024

THE WELL: UN AMERICANO A ROMA

Ciclicamente all'uscita, piuttosto miracolosa e sporadica, in sala di un horror diretto da un italiano stampa e appassionati gridano al ritorno ai fasti di un tempo, quando Cinecittà rivaleggiava con Hollywood per incassi e i drive-in degli States erano invasi dai capolavori di Mario Bava, Riccardo Freda, Sergio Martino, fino all'arrivo di Dario Argento, capace di travalicare anche fuori dall'Europa l'idea che queste produzioni appartenessero a una serie b. Inutile sottolineare come manchino in primis le condizioni istituzionali e produttive per far sì che tornino quei tempi ma già quindici anni fa qualcuno ci sperava all'uscita di Shadow (2009), diretto dal leader dei Tiromancino Federico Zampaglione con ottimi risultati artistici e buoni responsi anche internazionali. Quest'anno il musicista torna al suo amore per il cinema dell'orrore con The Well, che dopo essere stato presentato al prestigioso Festival di Sitges, riesce a trovare una discreta distribuzione sugli schermi nostrani incoraggiata da buonissime recensioni ma priva di altrettanto supporto da parte del pubblico, visti gli incassi e i tanti commenti negativi diffusi sul web.



La protagonista del film, Lisa (Lauren LaVera), è una restauratrice, figlia di uno dei professionisti più affermati nel settore (Giovanni Lombardo Radice), chiamata nella campagna laziale dalla duchessa Emma Malvisi (Claudia Gerini) per ridare vita a un dipinto di notevole valore in tempi strettissimi. Durante il viaggio in autobus verso la piccola località la giovane stringe amicizia con un gruppo di escursionisti, che finiscono, durante una notte in tenda, tra le grinfie di uno psicopatico che li tiene in gabbia come animali. Nel frattempo Lisa inizia ad avere strane e inquietanti visioni ogni volta che lavora al quadro, connesse all'altrettanto disturbante racconto sulle origini dell'opera narratole da Giulia (Linda Zampaglione), figlia tredicenne della contessa.



Leggendo recensioni ma soprattutto pareri su The Well mi aspettavo un vero e proprio ritorno alle atmosfere, alla forma e alla tipologia di racconto per immagini che rendevano unici i gotici e i gialli della cinematografia nazionale tra anni Sessanta e Settanta. Mai come in questo caso sembra che molti abbiano commentato un altro film e sarebbe interessante recensire la ricezione dello stesso ma sarà per un'altra volta. Nonostante alcune strizzate d'occhio e omaggi molto evidenti a quella stagione precedentemente menzionata Zampaglione, esattamente come accadeva in Shadow, mette in mostra un impianto formale molto vicino all'horror americano di inizio millennio, in cui la macchina da presa segue le vicende con un voyeurismo tale da non distogliere il proprio sguardo neanche dinanzi alle scene più truculente e sadiche, creando un funzionale parallelo con il reportage di guerra che portava nelle case di tutti noi le incredibili immagini di orrore tutt'altro che fantastico provenienti dai combattimenti in Afghanistan e Iraq. Certamente la scelta di suddividere la narrazione per buona parte del minutaggio in due linee parallele fa sì che in una di esse riescano a risaltare gli elementi di ascendenza gotica, come ad esempio la villa antica e piuttosto austera in cui vivono i Malvisi o un pre-finale che cita Suspiria (Dario Argento, 1977), ma l'occhio del cineasta romano non adotta mai soluzioni diverse rispetto a quelle dell'altro filone del racconto, più smaccatamente accostabile al torture porn inaugurato da Saw (James Wan, 2004). Manca completamente l'idea di matrice operistica per cui la costruzione della psicologia e dei rapporti tra i personaggi funzioni da raccordo in recitativo prima di mettere in scena le arie rappresentate da omicidi estremamente estetizzanti e stilizzati, ricchi di virtuosismi visivi e ulteriori sottolineature da parte della colonna musica, così come il ricorso a tonalità antinaturalistiche o i famosissimi zoom, marchio di fabbrica per il lato più superficiale di quel cinema. L'autore, al contrario, ricorre costantemente a movimenti di macchina di sicura efficacia ma per raggelare il sangue dello spettatore attraverso la resa particolarmente convincente di effetti speciali prostetici, che sfidano la capacità di sostenere la visione dall'altro lato della quarta parete, quella pulsione sadica dell'appassionato del genere a cui allude Carol Clover nei suoi iconici scritti su slasher e rape and revenge.



Tramontato però anche il fervore di crudeltà estrema dei primi anni Duemila a cui Zampaglione si ispira cosa resta dunque da dire con tale idea di orrore? Quello che si potrebbe definire horror for horro sake, un lavoro che, in questo ben distante dal già citato Shadow e la sua critica antimilitarista, si pone l'obiettivo di trasportare il pubblico all'interno di un'ideale giostra a tema orrorifico, che spazia principalmente in territori statunitensi per poi piazzare qua e là qualche omaggio italico come farebbe un turista tra i resti del passato glorioso del Belpaese. Persino la scelta di ambientare la pellicola negli anni Novanta, il decennio che ha di fatto chiuso l'esperienza della filmografia di genere italiana, e il finale che decostruisce e distrugge alcuni capisaldi della mitologia gotica sembra affermare proprio questo: quell'horror italiano è morto e al massimo qualcuno può di tanto in tanto succhiarne via qualche goccia di sangue per scopi altri.

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