sabato 29 dicembre 2018

LOVELESS: L'ASSENZA DI UMANITÀ NELLA RUSSIA CONTEMPORANEA

Andrej Zvjagincev è ormai più che una promessa del cinema europeo e dopo l'exploit mondiale di Leviathan (2014) conferma il proprio talento nel 2017 con Loveless. L'ultimo, a oggi, film del cineasta russo ottiene un immediato successo mondiale, coronato da riconoscimenti in tutti i festival più prestigiosi, dal premio della giuria a Cannes passando per gli European Awards fino alla nomination per il miglior film straniero agli Academy. Una vera e propria consacrazione.

Ambientato nel 2012, nel pieno dei deliri per la profezia dei Maya, il lungometraggio mostra l'incrinarsi sempre maggiore del rapporto tra Zhenya e Boris, una coppia sposata prossima al divorzio. I due hanno un figlio di dodici anni chiamato Alyosha che ignorano completamente, privandolo di ogni segno di affetto e anzi costringendolo ad assistere ai loro continui litigi. Una mattina i due genitori si rendono conto che il ragazzo manca da casa e scuola da almeno due giorni e così si affidano alla polizia per rintracciarlo ma le forze dell'ordine fanno capire, senza giri di parole, che non possono e non vogliono fare niente per aiutarli e che quindi l'unico modo per imbastire una ricerca accurata ed efficiente è rappresentata da un'associazione di volontari ben organizzati. Questi ultimi si mettono immediatamente a lavoro per ritrovare Alyosha, dovendo però fare i conti anche con le continue sfuriate tra Zhenya e Boris.

Come accade sempre più spesso nel cinema contemporaneo la sequenza d'apertura si rivela un vero e proprio prologo, una sintesi di straordinaria efficace di tutto ciò che contengono i minuti successivi del film: le lunghe e silenziose inquadrature dei paesaggi innevati mescolati ai fatiscenti edifici che occupano la solitaria esistenza del ragazzo in procinto di sparire mettono in luce non solo l'estetica raffinata di Zvjagincev ma l'intera poetica sottesa alla pellicola. La quasi totale assenza di figure umane che possano animare le costruzioni di chiara origine sovietica richiama immediatamente le insistite vedute dei desolati e desolanti spazi urbani della filmografia di Michelangelo Antonioni, capace come pochi di esternare semplicemente attraverso l'occhio della macchina da presa l'horror vacui della società postindustriale in opere quali La notte (1961) e L'eclissi (1962). Persino lo squallore architettonico di edifici come la scuola di Alyosha o dell'enorme palazzone abbandonato dove amava nascondersi con il suo migliore amico abbinato alla bellezza quasi eterea delle enormi distese di bianco candido formate dalla neve sui prati e gli alberi della tundra russa riportano alla mente le violenze arrecate al paesaggio ferrarese dalle industrie e i suoi variopinti scarichi in Deserto rosso. Insomma Loveless guarda senza mai nasconderlo alla produzione del maestro italiano ma non come semplice imitazione calligrafica di matrice postmoderna, bensì per comunicare in maniera ancor più inequivocabile allo spettatore come al centro del film vi sia un vuoto, un'assenza diffusa e quasi programmatica di umanitas. I due genitori protagonisti della tragedia messa in scena, complici anche le ottime interpretazioni di Maryana Spivak e Aleksey Rozin, certamente sembrano fare di tutto per innervosire e lasciarsi odiare dal pubblico ma la verità è che in fondo rappresentano persone comuni, un uomo e una donna come ce ne sono a milioni oggi, assorbiti completamente dallo schermo dello smartphone o dal lavoro mentre creano invece un incolmabile vuoto affettivo intorno a loro. Persino il sangue del loro sangue finisce per essere continuamente messo in un angolo e riemerge nei loro pensieri solamente al momento della scomparsa ma mai per un vero sentimento di mancanza o di preoccupazione. Alyosha per sua madre è solo un errore che le ha rovinato la vita mentre suo padre pare averlo già rimpiazzato con il figlio che sta per avere dalla sua nuova compagna.
La medesima assenza di umanità all'interno del nucleo familiare composto dai tre si riflette in realtà in tutti i rapporti interpersonali che riguardano i protagonisti, dalle relazioni con i nuovi rispettivi compagni ai conflitti tra Zhenya e sua madre, così come assolutamente priva di pietas e qualsivoglia intenzione di adempiere al proprio dovere si rivela la polizia, interessata solamente a liberarsi di qualunque scomodo compito sul quale lavorare. Questo esteso oblio di qualunque forma di umanità appare una chiara accusa del regista verso l'intero apparato sociale del proprio paese, come testimoniano i frequenti riferimenti all'attualità politica veicolati da televisioni o autoradio. Sicuramente la Russia non è l'unica nazione afflitta da una disumanizzazione imperante di questi tempi ma l'insistenza della cinepresa sulle macerie della vecchia Unione Sovietica, così come la scritta sulla tuta nella sequenza finale, non lasciano dubbi sull'obbiettivo del cineasta.

Loveless alla luce di questa analisi può dunque essere considerato come una cinica quanto esteticamente impeccabile riflessione sulla condizione emozionale dell'uomo contemporaneo, dal contesto sociale più ristretto (la famiglia) fino all'universalità del mondo intero.
Un'ultima chicca: tutti i fan (come me) dei Bring Me The Horizon apprezzeranno la sequenza in auto durante la quale Boris infastidisce sua moglie alzando a palla il volume mentre si trova in esecuzione Sleepwalking, una delle hit della band di Sheffield che peraltro esprime molto bene il cortocircuito emotivo nel quale si trovano i due personaggi.

venerdì 28 dicembre 2018

INFERNO: LA FIABA SECONDO DARIO ARGENTO

Benché siano passati già sei anni dal suo ultimo film (Dracula 3D, 2012) Dario Argento resta uno degli autori italiani più riconosciuti sia in patria che nel resto del mondo, dove forse gode di una fama anche maggiore, data il solito e pessimo malcostume italico di denigrare le nostre eccellenze. Per la maggior parte degli appassionati della settima arte, così come per lo spettatore "casual", Argento è sinonimo di Profondo rosso (1975) o di Suspiria (1977) così oggi ho deciso di riportare all'attenzione una delle sue pellicole più controverse: Inferno del 1980. Concepito come secondo capitolo di una trilogia incentrata sulle luciferine Tre Madri e originata dal già citato Suspiria il film si rivela una cocente delusione per il cineasta romano sia da un punto di vista commerciale, a causa soprattutto della mancata distribuzione internazionale su larga scala, che critico, determinando una battuta d'arresto nell'affermazione mondiale dell'autore all'interno del circuito mainstream.

L'esile racconto messo in scena nel corso dei centosei minuti del lungometraggio ruotano attorno alla scoperta della leggenda delle Tre Madri, tre esseri infernali rinchiuse dall'alchimista e architetto Emilio Varelli in altrettanti edifici costruiti a Roma, New York e Friburgo. La poetessa Rose (Irene Miracle) compra da un antiquario proprio una copia del libro nel quale Varelli racconta il proprio rapporto con queste entità e si rende conto che l'antico palazzo nel quale vive rappresenta l'edificio americano nel quale è rinchiusa la Mater Tenebrarum, la più crudele del terzetto. Spaventata dalla situazione la donna chiede aiuto a suo fratello Mark, studente di musicologia a Roma, ma questi smarrisce la lettera inviatagli dalla sorella a causa della comparsa della Mater Lacrimarum (Ania Pieroni) durante una lezione. La missiva viene raccolta da Sara (Eleonora Giorgi), compagna di studi del giovane, che finisce per appassionarsi alla vicenda al punto però da essere uccisa nel suo appartamento insieme a un conoscente (Gabriele Lavia) al quale aveva chiesto protezione. Mark arriva a casa di Sara troppo tardi ma riesce a trovare alcuni frammenti della lettera di Rose che lo convincono definitivamente a raggiungere New York in cerca della sorella.

Dal mio, devo ammetterlo, piuttosto goffo tentativo di imbastire una breve sinossi di Inferno appare evidente come questi rifiuti categoricamente e fin dalla sua prima sequenza ogni pretesa di narrazione forte e di aderenza alla verosimiglianza. Se già Suspiria rappresentava una inesorabile discesa dal reale verso il sogno, o meglio l'incubo, con l'irrompere di elementi fantastici in un contesto verosimile fino a prendere il sopravvento nel suo seguito Argento abbandona definitivamente la forma narratologica classica per imbastire un percorso onirico, metaforico, ricco di suggestioni simboliche che appartengono prettamente al mondo della fiaba. Così come Cappuccetto Rosso o Hansel e Gretel, la coppia fratello/sorella formata da Rose e Mark compiono un percorso attraverso un luogo archetipico che li porta a discendere verso le viscere della Terra fino a dover affrontare un aguzzino proveniente da una dimensione altra rispetto a quella immanente, ovvero la Mater Tenebrarum e Varelli. Quest'ultimo in particolare assume il ruolo di vero demiurgo non solo di tutto ciò che accade su schermo ma persino degli ambienti nei quali si svolge l'azione, dei tempi e delle modalità della stessa, operando come un dio creatore o come un regista cinematografico. Dunque potremmo definire l'alchimista italiano un doppio dello stesso autore di Phenomena (1985), al quale lo accomuna la medesima passione per una ricerca e un lavoro creativo scevro dai vincoli imposti dai vincoli della logica e del metodo scientifico (spesso il cinema viene definito magia, proprio come molti caratteri magici sono presenti nell'alchimia), così come entrambi finiscono per dover subire in prima persona le conseguenze del loro operato, grandioso certamente ma anche doloroso (è importante ricordare quanto Argento sia stato preso di mira da attacchi moralisti per la violenza dei suoi film e anche le difficoltà vissute durante la produzione dello stesso Inferno).

Appurando la natura essenzialmente fiabesca e antirazionale della pellicola in analisi non solo perde ogni senso una critica verso le presunte incongruenze lamentate da molti detrattori ma soprattutto assume un valore tutt'altro che inutilmente virtuosistico l'enorme lavoro visuale svolto dall'autore, coadiuvato in alcune sequenze persino dal maestro Mario Bava per la creazione di alcuni effetti ottici. Proprio le influenze del regista di Terrore nello spazio (1965) risultano evidentissime nel ricorso a soluzioni cromatiche e luministiche assolutamente antinaturalistiche (si pensi alla presenza fortissima del rosso e del verde) e Argento le utilizza con grande padronanza della messinscena per evidenziare la discesa verso gli inferi operata soprattutto da Rose in una delle primissime sequenze, dato che i medesimi colori erano stati utilizzati da Bava nell'atipico peplum Ercole al centro della Terra per il viaggio nell'oltretomba del protagonista. Persino i momenti maggiormente assimilabili all'iperrealismo visivo dei gialli girati dal cineasta romano a inizio carriera presenti nel film vengono sempre traslati, privati di ogni aderenza al reale tramite inquadrature ardite come soggettive impossibili o raccordi altrettanto liberi dai vincoli di leggibilità imposti dalla grammatica classica. Molti definiscono questo linguaggio estetico barocco nella sua accezione volgarizzante di preminenza della forma sulla sostanza ma credo che nel lungometraggio il vero spirito barocco sia designato dalla vertigine di simboli e immagini provenienti dalla vastissima conoscenza del suo autore/demiurgo, alchimista capace di plasmare un piccolo universo di straripante inventiva libera dalle catene delle proporzioni di gusto classico.
Inferno è dunque l'apoteosi, la deflagrazione pura e incontrastata dell'intero mondo chiamato Dario Argento, per la gioia di chi ama il suo cinema o semplicemente la settima arte più immaginifica e per il rammarico e la noia di chi cerca un racconto forte.

mercoledì 19 dicembre 2018

A' L'INTERIEUR: UN INCUBO CHIAMATO VIOLAZIONE

Agli albori del terzo millennio, nel pieno del successo planetario di film ricchi di momenti di violenza esplicita quali Saw (James Wan, 2004) e Hostel (Eli Roth, 2005), anche il vecchio continente viene invaso da una orda di prodotti ancora più eterogenei ma comunque accomunati dalla medesima volontà di non nascondere nel fuori campo, come accadeva nella tragedia attica, le sevizie più efferate. All'interno di questo fenomeno europeo (e in realtà anche asiatico) spicca per qualità e quantità l'apporto della Francia, tanto da aver portato all'identificazione di una sorta di Nouvelle Vague del cinema estremo transalpino definita New French Extremity, etichetta in realtà piuttosto vaga ma adoperata con molto successo sia in ambito accademico che cinefilo. Tra le pellicole più note a essere stata appaiata a questa "definizione" vi è certamente A' L'interieur, opera prima della coppia di registi e sceneggiatori Alexandre Bustillo e Julien Maury risalente al 2007 ma arrivata solamente nel 2018 in Italia, ovviamente soltanto in home video. Il film, oltre ad aver goduto di un notevole successo commerciale a dispetto della sua natura indipendente, è tra i pochi esempi di tale ondata di cinema estremo francese ad aver convinto gran parte della critica mondiale, permettendo ai due autori di dirigere negli Stati Uniti Leatherface (2017).

Protagonista dei circa ottanta minuti del lungometraggio è la fotografa Sarah, reduce da un incidente automobilistico nel quale ha perso la vita il fidanzato ma da quale è riuscito miracolosamente a sopravvivere il bambino che porta nel suo grembo. Arrivata ormai alle soglie del parto la donna pare non riuscire a superare il trauma subito e nonostante sia arrivato anche il Natale allontana tutte le persone che le vogliono bene per poter restare sola in casa. Durante la notte riceve la visita di una donna misteriosa che conosce il suo passato. Inizialmente l'ospite indesiderato viene apparentemente messo in fuga dall'arrivo della polizia ma successivamente si introduce in casa e tenta di aprire il ventre di Sarah con delle forbici. La reporter riesce a salvarsi miracolosamente barricandosi in bagno ma non è che l'inizio di un vero e proprio assedio.

Stando alle parole dei due registi i principali riferimenti per la realizzazione di A' L'interieur sarebbero stati Dario Argento e John Carpenter e mai come in questo caso si può davvero credere alle dichiarazioni degli autori: il film non solo cita esplicitamente Phenomena (Dario Argento, 1985) e Halloween - La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, 1978) tra i tanti ma unisce la visionarietà e la dimensione fiabesca tipica del cineasta romano con l'ossessione di Carpenter per l'home invasion e il cinema d'assedio in generale, le cui regole di matrice classica vengono rilette dalla sensibilità tutta europea e contemporanea dei due registi, i cui sottotesti politici certamente non dispiacerebbero all'autore di La cosa (The Thing, 1982). Certamente la profonda conoscenza di questo filone dell'horror permette a Bustillo e Maury di tessere un percorso in cui la tensione cresce costantemente e lo spettatore viene coinvolto emotivamente dalla lotta per la sopravvivenza di Sarah, così come la scelta di mostrare all'interno del profilmico atti di violenza particolarmente efferati riesce con efficacia a colpire gli stomaci degli spettatori ma vi è un elemento che, quasi sullo sfondo, permea lungo tutta la sua durata la pellicola, ossia i costanti riferimenti alle sommosse nelle banlieue parigine. Come una sorta di basso continuo rimbalzano da apparecchi televisivi, dalla radio o attraverso le parole dei personaggi notizie circa le esplosioni di rivolta negli ormai archetipici quartieri popolari della capitale transalpina, abitato in maggioranza da immigrati africani o francesi di seconda e terza generazione in condizioni completamente opposte rispetto all'opulenza e alla bellezza architettonica del centro città. Autori come Mathieu Kassovitz, Luc Besson e molti dei registi che quest'ultimo ha lanciato attraverso la sua casa di produzione EuropaCorp hanno reso nel corso degli anni le banlieue un'ambientazione cinematografica immediatamente riconoscibile e connotata di caratteristiche ben definite, alla stregua del deserto nei western di John Ford o della Boston nei crime movie contemporanei, ma ciò che realmente interessa alla coppia di cineasti in questione è proprio il collegamento diretto tra questi sobborghi e la condizione di ghettizzazione delle minoranze etniche, costrette a sopportare una ormai atavica subordinazione rispetto alla Parigi dei quartieri storici e dunque portate quasi naturalmente a delle esplosioni di violenza come atto di ribellione. Anticipando di qualche anno l'attuale clima di sospetto nei confronti dello straniero, in parte acutizzato dalle massicce ondate migratorie provenienti dall'Africa, Bustillo e Maury individuano proprio in questo sentimento la vera origine della segregazione di questi sfortunati quartieri della capitale, a loro volta vera e propria sineddoche della condizione vissuta da tutti i migranti emarginati.
A' l'interieur si prospetta dunque come un incubo, un discesa attraverso un oscuro mondo onirico che utilizza la terribile vicenda vissuta da Sarah come simbolo degli orrori che scaturiscono dalla sensazione di vedere violati i propri spazi più privati e invalicabili: la casa, luogo in cui nasce e si aggrega il nucleo familiare, così come la propria nazione e infine il grembo materno, l'ambiente nel quale ha origine il miracolo della vita e trovandosi all'interno del corpo della donna risulta il più grande taboo per qualsiasi intervento esterno, specie per una società come quella occidentale nella quale risultano ancora ben evidenti le conseguenze antropologiche e culturali delle radici cristiane e del fortissimo culto della sacralità della gravidanza tramite la figura della Madonna. Proprio per poter rappresentare a pieno la rottura di quei vincoli percepiti come ontologicamente invalicabili i due cineasti scelgono di spezzare anche i taboo relativi al visibile mostrando senza alcuna esitazione momenti molto crudi. Questo non si traduce mai in una esibizione pornografica, di puro godimento visuale, della violenza ma semplicemente amplifica con grande efficacia la paura incontrollata di un intero paese, come in fondo dimostra la maestria con la quale si muove la cinepresa, mai tremolante come in molto cinema horror contemporaneo e capace di rendere tangibile l'angoscia messa in scena attraverso una sapiente gestione dei chiaroscuri sia nelle inquadrature più brevi che negli eleganti piani sequenza.

Consigliare A' l'interieur a chiunque è certamente un compito arduo visto l'altissimo tasso di violenza grafica ma nel caso voi aveste uno stomaco abbastanza allenato o vogliate assistere a un film duro e raffinato al tempo stesso allora fa al caso vostro.

sabato 15 dicembre 2018

ALIEN: COVENANT: CREO ERGO SUM

All'interno dell'ampio panorama dell'orrore uno dei posti d'onore viene certamente presieduto dalla saga di Alien, generata dall'omonimo film diretto da Ridley Scott nel 1979 e proseguita tra gli anni Ottanta e Novanta con tre sequel, ognuno diretto da un autore diverso e dunque foriero delle particolari poetiche di cineasti ben riconoscibili quali James Cameron, David Fincher e Jean-Pierre Jeunet. Ha rappresentato dunque una piccola sorpresa il ritorno di Scott nel 2012 in seno all'universo che ne ha decretato la fama mondiale con il prequel Prometheus, primo tassello di una trilogia che nelle intenzioni del regista inglese dovrebbe riallacciarsi narrativamente proprio al primo capitolo del franchise. La pellicola che ho scelto di prendere in considerazione oggi rappresenta il seguito del lungometraggio con protagonista Noomi Rapace e si intitola Alien: Covenant, per la regia dello stesso Scott e arrivato in sala nel 2017. Proprio la scelta di inserire nel titolo la parola Alien, almeno a mio avviso, può essere considerata la fonte di aspettative enormi da parte dei fan, in perenne ricerca di una riproposizione il più possibile fedele dell'ormai classico orrore spaziale vissuto dall'equipaggio della Nostromo quasi quarant'anni fa e per questo delusi da un lavoro solo in parte debitore del cult del 1979. Certo non si può definire il film in analisi in tracollo economico e in fondo anche la critica lo ha in parzialmente premiato, eppure appaiono lontani i tempi della Alien-mania, così come gli incassi da più di mezzo miliardo di dollari di Prometheus.

Ambientata a dieci anni di distanza dal predecessore la pellicola segue la missione di colonizzazione di nuovi mondi da parte di un gruppo di umani all'interno del quale spiccano in particolare il cyborg Walter (Michael Fassbender), il credente Oram (Bill Crudup) e la tenace Daniels (Katherine Waterston). Durante il lungo viaggio verso un pianeta giudicato ideale per creare un insediamento l'ipersonno dell'equipaggio viene interrotto da una tempesta di neutrini che danneggia gravemente l'astronave e provoca la morte di Jacob Branson (James Franco), capitano della spedizione e compagno di Daniels. Il posto del defunto viene assunto da Oram, il quale decide di mettere temporaneamente da parte l'itinerario prestabilito per visitare un pianeta potenzialmente abitabile individuato tramite la ricezione di un segnale audio misterioso. Purtroppo il nuovo mondo, benché ricco di vegetazione, si rivela una trappola mortale per i protagonisti a causa della presenza di parassiti alieni e soprattutto di David (Michael Fassbender), l'intelligenza artificiale vista in Prometheus e vero artefice della diffusione degli xenomorfi sul luogo.

Come ho precedentemente accennato questo Alien: Covenant è sicuramente legato tematicamente e narrativamente al primo episodio della saga di Ellen Ripley, non manca di easter eggs o ammiccamenti (la sequenza nella capsula medica con l'apparizione dell'alieno dallo stomaco di una donna della squadra ne è un chiaro esempio) e recupera persino il tema musicale portante composto da Jerry Goldsmith nel 1979 ma aspettarsi da questi uno di quei sequel-remake tipici dell'horror è un grave errore. L'ultimo tassello del franchise appare quanto mai come una evoluzione orrorifica del suo predecessore del 2012 e in generale una sorta di sunto dell'intera filmografia di Scott, da Blade Runner (1982) sino al più recente Exodus - Dei e re (Exodus: Gods and Kings, 2014). L'incipit del lungometraggio, ambientato nel passato, mostra i primi istanti di vita di David attraverso un dialogo con il suo creatore, l'imprenditore Peter Weiland (Guy Pearce), ambientato in un diafano spazio che ricorda le immaginifiche stanze neoclassiche viste nella parte finale di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968). Il cyborg si mostra immediatamente incuriosito dal quesito per eccellenza, la domanda che imperversa l'esperienza umana fin dagli albori della civiltà: come siamo nati? Qualcuno ci ha creati? E se sì a quale scopo? Naturalmente l'intelligenza artificiale conosce bene l'identità del proprio fautore, così come sa di doverlo servire, ma non sa chi sia stato a creare il proprio genitore e soprattutto si chiede come mai debba asservirsi a una creatura evidentemente inferiore in termini sia fisici che intellettivi. Questa prima sequenza, in una manciata di minuti, espone l'intero sistema poetico che muove il cinema dell'autore de Il gladiatore (Gladiator, 2000). Le successive due ore di girato, la ricerca di una nuova casa, la lotta per la sopravvivenza e gli orrori celati dal misterioso pianeta un tempo abitato dagli Engineer non fanno che espandere e approfondire le stelle polari della ricerca filosofica di Scott attraverso le armi più congeniali della settima arte, la capacità di creare immagini e quella di smuovere intelletto e sentimenti degli spettatori tramite la sinergia tra le immagini stesse, le interpretazioni attoriche e una partitura musicale d'eccezione. I poli in questione possono essere chiaramente individuati nell'essenza dell'umanità, ossia ciò che contraddistingue l'uomo in quanto tale, e di conseguenza il suo rapporto con la vita di matrice artificiale. Per poter affrontare questioni di tale portata il cineasta britannico pone il suo sguardo principalmente su un solo personaggio, o meglio su di lui e sul suo doppio, ovvero David e Walter. I due androidi, interpretati con grande finezza nel determinarne le diversità tramite flebili sfumature mimiche e nel portamento, grazie al contrasto tra le sembianze fisiche identiche e l'opposta visione del proprio rapporto con gli uomini espandono e portano a compimento la riflessione avviata dall'autore in Blade Runner attraverso la dialettica Roy/Deckard affermando con decisione il vero carattere che distingue lo status di essere intelligente e civile, ossia la capacità di creare, di plasmare un qualsiasi prodotto tramite la propria inventiva. Parafrasando il celebre assunto cartesiano David arriva ad affermare che l'uomo, gli Engineer e lui stesso esistono in quanto esseri in grado non solo di pensare ma di creare qualcosa di nuovo e lo dimostra insegnando al suo simile a suonare e comporre un brano musicale con il flauto. Walter dapprima si mostra evidentemente affascinato dal carisma del suo predecessore, sebbene affermi che l'estrema umanità dimostrata da quel modello ne rappresentasse un difetto di fabbricazione eliminato negli esemplari successivi. Come nota David neanche il suo successore risulta del tutto privo di sentimenti date le attenzioni che ripone verso Daniels e dunque ciò che davvero distingue i due risiede in una questione di puro libero arbitrio: mentre Walter lascia intendere nel corso del film come sia una sua precisa volontà quella di difendere i suoi compagni umani, il suo doppelganger decide di propria iniziativa di utilizzare il dono della creatività per affermare la propria superiorità evolutiva rispetto all'uomo e punire la specie del suo altezzoso creatore dando vita a un'arma biologica generata unicamente per farla estinguere. Magistralmente Scott affida il dipanarsi di questo scontro etico/filosofico a tre sequenze ambientate tra le ombre taglienti della necropoli nella quale vive David, tra le quali spicca in particolare quella girata quasi completamente in piano sequenza in cui i due vengono inquadrati come due riflessi di uno specchio, annullando completamente le loro piccole differenze esteriori, trasformando così un dialogo in una sorta di soliloquio dello stesso cyborg a proposito della propria volontà di affrancarsi dalla schiavitù nei confronti dell'umanità tramite proprio la possibilità di creare, esattamente alla stregua di quanto fatto da artisti quali Richard Wagner e Percy Shelley, dei quali non a caso vengono a più riprese citati Ozymandias e l'Entrata degli dei nel Valhalla, opere esemplari circa il titanismo e la strenua lotta dell'individuo per sovrastare la massa fino a raggiungere lo stadio di divinità creatrice.

Alien: Covenant rappresenta in definitiva il culmine, almeno fino a oggi, di una riflessione iniziata circa quarant'anni fa da un artista britannico circa ciò che distingue l'uomo dal resto della natura e persino dalle proprie invenzioni, dalle straordinarie macchine che è in grado di creare. Macchine così raffinate da finire per divenire persino più umani degli uomini stessi, come Roy Batty e David, a tal punto umani da scegliere di regnare all'inferno piuttosto che servire in paradiso, parafrasando uno dei versi più celebri del Paradiso perduto di John Milton, il cui Lucifero diviene la vera matrice della ribellione dell'intelligenza artificiale impersonata da Fassbender.

martedì 20 novembre 2018

HARD BOILED: IL CULMINE DEL CINEMA DI JOHN WOO PRE-HOLLYWOOD

Per più di un decennio, tra la seconda metà degli anni Ottanta e la fine del millennio, il cinema action ha trovato la sua incarnazione più pura, capace di mettere d'accordo ogni tipo di spettatore e in qualsiasi parte del globo, in John Woo, autore di Hong Kong il cui linguaggio è ancora oggi ben radicato all'interno della stragrande maggioranza delle pellicole d'azione. La carriera di questo celebre regista potrebbe essere suddivisa in almeno tre macrosequenze, legate principalmente alle realtà produttive nelle quali si è trovato a lavorare: in particolare mi riferisco al trasferimento dalla madrepatria a Hollywood negli anni Novanta e il successivo ritorno a casa dopo sei lungometraggi americani. Oggi ho deciso di proporre all'attenzione l'ultimo film girato nell'ex colonia britannica prima del grande salto negli USA, Hard Boiled, diretto nel 1992 con buon successo in patria, anche se inferiore rispetto alle previsioni, ma soprattutto un vero e proprio boom in Occidente, dove riesce persino a surclassare il mito creatosi attorno a The Killer (1989).

Come in molti dei film di Woo protagonista è l'attore Chow Yun-Fat, stavolta nei panni non di un fuorilegge ma di un integerrimo sergente di polizia, Yuen detto Tequila, invischiato in un caso di contrabbando di armi. Nel tentativo di smascherare i propri bersagli l'uomo origina una sparatoria all'interno di una sala da tè con l'unico risultato di provocare la morte del suo collega e amico Benny insieme a quella di un infiltrato. Mentre il superiore del poliziotto tenta, invano, di allontanarlo dalla vicenda questi tenta di sorprendere i criminali all'interno di una fabbrica nella quale Johnny Wong (Anthony Wong), principale rivenditore clandestino di armi della città, ha appena eliminato la banda di zio Hoi. Nell'occasione Yuen si trova faccia a faccia con Alan (Tony Leung), astro nascente del crimine che si rivela in realtà un altro agente infiltrato nella malavita. I due si troveranno a dover collaborare per porre fine alle trame di Wong.

Quasi come a voler presagire il suo imminente spostamento verso una realtà produttiva e artistica completamente diversa rispetto a quella nella quale si è formato, John Woo crea attraverso Hard Boiled una sorta di summa del proprio percorso cinematografico, specie per quanto concerne quel periodo d'oro iniziato con A Better Tomorrow (1986). La scelta di porre sotto i riflettori un tutore della legge al posto di un criminale non modifica né la forma, né la poetica del regista, dimostrando ancora una volta come il confine etico tra i due fronti sia in realtà molto sottile, specie in frangenti di guerriglia urbana come le sparatorie tanto care a quest'ultimo. Proprio come nei precedenti lungometraggi non mancano i marchi di fabbrica dell'autore originario di Hong Kong, in primis i celeberrimi ralenti che, abbinati a un sapiente utilizzo del montaggio, conferiscono all'azione messa in scena un'essenza musicale, ritmica che le accomuna più a delle danze, delle coreografie rispetto a delle brutali uccisioni a suon di proiettili. Persino la completamente irrealistica onnipresenza delle stesse pallottole assume un ruolo chiave nel marcare la natura rarefatta, poetica delle sequenza action di Woo, in contrapposizione al tradizionale linguaggio in prosa del genere e del cinema narrativo classico in toto. Per il cineasta asiatico il racconto sembra dipanarsi maggiormente tra le traiettorie, i voli e il ritmo scandito dagli stacchi di montaggio delle suddette, lunghissime rappresaglie a suon di pistole e fucili che non nei dialoghi, i quali finiscono per divenire strumenti didascalici atti solamente a ribadire per l'ennesima volta ciò che già viene affermato con chiarezza dalla cinepresa, dalle armi da fuoco e dai corpi. Una impostazione narratologica dunque ben più affine a realtà teatrali quali l'intermezzo o la pantomima che non al romanzo, fonte di ispirazione principale per la narrazione del cinema classico, distaccandosi in tal senso dalla tradizione del proprio genere e non solo.
Persino dal punto di vista della poetica Woo resta ancora una volta fedele a se stesso e quindi unico all'interno degli schemi della classicità: l'amore tra il protagonista e la sua donna, elemento cardine della narrazione hollywoodiana, viene messo in secondo piano, quasi accennato solamente come specchietto per le allodole o per evitare interpretazioni omoerotiche, in luogo di un'analisi fortemente emotiva dell'amicizia virile, del legame che unisce due uomini all'interno di ambienti estremamente codificati dall'esaltazione del testosterone e dalla rimozione forzata degli slanci affettivi. Tequila e Alan non rappresentano solamente luci e ombre del mestiere del poliziotto, perennemente in bilico tra bene e male, ma anche due uomini profondamente soli, estranei a milieu che gli tarpano le ali e li costringono a condurre vite miserabili, sempre a rischio e nelle quali è impossibile intravedere una luce (proprio ciò che afferma di sognare il personaggio di Tony Leung). Diventa dunque evidente come l'intera trama a sfondo criminale e persino l'efficace analisi del dramma vissuto da tutti gli agenti sotto copertura non siano altro che traiettorie, variazioni utili al destino per poter mettere in contatto queste due esistenze tanto diverse quanto simili; un uomo e il suo riflesso in uno specchio costituito dal modo in cui affronta la realtà di tutore della legge (uno sfrontatamente, alla luce del sole, mentre l'altro nel buio, nascosto dietro infinite maschere). Il doppio, quella figura tanto cara a Hitchcock, De Palma ma anche allo stesso Woo, affascinato da esso dai tempi di The Killer a tal punto da girare negli Stati Uniti un'opera seminale in tal senso, Face/Off (1997).

Per quanto sembri paradossale per chiunque non mastichi la filmografia di questo autore o abbia delle riserve sul cinema action in genere, Hard Boiled rappresenta un abisso gnoseologico e linguistico circa le possibilità espressive e formali offerte dalla padronanza dei canoni, dalla capacità di ribaltarli e dalla visionarietà di un regista. Se si dovesse sintetizzare in circa due ore il John Woo pre-Hollywood direi che sarebbe piuttosto esaustiva la visione di questo film.

giovedì 15 novembre 2018

DEATH NOTE: LA CRISI DELL'UOMO CONTEMPORANEO NELLA SERIALITÀ ANIMATA

Fino a oggi mi sono sempre occupato solamente di lungometraggi, con l'unica eccezione rappresentata dalle prime due stagioni di Daredevil (Drew Goddard, 2015-), eppure adesso mi preme porre l'accento per la prima volta su un prodotto seriale animato, per la precisione uno degli anime giapponesi più noti anche in Europa: Death Note (2006-2007). Diretto da Tetsuro Araki questo adattamento del celebre manga omonimo (2003-2006) ideato da Tsugumi Oba e illustrato da Takeshi Obata rappresenta per me un ottimo banco di prova con questo tipo di produzioni (solamente nella mia tesi magistrale ho avuto l'occasione di analizzare numerose serie animate, anche se in quel caso di origine statunitense) ma soprattutto un'opera che dopo più di dieci anni dalla sua prima, trionfale messa in onda diventa sempre più attuale.

Protagonista dei trentasette episodi che costituiscono il serial è Light Yagami, studente modello nipponico dotato di un acume tale da aver aiutato più volte la polizia, all'interno della quale svolge un ruolo di rilievo suo padre, a risolvere casi intricati. La monotonia della quotidianità del ragazzo viene spezzata dal ritrovamento, apparentemente casuale, di un quaderno chiamato Death Note: una volta raccolto il giovane ne diventa proprietario e così conosce Ryuk, uno shinigami (divinità della morte) che ha lasciato cadere il suddetto quaderno sulla Terra. Questi spiega al giovane che l'oggetto rappresenta lo strumento tramite il quale i suoi simili possono uccidere gli esseri umani semplicemente scrivendovi il nome, a patto di conoscerne anche il viso. Ryuk spiega al nuovo possessore del Death Note le regole principali del suo utilizzo e Light decide di sua iniziativa di farne un uso tutt'altro che banale, ossia di renderlo lo strumento per cambiare il mondo uccidendo tutti i criminali del mondo. L'escalation di morti di questo tipo di persone finisce per preoccupare le autorità di tutto il globo, a tal punto da costringerle ad affidarsi a un misterioso investigatore del quale nessuno conosce la vera identità ma soltanto il nickname Elle. Questi si rende conto immediatamente che dietro alle uccisioni si cela una sola, diabolica mente e arriva addirittura a sospettare velocemente proprio di Light dando inizio a un'estenuante gara di astuzia tra i due.

Sebbene sia evidentemente distante dagli standard di longevità di gran parte delle più note serie animate nipponiche Death Note consta di una impronta narratologica molto forte e dunque soffermarsi oltre sul dipanarsi del racconto in esso messo in scena rischia di corrompere irrimediabilmente una eventuale prima visione, proprio come nei migliori thriller. Tra le numerose false piste, divagazioni e storie secondarie allestite in sede di sceneggiatura è certamente lo scontro, in certi momenti addirittura fisico, tra Light ed Elle il cuore dell'anime. Nonostante si trovino, specie inizialmente, su due versanti opposti è evidente l'ambiguità relativa alle presunte differenze che renderebbero il primo un criminale e l'altro un paladino della giustizia: entrambi agiscono spinti principalmente dal perseguimento di un proprio concetto di giustizia, sia l'uno che l'altro perseguono la caccia al nemico con metodi che sfociano quasi sempre nell'illegalità e forti di personalità estremamente peculiari finiscono per creare dei solchi di solitudine tracciati dalla diffidenza nei loro riguardi da parte anche delle persone più vicine. Non è un caso che questa coppia di nemici finisca con il collaborare in nome di una caccia al colpevole che assume connotati mitologici, simili alla lotta contro il male dei protagonisti di Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker's Dracula, Francis Ford Coppola, 1992); una crociata tanto estenuante da costringere che si ritiene dalla parte del bene a perdere quasi ogni certezza etica. Esemplare di tale esiguità nella distinzione tra giusto e sbagliato è proprio la scelta di rendere protagonista delle vicende narrate Yagami, un ragazzo in piena fase di maturazione che, soggiogato dall'enorme potere ricevuto, finisce per crescere divenendo un adulto completamente avulso ai legami e ai sentimenti umani, sprezzante dei vincoli della società umana a tal punto da ritenersi un dio, un essere al di sopra dei concetti mortali di morale e asservito solamente a un cocktail di giustizia integralista ed edonistica volontà di affermare la propria intelligenza su quella degli altri uomini. Light appare una personificazione esemplare di una lettura apocalittica dei concetti di oltreuomo e volontà di potenza nietzschiani, specie per quanto concerne proprio l'indifferenza verso i limiti sociali e morali di quell'essere umano nel quale ormai non si riconosce più.

A ben vedere anche Elle si dimostra tenacemente avulso all'assetto socio-politico umano: non rivela la propria identità, vive in una sorta di isolamento autoimposto che lo esclude da ogni gruppo umano e intrattiene legami con il prossimo puramente formali o di convenienza per la risoluzione del rompicapo Kira, provocando in tal mondo l'incredulità o addirittura l'indignazione degli altri addetti alla cattura del killer di criminali. Il protagonista e il suo rivale costituiscono dunque due facce della medesima moneta, due esistenze profondamente sole e incapaci di trovare una definizione certa della propria essenza, perennemente in bilico tra l'umano e l'oltreuomo. Una declinazione simbolica e corporea di quella frammentazione dell'io che costituisce la condizione esistenziale tipica dell'uomo contemporaneo, la stessa portata sul grande schermo con straordinaria capacità immaginifica ed epistemologica da cineasti quali Christopher Nolan, David Fincher e soprattutto Michael Mann, la cui filmografia risulta costantemente incentrata proprio sul tema del doppio e che nel 1995 aveva diretto Heat - La sfida (Heat), apoteosi di tale riflessione resa concreta, palpabile dallo scontro tra Robert De Niro e Al Pacino, i cui personaggi (un ladro e un poliziotto) non possono non essere considerati precursori della coppia nata dalla mente di Oba. L'incontro in un ristorante trasformatosi in una vera e propria battaglia di intelletti tra Light ed Elle ricorda fin troppo l'indimenticabile e unica sequenza nella quale i due rivali della pellicola citata si incontrano, proprio al tavolo di un ristorante. La successiva introduzione dei due sostituti del singolare detective, Near e Mello, non fa che aumentare il gioco dei doppi e dunque confermare l'importanza della scissione identitaria del soggetto all'interno del mondo contemporaneo, incapace ormai di poter offrire agli spettatori persino semplici esempi di eroe e antagonista da cinema classico.

Forte di una complessa riflessione sulla natura dell'uomo in un contesto cronologico e sociale come quello attuale, sul concetto morale di giustizia in tempi tanto ambigui, tanto tumultuosi da decretare il successo politico e personale di figure per certi versi non troppo distanti dalle idee di Kira, Death Note rappresenta un'opera di particolare fascino all'interno dell'universo degli anime, anche in virtù di una impostazione formale decisamente debitrice del linguaggio cinematografico, come dimostrano le potentissime sequenze musicali nelle quali Light decreta la morte del prossimo con una gestualità da direttore d'orchestra, in sincrono perfetto con le straordinarie composizioni originali di Yoshihisa Hirano e Hideki Taniuchi, così come gli split screen in pieno stile Brian De Palma in alcuni dei momenti più tesi dello scontro Kira-Elle.

 

mercoledì 14 novembre 2018

GOODBYE DRAGON INN: UN COMMIATO AL NOVECENTO

Alle soglie del terzo millennio, per la precisione nel 2003, il taiwanese Tsai Ming-liang, attivo dai primi anni '90, realizza una vera e propria lettera d'addio a modo di intendere il cinema prettamente novecentesco e analogico, come se fosse già pienamente consapevole di trovarsi all'interno di una rivoluzione in divenire ma ormai scoppiata. Goodbye Dragon Inn, questo il titolo della pellicola, ottiene immediati consensi da parte della critica, venendo peraltro premiato anche al Festival di Venezia, eppure ancora oggi non gode di una distribuzione italiana ufficiale e per questo resta un prodotto estremamente di nicchia persino per gli appassionati della settima arte di matrice asiatica o comunque d'essai.

Come da tradizione per l'autore di Che ora è laggiù? (2001) l'esile traccia narrativa del film si riduce a una sorta di affresco che immortala le ultime ore di vita del cinema Good Fortune di Taipei, all'interno del quale viene scelta come ultima pellicola da proiettare il classico wuxia Dragon Inn (1967) di King Hu. Privo di un vero protagonista il racconto segue i non molti spettatori di questo ultimo spettacolo mentre vagano per l'edificio ormai in malora, qualcuno alla ricerca di prestazioni sessuali omoerotiche mentre addirittura due degli interpreti del film in programmazione assistono con nostalgia a quel loro glorioso passato.

Certamente apprestarsi alla visione di Goodbye Dragon Inn con l'aspettativa di trovarsi dinanzi a una narrazione di matrice classica, ossia rintracciabile nella costruzione tipica del romanzo ottocentesco, significa ritrovarsi estremamente spiazzati poiché di tutto ciò non vi è traccia in tutta la filmografia di Tsai e quest'opera non costituisce un'eccezione. Ciò a cui assiste lo spettatore è a tutti gli effetti un commiato nei confronti del secolo scorso e in particolare della sua concezione della settima arte attraverso un impianto formale costituito da una sequela di piani sequenza molto lunghi, spesso sconnessi da un punto di vista meramente cronologico, e privi quasi completamente di commenti musicali o dialoghi. Se proprio possiamo rintracciare una colonna sonora (badate bene che per colonna sonora si intende l'intero comparto audio del film e non soltanto la parte musicale) che possa tendere a una colonna musica allora questa sarebbe costituita dai dialoghi e dai brani provenienti da Dragon Inn, inseriti all'interno della pellicola a un volume solitamente riservato alle parole proferite dai personaggi principali della diegesi proprio per fare del lungometraggio proiettato uno dei personaggi stessi che popolano il Good Fortune. Proprio la sala viene messa in scena dal regista come un rudere, un edificio fatiscente che, anche grazie a un sapiente utilizzo dell'oscurità, ricorda le case infestate tipiche degli horror gotici e così i suoi frequentatori, sempre silenziosi, in movimento da una stanza all'altra quasi senza una meta o un vero scopo, assumono la sostanza di spettri, entità fantasmatiche che abitano un luogo in cui ormai la vita è assente. Non vi è più vita in questa sala cinematografica non perché sia davvero soggetta a una maledizione ma semplicemente perché l'idea stessa di visione dei film davanti a un grande schermo, insieme a centinaia di altre persone, pertiene a un secolo ormai concluso. La visione collettiva secondo Tsai è defunta insieme al Novecento per lasciare spazio ad altre forme di consumo del prodotto filmico, quasi ad anticipare l'attuale proliferazione dei dispositivi mobili come tablet e smartphone sui quali una larghissima fetta dell'utenza tende a godere del cinema, privandosi e privando la stessa settima arte di quelle modalità che un tempo erano insite nell'esperienza del cinematografo.

Come una vera profezia Goodbye Good Inn anticipa la deriva attuale di quello che molti studiosi chiamano cinema 2.0 o postcinema, ossia quella condizione per la quale l'esperienza della visione dei film oggi prescinde dalla originaria essenza collettiva all'interno di un edificio specificatamente adibito a questa funzione in favore di un rapporto singolare dello spettatore con l'opera cinematografica che può avvenire in qualsiasi luogo, grazie ai dispositivi portatili di ultima generazione e alla digitalizzazione delle pellicole stesse. Una riflessione portata avanti da un lungometraggio di raro rigore formale del 2003, ancora prima che un pioniere quale Michael Mann mostrasse come si potesse lavorare a Hollywood senza il vecchio simbolo della tecnologia analogica, la celluloide

venerdì 9 novembre 2018

SHAME: LA VERGOGNA DEL VUOTO NELLE IMMAGINI CONTEMPORANEE

Se oggi Michael Fassbender è un divo riconosciuto in tutto il mondo, amato sia dalle donne che dagli uomini, lo deve certamente a blockbuster come la saga degli X-Men o alla folgorante apparizione in Bastardi senza gloria (Inglorious Basterds, Quentin Tarantino, 2009) ma il suo talento trova una vera consacrazione internazionale nel 2011 con Shame, seconda opera dell'artista Steve McQueen con il quale aveva già collaborato per Hunger (2008). Nonostante il contenuto controverso e soprattutto le continue scene di nudo, persino integrali, il film si guadagna immediatamente il plauso della critica e un seguito da cult movie tra il pubblico, rendendo l'attore la star che tutti conosciamo e il regista inglese uno dei più apprezzati a livello mondiale.

La pellicola segue l'inesorabile decadimento di Brandon (Michael Fassbender), impiegato di successo in un'azienda di New York che dietro un'apparente esistenza invidiabile, scandita da una routine quasi robotica, nasconde una dipendenza incontrollabile verso il sesso, la masturbazione e la pornografia. Nella sua vita non c'è spazio per affetti o relazioni reali, solo momentanei incontri carnali e autoerotismo spinto verso perversioni sempre più estreme. Il flebile equilibrio dell'uomo viene definitivamente incrinato dall'arrivo a casa sua della sorella Sissy (Carey Mulligan), cantante evidentemente afflitta da una depressione accentuata dalla freddezza del fratello.

Più che il sesso, il cuore, la parola chiave della seconda opera di McQueen è "pornografia". Shame non racconta il rapporto di un uomo con il sesso o la ricerca di sempre nuovi piaceri; certo tutto questo trova un suo importante spazio ma ciò che il regista mostra (sottolineo mostra, verbo fondamentale all'interno del film) è l'inesorabile trasformazione di ogni soggetto in oggetto, in feticcio da acquistare senza difficoltà, consumare e gettare via dopo l'uso. Brandon è un uomo profondamente solo, ne è consapevole e dai litigi con la sorella si capisce come nel passato dei due qualcosa li abbia portati a una condizione emozionale gravemente deficitaria, così pur di evitare di scontrarsi con una sofferenza profonda al suo interno non può fare altro che affogare in una spirale di continua gratificazione erotica di donne-oggetti (a un certo punto persino un uomo) con le quali non ha mai veri rapporti sessuali. Non vi è complicità con questi partner occasionali, non sono visti dal protagonista come esseri umani e dunque rappresentano solamente l'ennesimo momento di masturbazione, non dissimile dalle quotidiane "sedute" nei bagni di casa o dell'ufficio. Il cineasta inglese sottolinea proprio la mancanza di umanità, la dimensione feticistica e consumistica della sessualità di Brandon e della sua intera esistenza con un ricorso continuo a piani sequenza estremamente distaccati emotivamente dal contenuto delle immagini, quasi a ricreare l'assenza di montaggio tipica della pornografia a basso costo, nelle quali domina la composizione il corpo di Fassbender, perennemente in scena e a fuoco mentre tutto il resto diventa solo uno sfondo opaco. Esattamente come nella visione edonistica del personaggio la macchina da presa sembra percepire soltanto la statuaria fisicità dell'uomo, tanto da mostrare allo spettatore senza alcuna remora persino il membro per diversi secondi, ma l'entrata in scena di Sissy, l'unico reale affetto di Brandon, rivela con evidenza le fragilità del protagonista e l'autore di 12 anni schiavo (12 Year Slave, 2013) lo mette in risalto attraverso un magistrale ricorso a superfici riflettenti che mostrano chiaramente il suo 'io frammentato, la sua vergogna. La vergogna proprio nei confronti di una esistenza fatta solo di superfici, di oggetti e sensazioni effimere per mascherare un vuoto incolmabile di legami, sentimenti, umanità. La vergogna per una contemporaneità così indissolubilmente legata a una filosofia pornografica che consuma persino chi all'apparenza risulta un vincente, uno "responsabile" come si definisce con finta fierezza Brandon per denigrare l'emotivamente instabile sorella.

Dietro la tematica controversa e quasi pornografica di per sé per una società superficialmente così puritana Shame nasconde dunque un ritratto devastante dell'uomo contemporaneo, prigioniero in una gabbia le cui sbarre sono le infinite immagini scevre di significante delle quali si circonda.

lunedì 5 novembre 2018

VIOLENT COP: IL NICHILISTICO ESORDIO ALLA REGIA DI UN COMICO

Da circa venti anni Takeshi Kitano, noto anche come Beat Takeshi, è considerato uno dei più importanti autori del cinema giapponese, amato da molti cinefili europei e presenza fissa ai festival più prestigiosi; eppure la sua carriera artistica comincia come attore prettamente comico e showman televisivo di grande successo in patria per produzioni demenziali. Soltanto nel 1989 e in fondo per una circostanza imprevista (l'abbandono di Kinji Fukasaku) il futuro cineasta esordisce dietro la macchina da presa per un film del quale avrebbe dovuto "solo" interpretare il protagonista: Violent Cop. Una pellicola agli antipodi rispetto all'immagine televisiva scanzonata del suo autore che riscuote buoni incassi e critiche favorevoli ma che soprattutto permette al mondo di far conoscere un nuovo Kitano, meno Beat e consapevole di avere talento tanto davanti quanto dietro la macchina da presa.

Azuma (Takeshi Kitano), protagonista assoluto del film, è un poliziotto di lungo corso, tra i pochi a non farsi corrompere dalla malavita locale ma anche un uomo estremamente violento, pronto a usare qualsiasi mezzo pur di punire i criminali e dedito a vizi tutt'altro che eroici. Dopo aver riportato a casa sua sorella da un ricovero per disordini mentali si trova invischiato in un caso di droga nel quale scopre avere un ruolo molto importante un suo collega e un potente boss, reso inarrivabile o quasi dalla protezione di un sicario chiamato Kiyohiro.

Non è esattamente il tipo di lungometraggio che chiunque avesse conosciuto Kitano con programmi televisivi come Takeshi's Castle si sarebbe aspettato questo Violent Cop, specialmente considerando che è stato proprio quest'ultimo a modificarne la sceneggiatura per eliminare gran parte dei momenti comici inizialmente previsti. L'esordio alla regia dello showman nipponico recupera e adatta alla propria sensibilità e all'ambientazione locale la rivisitazione che la Hollywood Reinassance aveva riserbato al poliziesco e al noir: mi riferisco in particolare al lavoro svolto da Don Siegel con Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, 1971), vero e proprio creatore di un tipo di neo-noir in cui il protagonista è un poliziotto che piega al suo volere la legge pur di farla rispettare. Azuma, proprio come l'iconico personaggio interpretato da Clint Eastwood, si avvicina molto più al concetto di giustiziere rispetto a quello di agente delle forze dell'ordine, ossia di un uomo che in solitaria combatte il crimine utilizzando i suoi stessi metodi poiché si rende conto di lottare contro nemici che non rispettano alcuna remora etica e che riescono a infettare persino le istituzioni con i loro infiniti tentacoli. L'atteggiamento violento e anarchico dell'agente dal volto monolitico di Kitano assume dunque l'aspetto di una diretta conseguenza della milieu nella quale è costretto a vivere, fin troppo corrotta per poter pretendere che la polizia rispetti le regole, ma è anche evidente come l'uomo provi un personale piacere sadico nel ritorcere verso assassini, stupratori e spacciatori i loro stessi metodi violenti. Il mondo ripreso dall'autore giapponese appare completamente privo di luce, completamente invischiato in un'oscurità impenetrabile nella quale persino le uniche due figure (apparentemente) innocenti finiscono per subire un destino degno della grande tragedia attica (la sorella di Azuma) o per rivelarsi in realtà i più corrotti (il collega del protagonista che si finge ingenuo e idealista per l'intero corso del film).

A una costruzione narrativa e poetica tanto coraggiosa quanto nichilista Beat Takeshi abbina una ricerca estetica altrettanto personale. Fin dalla sequenza di apertura il regista mostra quanto sia importante nella sua cifra stilistica il piano sequenza, la dilatazione temporale delle inquadrature che, coadiuvata da una ben calcolata povertà di commento musicale, crea un effetto straniante nello spettatore adatto ad amplificare la natura perturbante della storia messa in scena. Violent Cop non spettacolarizza l'azione fino a renderla assimilabile alla danza come John Woo perché non esiste morale o empatia nel suo universo. Il male ripreso dall'autore nipponico è banale, squallido e privo di qualunque fascino e per questo sceglie di portarlo sul grande schermo con movimenti di macchina minimi, persino in scene estremamente cinetiche come l'inseguimento a piedi e in auto tra le strette vie della città. L'unica eccezione a questo assetto linguistico rigoroso risiede, non a caso, nell'involontaria uccisione di una ragazza durante lo scontro tra Azuma e Kiyohiro, un momento di una tale oscurità e violenza grafica da riassumere in sé l'intero universo tenebroso della pellicola e i primi tratti distintivi di un autore in divenire.

giovedì 1 novembre 2018

SINISTER 2: IL DIABOLICO VIZIO DELL'ESPLICITAZIONE

Nel 2012 Scott Derrickson aveva mostrato attraverso il suo Sinister quanto l'horror a stelle e strisce fosse ancora vivo, libero dall'overdose di remake dell'inizio del terzo millennio e capace di leggere le derive contemporanee della settima arte e del complesso rapporto tra spettatori e immagini. Un film del quale ancora non viene riconosciuto il pieno potenziale ma che aveva comunque incassato molto bene al box office, permettendo al suo regista di entrare nelle grazie dei Marvel Studios. Ovviamente un successo del genere non poteva non stuzzicare l'interesse del produttore Jason Blum verso un seguito e così nel 2015 è giunto nelle sale Sinister 2, co-scritto ancora una volta dall'autore di Doctor Strange (2016) ma diretto da Ciaran Foy. A differenza del suo predecessore il lungometraggio ottiene discreti incassi al botteghino ma viene demolito dalla critica in tutto il globo, probabilmente anche per le alte aspettative dovute ai risultati sorprendenti della pellicola con protagonista Ethan Hawke.

Ambientato cronologicamente in un periodo non troppo futuro rispetto al prequel il film promuove al ruolo principale il personaggio del vicesceriffo anonimo (James Ransone) che aveva tentato di aiutare il romanziere Ellison Oswalt a venire a capo delle misteriose stragi familiare legate al culto di Bughuul, un demone che attraverso la rappresentazione della propria immagine entra in contatto con i bambini dei quali divora progressivamente l'anima. Proprio a causa dell'aiuto offerto al deceduto amico l'uomo ha perso il proprio lavoro e si mantiene come investigatore privato mentre continua a indagare sulla scia di morte causata dall'entità maligna, tentando anche di bloccarla dando fuoco alle case in cui sono avvenuti i delitti. Le sue indagini lo portano a entrare in contatto con Courtney (Shannyn Sossamon), giovane madre fuggita dal marito violento per salvaguardare i suoi due figli Dylan e Zach. Sebbene la donna sappia di vivere sulla scena di un efferato crimine è totalmente all'oscuro delle implicazioni demoniache dietro a esso e soprattutto del rapporto creatosi tra i due bambini e le presenze di quelli soggiogati in passato da Bughuul, pronti a trasformare uno dei due nel prossimo strumento di morte di quest'ultimo.

Molto spesso nella creazione di seguiti, siano essi cinematografici, televisivi o persino videoludici, una delle direzioni più praticate può essere riassunta nell'assioma "the bigger the better", ossia in una riproposizione sostanziale dei motivi estetici e narrativi del predecessore con un innalzamento quantitativo degli stessi. In parole povere una sorta di remake ingigantito e ambientato diegeticamente in un diverso spazio cronologico. Sinister 2 possiede il merito di tentare una strada differente, di cercare di affrancarsi dalla formula del prequel ma il grave difetto di fermarsi a metà del tragitto. Non essendo più presente la figura centripeta dello scrittore ossessionato dalla fama e dagli omicidi il film di Foy sembra voler percorrere il sentiero della discesa nella follia da un duplice punto di vista: quello da horror fantastico, quasi in stile Del Toro, legato alla fascinazione dei figli di Courtney verso le lusinghe dei bambini di Bughuul, e quello più terreno del mondo degli adulti, il quale si muove su territori più attinenti al thriller in bilico tra la detection dell'ex vicesceriffo e la fuga della già citata donna da un consorte orco, capace di utilizzare tutta la propria influenza economica e politica pur di continuare a seviziare la propria famiglia. Nel delineare questa duplice natura la pellicola perde naturalmente la compattezza del prequel, la sua capacità di agire per sottrazione e ribaltamento dei codici del genere di pertinenza ma soprattutto quella rarissima sottigliezza, raffinatezza con cui allestiva un discorso di notevole potenza metalinguistica e, in particolare, metacinematografica. In questo sequel il regista irlandese, ben conscio del potenziale emotivo e filosofico di tali tematiche, non abbandona la possibile lettura di riflessione sul cinema e sulle responsabilità morali sia di chi gira che di chi guarda e anzi amplifica la presenza di cineprese in Super 8, proiezioni, snuff movie e a essi aggiunge persino l'elemento multimediale tramite la radio, scopertosi ulteriore veicolo di contatto tra il mondo degli uomini e Bughuul. Come afferma puntualmente il protagonista il demone riesce ad agire sulla nostra realtà tramite la riproduzione della sua immagine, la proliferazione di prodotti audiovisivi che conservino traccia della sua esistenza e tramite questi riesce a sedurre le menti influenzabili delle sue vittime, i bambini. Appare chiaro l'atto di accusa o quantomeno di allerta verso la creazione di immagini violente e l'effetto di piacere smodato che possono produrre negli spettatori più giovani, un potere pornografico che privato di una adeguata educazione all'immagine, allo sguardo e alle sue implicazioni etiche ha portato a una crescente desensibilizzazione alla crudeltà e a una visione ludica della morte, come di qualcosa di estraneo alla situazione di vita quotidiana e scevra da conseguenze che affliggano quest'ultima.

Il problema di Sinister 2 risulta dunque non nelle intenzioni ma nella realizzazione, in una forma tanto mediocre e povera di scatti immaginifici da non riuscire a stare al passo delle proprie ambizioni, così come la sceneggiatura pare aver dimenticato quanto il cinema sia un'arte che racconta prima di tutto per immagini e che dunque l'ellissi verbale spesso risulta un dono, specie all'interno di una parabola metaforica e in bilico tra diversi piani del reale come la battaglia tra l'anonimo protagonista e il divoratore di bambini. Forse nelle mani di Derrickson sarebbe potuto arrivare sul grande schermo un prodotto meno titubante e più consapevole della forza delle immagini, come d'altronde dimostra la psichedelia estetica di Doctor Strange, ma non potremo mai saperlo.

mercoledì 31 ottobre 2018

MINE: IL DESERTO DEI TARTARI IN OGNUNO DI NOI

Come avevo precedentemente affermato a proposito di The End? L'inferno fuori il cinema di genere in Italia, dopo almeno due decenni di crisi e di chiusura verso una nicchia sempre più esigua, sta vivendo un vero e proprio rinascimento facendo proprio stilemi internazionali per poi rileggerli attraverso la realtà autoctona, proprio come accaduto negli anni d'oro di Cinecittà con la famiglia Bava, Riccardo Freda, Lucio Fulci, Antonio Margheriti, Sergio Leone e molti altri. All'interno di questa seconda giovinezza trova una propria posizione ben distinta Mine, primo lungometraggio diretto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro tramite una co-produzione tra Italia, Stati Uniti e Spagna sostenuta da Armie Hammer, produttore esecutivo e protagonista del film. Sebbene, piuttosto inspiegabilmente, l'opera prima dei due non abbia convinto la critica americana in Italia l'accoglienza si è rivelata ben più generosa, impreziosita da recensioni positive, buoni riscontri commerciali e varie candidature ai David di Donatello e al Nastro d'argento.

Protagonista assoluto della pellicola è il marine Mike Stevens (Armie Hammer), impegnato in una missione in Nord Africa come cecchino insieme all'amico Tommy. I due sono incaricati di assassinare un pericoloso terrorista ma Mike, sebbene possieda una mira infallibile, resta come pietrificato e rinuncia a colpire il bersaglio quando si rende conto che quest'ultimo si trovi coinvolto in un matrimonio e che l'unico modo per ucciderlo sarebbe stato sparare anche agli sposi. Scoperti dagli uomini al soldo del bersaglio mancato i due soldati fuggono attraverso il deserto e impossibilitati da alcune tempeste di sabbia a ricevere il soccorso immediato dei mezzi aerei si incamminano in cerca del primo villaggio disponibile. Durante la fuga finiscono loro malgrado in un vecchio campo minato: Tommy fa inavvertitamente scoppiare un ordigno mentre il compagno ne calpesta uno ma riesce a bloccarsi per evitare di azionarlo. Rimasto senza gambe e sanguinante l'osservatore si spara mentre Mike resta bloccato con il piede sulla mina in attesa dell'arrivo dei soccorsi.

Con un incipit in medias res Mine appare per i primi 20 minuti circa come un tipico war movie statunitense contemporaneo con l'ambientazione esotica, lo scontro ormai divenuto archetipico tra i marines buoni e i terroristi islamici cattivi e una coppia di protagonisti tendente al buddy movie, data la caratterizzazione opposta dei due (uno taciturno e pessimista, l'altro loquace e sempre pronto allo scherzo). Nel momento in cui Mike dimostra per la prima volta di non riuscire a muoversi, a fare un ulteriore passo nella propria vita, ossia quando evita di sparare al bersaglio, il film si trasforma in un thriller di sopravvivenza nel quale il deserto si tramuta da puro ambiente ad antagonista; una trappola che stringe d'assedio i due soldati proprio come farebbe un esercito nemico fino a farli cadere nell'imboscata del campo minato. Ed ecco che la pellicola subisce un'ulteriore e definitiva trasformazione: come un bruco che diventa crisalide e infine una farfalla l'opera prima di Fabio & Fabio (così si firmano nei titoli di testa) trova la propria identità matura in un viaggio metaforico e psicologico tra presente e passato, reale e immaginazione nel quale fattualmente Mike non si muove mai. Alla stregua di un contemporaneo Odisseo legato all'albero maestro della propria nave per non cedere alle lusinghe delle sirene il soldato americano tenta di resistere alla tentazione di spostare il piede dall'ordigno mantenendo una posizione che lo mantenga in vita ma che è anche identica a quella assunta da un uomo quando chiede la mano della donna amata e quella di un cavaliere durante l'atto di reverenza verso il proprio re e la propria regina. Il personaggio interpretato con notevole capacità fisica ed emotiva da Hammer conosce bene questa posizione poiché costituisce parte integrante di quel passato dal quale non riesce proprio a fuggire, nonostante l'escapismo che ha causato la sua scelta di arruolarsi, esattamente come la coppia di registi italiani conosce forme e contenuti della mitologia occidentale, sia essa di matrice ellenica o bretone, perché il lungometraggio appare intriso di riferimenti sia all'Odissea che al ciclo arturiano. Esattamente come l'eroe omerico Mike affronta un viaggio irto di insidie per poter tornare a casa dalla donna che ama, spesso alla deriva senza poter ricevere aiuto se non da figure incontrare lungo il percorso ma la sua peregrinazione è tutta interiore, simbolica e attraversa non i confini del mondo conosciuto ma il passato e i demoni che l'uomo ha portato con sé in missione. Resistere alla tentazione di abbandonarsi ancora una volta alla paura e all'immobilità, alla non-decisione non è facile per il protagonista, esattamente come è dura sopportare il clima avverso, la sete e gli assalti di creature selvagge che appaiono durante la notte proprio come creature infernali più mitologiche che reali.

La dura battaglia per la vita e la libertà combattuta da Mike si dipana tra visioni oniriche, ricordi in flashback e miraggi causati dalla stanchezza ma la notevole capacità di raccontare per immagini dei due cineasti italiani si palesa mediante la materializzazione di due archetipi della fiaba, l'antagonista e l'aiutante, nelle figure del già citato deserto e di un anonimo Berbero interpretato con enorme umanità da Clint Dyer. Esattamente come avviene nell'impianto narratologico del racconto fiabesco il deserto tenta in ogni modo di abbattere il desiderio di resistere e di liberarsi finalmente dei fardelli che bloccano il percorso di Mike mentre il saggio aiutante fa di tutto per mantenere in vita lo sconosciuto straniero e anzi, tramite un mix di saggezza e dolce ironia, mostra al soldato come la posizione nella quale questi si trovi sia dettata non da interventi esterni ma dalla sua paura, dal timore di commettere l'ennesimo errore diventando un mostro come suo padre. Un vero e proprio deserto dei Tartari personale dunque che tiene bloccato un singolo uomo esattamente come nel capolavoro di Buzzati accade per un esercito simbolo di un paese e di un intero sistema socio-politico come quello determinato dalla Guerra fredda. Questo e molto altro ancora è Mine, un esordio folgorante per due giovani registi che dimostrano un talento probabilmente appena scalfito e che magari un giorno verrà compreso anche oltreoceano.

martedì 30 ottobre 2018

IL CASO SPOTLIGHT: IL CINEMA D'INCHIESTA AMERICANO DAL 1976 AL 2015

Quarantadue anni fa, nel 1976, arrivava nelle sale americane, nel pieno del clima di rinnovamento e sfiducia verso le istituzioni classiche causato dalle rivolte giovanili, dalla ferita costituita dalla Guerra del Vietnam, dalla scandalo Watergate e dalle nuove evoluzioni della New Hollywood, Tutti gli uomini del presidente (All President's Men), pellicola diretta da Alan J. Pakula capace di ricostruire con estrema lucidità e uno stile visivo da reportage di guerra proprio l'inchiesta che aveva portato alle dimissioni di Richard Nixon. L'enorme successo di quest'opera inaugurava la diffusione di un vero e proprio filone cinematografico statunitense legato dalla volontà di portare su schermo il coraggio e la caparbietà con la quale il giornalismo può smascherare gli intrighi di potere delle istituzioni solitamente intoccabili, sfruttando anche l'aria di complottismo conseguente proprio alla scoperta degli abusi di potere dell'ex presidente. Oggi, vivendo un decennio la cui parola d'ordine pare essere "vintage", tra le tantissime tendenze, tipologie di produzioni o modelli che vengono ripescate dal passato per essere adattate a un'idea dello stesso fortemente legato al sentimento nostalgico è possibile rintracciare proprio quel cinema d'inchiesta grazie soprattutto a Il caso Spotlight (Spotlight), quinto lungometraggio diretto dall'attore Tom McCarthy. L'opera girata nel 2015, certamente non l'unica a seguire questa linea d'indirizzo, merita una certa attenzione quantomeno per il successo che riscuote alla sua uscita, specialmente all'interno della critica anglofona che la elogia come uno dei migliori prodotti dell'anno, aiutandola persino a ben sei candidature agli Academy Awards, con tanto di vittoria nella categoria per il miglior film.

La pellicola ricostruisce, con notevole rispetto dei fatti realmente accaduti, l'inchiesta messa in piedi dalla squadra Spotlight del Boston Globe nel 2001 capace di portare alla luce una fitta rete di preti pedofili nella città del Massachusetts e soprattutto la connivenza del cardinale Bernard Law, al corrente degli atti orribili perpetrati da questi prelati e colpevole di aver organizzato un sistema di spostamenti degli stessi da una località all'altra e di risarcimenti economici secretati alle vittime per poterne coprire le tracce. Il team formato da Walter Robinson (Micheal Keaton), Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Matt Carroll (Brian d'Arcy James), sostenuto dal neodirettore Martin Baron (Liev Schreiber) riesce a rintracciare e soprattutto a rendere pubbliche le prove della colpevolezza di circa novanta preti e l'accondiscendenza del cardinale, nonostante l'ambiente omertoso nel quale si trovano a dover lavorare.

Dilungarsi sullo spinoso tema della diffusione della pedofilia all'interno delle schiere ecclesiastiche mi pare piuttosto superfluo in questa sede, specialmente perché proprio Spotlight lo affronta con una sobrietà, una consapevolezza della complessità dello stesso e, cosa fondamentale in ambito giornalistico, una aderenza alle fonti e alla loro attendibilità capaci di aprire gli occhi persino al più disinteressato degli spettatori. Una capacità tutt'altro che comune resa possibile dall'ottimo lavoro di sceneggiatura di McCarthy e Josh Singer ma in buona parte dovuta anche alla straordinaria performance attoriale di un cast composto da attori di prim'ordine accomunati dal disinteresse verso l'istrionismo o la tipica volontà di catalizzare l'attenzione del pubblico propria del divo, categoria alla quale in fondo sfuggono tutti gli interpreti presenti (si pensi a Keaton e alla sua lotta al divismo messa in scena in Birdman, girato dal messicano Inarritu nel 2014). Proprio la centralità degli attori e della creazione dei loro personaggi rappresenta uno dei tanti ponti che collegano l'opera in questione con quell'ondata di cinema d'inchiesta citata precedentemente e in particolare con Tutti gli uomini del presidente, anch'esso forte delle performance sobrie ma altrettanto potenti di interpreti quali Dustin Hoffman, Robert Redford o Martin Balsam e capace di riflettere non solo sul motivo etico alla base dell'indagine portata sul grande schermo (la fitta rete di abusi di potere di Nixon si rispecchia in quella creata da Law per occultare la pedofilia ecclesiastica) ma anche sul giornalismo stesso, sulla sua capacità di aprire o chiudere gli occhi delle persone comuni e sulla difficoltà nel riuscire a difendersi dalle pressioni politiche. Lo sguardo del regista di New Providence non può però essere il medesimo di Pakula, data la distanza temporale tra i due lungometraggi, e dunque il film del 2015 appare come l'ennesimo tentativo di riportare in vita un fenomeno passato attraverso una lente nostalgica tipica dell'estetica vintage: in particolare al lavoro svolto dall'autore di The Visitor (2007) manca la ricerca formale da reportage bellico tipica dello stile di Pakula, influenzato certamente dalle immagini del Vietnam e dall'ibridazione cinematografica delle stesse operate da altri cineasti della Hollywood Reinassance quali Francis Ford Coppola, George Lucas e John Milius. Nel 2015 i riferimenti culturali e visuali per un regista sono ovviamente ben diversi da quelli di quattro decenni fa e dunque risultano ben evidenti le influenze ben più contemporanee di McCarthy, specialmente quelle provenienti dal linguaggio del serial televisivo di genere thriller (si pensi alle varie serie facenti parte del franchise Law & Order).

Spotlight rappresenta in definitiva un caso esemplare della tendenza alla riscoperta del passato mediante un filtro di sapore nostalgico tipico dell'attuale cultura vintage e nel caso in essere a essere riportato alla luce è la cinematografia d'inchiesta giornalistica esplosa negli anni '70 negli USA. Questo ancoraggio al passato certamente non connota negativamente di per sé l'operazione svolta dall'autore e anzi potrebbe persino essere appropriato parlare di aggiornamento o evoluzione di taluni modelli, eppure mi pare un gran peccato aver sacrificato la ricerca stilistica presente in Tutti gli uomini del presidente e in generale tipica del grande cinema. Un difetto quasi mai notato dalla critica in sede di recensione del film, esattamente come pochi hanno dotato il giusto risalto alle magnifiche musiche composte da Howard Shore, forse il vero valore in più di Spotlight rispetto ai propri modelli.