domenica 10 agosto 2025

THE OUTRUN - NELLE ISOLE ESTREME: LET THE OCEAN TAKE ME

A distanza di dieci anni dall'uscita dell'album che ha reso famosi, almeno tra gli appassionati di metalcore, gli Amity Affliction la cineasta tedesca Nora Fingscheidt scrive e dirige un film che mi ha immediatamente evocato quel Let the Ocean Take Me, cantato anche nel ritornello di Don't Lean on Me: The Outrun (2024). Il film, voluto fortemente dalla coppia formata da Saoirse Ronan e Jack Lowden, entrambi co-produttori, è un adattamento dell'omonima autobiografia di Amy Liptrot, co-sceneggiatrice insieme alla regista teutonica, presentato al Sundance Festival, dove ha ricevuto ottime recensioni, mentre in Italia è passato pressoché inosservato.


Seguendo un andamento cronologicamente non-lineare, la pellicola segue il tentativo di tornare a vivere davvero da parte di Rona (Saoirse Ronan), quasi trentenne laureata in biologia con problemi di alcolismo. Dopo essersi disintossicata in una comunità per 90 giorni, la giovane lascia Londra per le Orcadi, dove vivono i genitori, seppur separati. La convivenza con i due non è semplice, così come il progressivo reinserimento nella società tramite un lavoro per una ONG che si occupa di preservare la fauna locale, mentre i ricordi del passato e la mancanza del suo ex fidanzato Daynin (Paapa Essiedu) contribuiscono alle difficoltà della protagonista.


The Outrun inizia con la voce fuori campo di Rona che racconta allo spettatore di alcune particolari figure della mitologia norrena in grado di alternare forma acquatica e umana, ma che se restano sulla terraferma troppo a lungo restano intrappolate nell'involucro terrestre, anelando per il resto della loro esistenza il ritorno tra gli abissi, mentre la macchina da presa si sofferma proprio sulle onde dell'Atlantico. Un prologo quanto mai profetico per la narrazione che segue, il cui andamento ciclico e paratattico ricorda l'azione delle onde stesse e che mette in scena la costante battaglia di una donna che sembra trovare la propria ragione d'essere solo a contatto con il mare. La giovane biologa, del quale vengono mostrati frammenti di vita fin da quando è bambina, appare sempre fuori posto, vicina solamente all'apparenza alle persone che la circondano, che raramente riesce a comprendere. Probabilmente è questo disagio esistenziale, la consapevolezza di non appartenere a nessun luogo, esasperata anche dalla disorientante vastità di una metropoli come Londra, che la porta a rifugiarsi nell'alcol, senza il quale, parafrasando quello che dice a un compagno nel percorso di riabilitazione, non riesce proprio a vedersi felice. Nei flashback del suo percorso universitario e della convivenza con Daynin, l'unica persona con cui intrattiene conversazioni che non siano di pura circostanza, è quasi sempre alticcia o completamente ubriaca, che si tratti di contesti felici o di ricordi dolorosi. Una dipendenza che la porta a fare terra bruciata intorno a sé, sul piano lavorativo prima e poi su quello personale, perdendo proprio l'amore della sua vita e, in una spirale discendente, arrivando a toccare il fondo quando subisce un tentato stupro.


Il turbine di salti temporali tra presente e passato rende evidente anche quanto abbia influito sul disagio cronico della ragazza la convivenza con la precaria salute mentale del padre, le cui crisi dissociative distruggono a poco a poco il nucleo famigliare di Rona, ma sembrano al contempo confermare l'affascinante ipotesi di matrice mitopoietica che padre e figlia siano in fondo anime incomprese e cronicamente infelici poiché nate per vivere tra le forze ancestrali della natura, in particolare il vento nel caso dell'uomo e il mare per la giovane. Una sorta di interpretazione in chiave panica della malattia mentale tanto efficace poeticamente grazie in primis alla straordinaria interpretazione di Ronan, il cui corpo si rivela un serbatoio infinito di storie ed emozioni come un aedo di epoca omerica, ma in misura non inferiore alla potenza immaginifica della regia di Fingscheidt, che rende palpabile la connessione tra la protagonista e i suggestivi paesaggi delle Orcadi attraverso illuminazione rigorosamente naturale e un uso del colore fortemente simbolico, che si ritrova nelle variegate sfumature del cielo nordico, così come in dettagli apparentemente insignificanti come le tinte di capelli di Rona o le variazioni nello smalto sulle sue unghie. Esemplare la lunga sequenza priva di dialoghi nei minuti finali della pellicola, in cui la danza liberatoria della giovane piano piano si tramuta nei movimenti di un direttore d'orchestra i cui strumenti musical sono le primigenie forze della natura, le uniche in grado di aiutarla realmente a uscire dal tunnel della dipendenza quando vi si abbandona completamente, come in un coraggioso bagno tra le gelide acque dell'oceano tra i richiami dei versi delle foche.

In un momento storico di progressiva e fantasmatica smaterializzazione dell'esperienza umana, The Outrun è una splendida, seppur sofferente, esperienza aptica resa possibile solo dalla magia del cinema.   

domenica 20 luglio 2025

I PECCATORI: THE PRICE OF FREEDOM

A conferma delle innumerevoli idiosincrasie che animano il nostro paese, mi sorge spontanea una domanda: esattamente perché Ryan Coogler, in mezzo a una pochezza disarmante nel panorama americano mainstream, piace in tutto il mondo con la sola eccezione dell'Italia? Me lo chiedo già da quando ho visto per la prima volta Creed - Nato per combattere (Creed, 2015), ma il quesito mi sembra ancor più complesso alla luce della visione de I peccatori (Sinners in originale), arrivato nelle sale nello scorso aprile con il plauso unanime in tutto il mondo, incassi molto elevati considerando l'attuale crisi dell'esperienza cinematografica e, puntualmente, non poche ricezioni negative dove? Ovviamente nel nostro amato stivale. Qualche idea sull'argomento è maturata nella mia testa in questi anni, fino a toccare questioni culturali piuttosto annose e meritevoli di una disamina articolata, per cui mi limito a focalizzarmi in questo momento sull'ultima fatica del cineasta statunitense.


Ambientato in una sola, lunga giornata del Mississippi del 1932, il film mette in scena il tentativo da parte dei gemelli Stack e Smoke Moore (entrambi interpretati da Michael B. Jordan) di aprire un juke joint nella propria città natale, abbandonata per anni in cerca di fortuna a Chicago. Per garantire il successo del locale chiedono aiuto al giovane cugino Sammie (Miles Caton), asso della chitarra, al navigato musicista Delta Slim (Delroy Lindo) e all'ex moglie, nonché esperta di magia e cuoca, di Smoke Annie (Wunmi Mosaku). Nonostante qualche difficoltà, soprattutto legata agli introiti economici, l'inaugurazione sembra andare alla grande, almeno fino alla comparsa di un trio di misteriosi bianchi, guidati dall'irlandese Remmick (Jack O'Connell), che chiede di poter partecipare alla festa.


Uno dei primi pensieri che balena nella mente dello spettatore durante e dopo aver concluso I peccatori si concentra su quante cose, quanti film ne film lo compongano. Dalla ricostruzione della vita negli stati del sud nel pieno della crisi del Ventinove al gangster movie, dall'horror soprannaturale al western, il pastiche organizzato da Coogler non nasconde la propria essenza postmoderna e metacineamtografica, che però non si limita a flirtare con la conoscenza pregressa del pubblico, bensì lavora come strumento indispensabile per la poetica del regista. Dichiaratamente militante in ogni sua opera, l'autore di Black Panther (2018) dopo aver messo a nudo le contraddizioni e iniquità cui va incontro la comunità afroamericana dal momento stesso della sua nascita tenta un'azione ben più sovversiva, ovvero filmare il suo riscatto nei confronti degli oppressori tramite l'appropriazione di quegli spazi che gli sono sempre stati negati. Protagonisti di tale operazioni sono i fratelli Moore, che, dopo aver conosciuto le condizioni tipiche della vita degli uomini di colore nel profondo sud, tentano una scalata sociale attraverso i sentieri più oscuri dell'American Dream, in quella malavita di Chicago che, pur trovandosi evidentemente al di là dei confini della legge, resta comunque a esclusivo appannaggio dei bianchi. Allo stesso modo denaro e potere, il connubio che muove le fila del mondo, come spiegato in una scena anche da Smoke, è sempre stato esclusivo dei colonizzatori, persino nelle sue implicazioni più superficiali e apparentemente innocue (divertimento, abbigliamento, automobili ecc.). Per quanto moralmente esecrabili, i due gangster rappresentano uno dei tanti modi in cui la classe dominata può ribaltare i rapporti di forza, mettendo in crisi quelle convenzioni che tengono ai margini dei centri di potere, perfino culturali, il gruppo di outsider, esattamente come accadeva ad altri personaggi di Coogler, dal supereroe africano T'Challa al pugile di colore che rivive il mito di Rocky Adonis. I generi popolari e gli eroi che li popolano non devono più essere WASP, bensì un territorio franco per permettere anche ai giovani di colore di aspirare alle vette del proprio immaginario e, quando questo non accade, ecco allora che qualcuno si rifugia nel lato oscuro della luna, quello degli antieroi, dei fuorilegge che dominano un periodo storico in cui è ancora il più forte a determinare il destino della collettività, in contiguità con il Far West.


Sinners potrebbe "accontentarsi" di trasmigrare il mito dei vari Dillinger, Butch Cassidy e Sundance Kid verso la popolazione nera e invece punta più in alto. La svolta horror nella seconda metà della pellicola, ad esempio, a prima vista crea una versione alternativa della dicotomia bianchi buoni/indiani cattivi del western classico, dove i vampiri sono ovviamente di origini anglosassoni e collusi con il Klan, eppure nel corso dello snervante assedio questi ultimi mostrano una complessità interpretativa ben lontana dalla manichea divisione tra buoni e cattivi. Nelle parole e nelle azioni di Remmick e di coloro che vengono morsi emerge una idea comunitaria allettante nella sua distanza da qualunque discriminazione etnica, per non parlare della prospettiva dell'immortalità, che però, al contempo, nella sua intrinseca violenza e limitazione in molti di quegli aspetti che rendono così speciale l'esperienza umana (si pensi alla possibilità di ammirare il sole) non può non far pensare ai vacui propositi di uguaglianza di cui si frega la contemporaneità, teoricamente priva di discriminazioni per legge scritta e morale, ma di fatto fondata proprio su una élite che detiene il potere e una massa sempre più uniforme che si limita a sopravvivere alla sua ombra. Ecco perché persino il tanto vitale e ottimista Stack, in una delle sequenze conclusive, rimpiange amaramente la prima parte della giornata inaugurale del juke joint. Umanità e libertà non potranno mai essere slegate, per cui l'unico potere in grado di donare un assaggio reale di entrambe per un popolo sottomesso da secoli è quello dell'arte, in particolare della musica, che, al di là delle notevoli evoluzioni subite con gli innumerevoli ricambi generazionali, simboleggia nel migliore dei modi la ricchezza di tale popolo, il suo lancinante grido di autoaffermazione e le possibilità espressive di qualunque forma artistica. Se siete tra i detrattori de I peccatori provate a dare un'altra occhiata al piano sequenza del ballo extradimensionale, uno di quei momenti che ci ricorda perché amiamo il cinema e ne abbiamo così disperatamente bisogno.



sabato 12 luglio 2025

SUPERMAN: LA PERVERSIONE DELLA LEGGEREZZA

Siamo nel 2025, i fumetti non sono esattamente un medium in voga da almeno un paio di generazioni, neanche il cinema se la passa tanto meglio eppure Superman a quasi cento anni dalla sua nascita continua a vivere nella memoria collettiva e, dunque, risulta ridondante dover spiegare chi sia. La stessa idea è passata per la testa (giustamente) anche di James Gunn, tra i pochi nomi dell'attuale panorama hollywoodiano a sbagliare davvero di rado un colpo, ad attirare gli spettatori come o persino più di un divo davanti alla macchina da presa. Dopo essere salito alla ribalta all'interno del Marvel Cinematic Universe il cineasta statunitense è divenuto CEO di DC Studios, per il quale però non si limita a coordinare il più ampio progetto artistico crossmediale, al punto da scegliere di mettere sulle proprie spalle un onore e onere da far tremare i polsi, quello di scrivere e dirigere il reboot del primo supereroe. Ereditando il timone lasciato suo malgrado dall'amico di lunga data Zack Snyder, l'autore di Guardiani della Galassia (Guardians of the Galaxy, James Gunn, 2014) proprio in questi giorni porta nelle sale di tutto il mondo il suo Superman, che nel momento in cui vi scrivo sta riscontrando consensi quasi unanimi da parte della critica, mentre più divisiva appare la ricezione da parte del pubblico, com'è anche ormai prassi per una proprietà intellettuale così famosa e con un fandom tanto vasto, nel bene e purtroppo nel male.


Evitando di ripercorrere le origini del protagonista per l'ennesima volta, il film mostra Superman (David Corenswet) nel suo terzo anno di attività da eroe, alle prese però con le prime grandi difficoltà all'interno di essa, in particolare dopo una deludente sconfitta subita da Ultraman, un potente e misterioso metaumano comandato da Lex Luthor (Nicholas Hoult), intelligentissimo magnate della tecnologia che odia a morte il kryptoniano. Oltre alla suddetta disfatta fisica contro lo sgherro del villain, l'Uomo d'acciaio è costretto ad affrontare ulteriori difficoltà, in primis di tipo emotivo-psicologico, come i litigi a causa di diverse vedute con la compagna Lois Lane (Rachel Brosnahan), le accuse pubbliche di aver agito arbitrariamente in politica estera difendendo il paese del Jarhanpur dall'invasione della vicina Boravia, fino alla scoperta, ovviamente causata da una delle machiavelliche trame di Luthor, di una parte sconosciuta del messaggio lasciatogli dai suoi genitori biologici che lo esorta a conquistare la Terra.


Quando un creativo si approccia a un personaggio dall'evidente caratura mitologica come Superman le possibilità, così come le insidie sono infinite: molto è stato già detto, vista anche la moltitudine di media che hanno adattato il fumetto originale, ma al tempo stesso l'eroe permette a qualunque autore di poterlo maneggiare e plasmare a seconda della propria sensibilità, senza perdere l'essenza di ciò che lo rende riconoscibile. In virtù di questo Gunn opta per una lettura che non rinnega assolutamente il passato più o meno vicino dell'eroe, non soltanto per le citazioni dirette, come ad esempio il riarrangiamento dell'iconico tema musicale composto da John Williams nel 1978, ma anche per i tanti spunti tematici passati che continuano a risuonare nel mondo contemporaneo. Si pensi, tra le tante, alle implicazioni politiche delle azioni del protagonista, già affrontate decenni fa da Frank Miller su carta ma ancor di più da Snyder in Batman v Superman: Dawn of Justice (2016), dove, in maniera analoga, Superman viene accusato di non rispettare la legislazione nazionale e internazionale, tanto da venire posto dinanzi alla pubblica accusa alla stregua di un terrorista. Ciò non significa che la pellicola viva nel mash-up di un passato glorioso, anzi, in pieno rispetto dell'idea di cinema professata a più riprese da Gunn, la conoscenza di ciò che è stato diventa strumento per donare maggiore forza all'esplorazione di ciò che più appassiona l'autore, ossia l'umanità del kryptoniano. Spesso i detrattori del personaggio gli rinfacciano una monodimensionalità di caratterizzazione all'insegna di una bontà eccessiva (il famoso paragone con i boyscout), che lo rende poco credibile e affascinante. Il regista a tal proposito decide di partire proprio da questa bontà d'animo e mostrare al pubblico quanto il mondo attuale non solo necessiti di questo spirito in tutti noi, ma che in una società in cui tutti non aspettano altro che mostrare rancore e il proprio lato più meschino nei confronti del prossimo, specie sui social, l'altruismo esasperato, la fiducia incondizionata verso l'umanità, anche nei casi più estremi, rappresentano un atto di ribellione molto, molto punk (citando direttamente la sceneggiatura) a scapito della deriva cui ci sta portando questo modo di agire.


Il Superman di Gunn, dopo essere stato attratto per tutto l'incipit dalla sua parte aliena a discapito di quella umana, una volta tradito dai genitori biologici che aveva mitizzato abbraccia al 300% il versante terrestre della sua essenza, come evidenziato dal ritorno alle origini a Smallville o dalla sequenza conclusiva e, conseguentemente, anche l'enorme fragilità e le tante sconfitte subite da un personaggio teoricamente invincibile rientrano nell'idea di mettere in scena un eroe del popolo, un primo tra pari, riprendendo il concetto di princeps latino. In questo concetto però, a mio parere risiede una delle delusioni legate al lungometraggio. Per quanto la semplicità sia di per sé un valore nobile e degno di essere ostentato e difeso a oltranza, spesso nell'arte schematizzare sottrae il fascino dell'incertezza, della domanda sulla facile risposta, della riflessione a discapito della cieca accettazione. La scelta pienamente autoriale di privare l'eroe di Metropolis di quella dicotomia tra uomo e divino, alieno e americano annienta quella dimensione epica intrinseca di un profugo che viaggia attraverso le stelle per unire il meglio di due civiltà, di un messia venuto dallo spazio che sacrifica tutto di sé per il bene di coloro che lo hanno adottato, nonostante le differenze. Certamente anche l'abbandono dell'epica sembra rientrare scientemente nell'ideale di Gunn, rispettabile e anzi degna di ammirazione proprio in quanto lettura propria di un singolo autore del mito, ciononostante sarebbe miope negare quanto faccia male alla fruizione della pellicola il costante diniego del pathos in favore di siparietti comici discutibili e di un'estetica che molto spesso sembra voler confermare i peggiori pregiudizi all'insegna dell'infantilismo con cui i cultori delle distinzioni tra arte alta e arte bassa collocano il fumetto tra la spazzatura culturale. Tra i tanti sprazzi di ricercatezza formale, come nello splendido momento da videoclip che esalta le capacità di Mr. Terrific (Edi Gathegi) o nei campi lunghissimi dedicati al protagonista, spicca purtroppo anche una lacuna di personalità, per cui diventa difficile distinguere l'opera del cineasta nato a St. Louis rispetto a quello di molti altri colleghi attivi nel calderone dei blockbuster contemporanei. Un saliscendi suffragato da tantissimi altri elementi, dalla magica sequenza del bacio tra Clark e Lois a pessimo costume indossato dal supereroe, da un Lex Luthor che riecheggia perfettamente certi leader mondiali e come stiano ingurgitando le risorse di tutti per lisciare il proprio ego passando però attraverso reiterate battute che potrebbero essere utilizzate per spiegare alla perfezione alla generazione Boomer il significato del termine cringe.

Superman, in conclusione, rappresenta un'incoraggiante inizio per il nuovo corso DC, oltre a una visione tanto divertente quanto intelligente anche singolarmente, eppure resta l'amaro in bocca per uno studente che spesso si perde in un bicchiere d'acqua o in quella che Sorrentino definiva perversione della leggerezza in Youth (2015), perché onestamente non se ne può più nel 2025 di un'idea innocua e ridicola del cinecomic, quando Nolan, Reeves, Phillips, Snyder e Gunn stesso in altre occasioni ci hanno dimostrato la vasta gamma di possibilità espressive offerte dal filone. Se un bambino dinanzi ai fucili degli oppressori del proprio paese mostra una bandiera con la S è perché l'Uomo d'acciaio rappresenta degli ideali, delle speranze e un immaginario emotivo che va ben oltre delle sciocche mutande rosse su una tuta da forzuto del circo di inizio Novecento, per cui James smettiamo di dare ragione ai conservatori della critica cinematografica e non solo. Grazie.

domenica 29 giugno 2025

L'ORTO AMERICANO: LO SPECCHIO SCURO AVATIANO

Il cinema, come moltissimi altri argomenti popolari, è ricco di frasi fatte, vulgate e stereotipi con cui molti riescono a evitare la presunta ignominia di dover ammettere di non sapere niente su un determinato movimento, regista o di non aver mai visto neanche mezzo minuto di quel film. A mio modesto parere rientra in questa categoria l'etichetta di "gotico padano" cui viene accompagnato immancabilmente Pupi Avati, autore certamente di alcuni straordinari lungometraggi di genere, in particolare horror o gialli, ma gotici? Fino a qualche giorno fa avrei detto che in realtà ne ha diretto solamente uno, Il nascondiglio, nel 2007, poi ho finalmente recuperato L'orto americano, presentato al Festival di Venezia del 2024 per poi essere distribuito ufficialmente in sala solamente nel marzo di quest'anno, ricevendo recensioni piuttosto tiepide, soprattutto per quanto concerne la sceneggiatura.


Ambientata nell'immediato secondo dopoguerra, la pellicola segue la ricerca da parte di un giovane scrittore anonimo (Filippo Scotti) di una ausiliaria americana scomparsa (Mildred Gustavsson), vista in realtà una sola volta mentre il ragazzo si trovava da un barbiere. L'investigazione inizia negli Stati Uniti, dove il protagonista si trasferisce per qualche tempo, finendo proprio nella casa accanto a quella della madre della giovane (Rita Tushingham), la cui disperazione, insieme alla stranezza della coincidenza, convince lo scrittore di dover riuscire in tutti i modi a ritrovare la ragazza, persino a costo della sua vita quando è costretto a rientrare in Italia.


Se anche la breve sinossi appena esposta può apparire confusionaria è perché, difatti, L'orto americano si dipana in un racconto tutt'altro che lineare e classico, non per svogliatezza da parte di Avati, autore anche della sceneggiatura, bensì a causa di una precisa volontà di perseguire un andamento sognante, tipico dell'altrettanto preciso riferimento facilmente riscontrabile nel film. La centralità di una coppia di donne (quasi) identiche fisicamente ma apparentemente opposte caratterialmente, una complessa indagine che porta il protagonista a scendere negli inferi del lato oscuro della società e della propria psiche, il bianco e nero della fotografia estremamente stilizzato nel taglio delle ombre e così via: una lunga serie di caratteri onnipresenti nel noir americano degli anni Quaranta e in particolare nella filmografia di Robert Siodmak, maestro tedesco trasferitosi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste. L'autore di capisaldi del genere quali Lo specchio scuro (The Dark Mirror, 1948) o I gangsters (The Killers, 1946) esemplifica alla perfezione la tendenza che porta molti colleghi europei trapiantati a Hollywood a utilizzare la maggiore libertà espressiva offerta dalle storie criminali di questo tipo per poter continuare a sperimentare con i mezzi utilizzati nel corso dell'esplosione delle avanguardie tedesche della Repubblica di Weimar, compresa l'esplorazione, tramite anche una messinscena estremamente antinaturalistica, di ossessioni e perversioni fin troppo umane, agli antipodi della rassicurante visione cinematografica della classicità hollywoodiana. Una vera e propria versione filmica di quel mondo gotico che aveva segnato nei decenni precedenti la letteratura, europea e non solo, in cui realtà e immaginazione sfumano l'uno nell'altro costantemente e gli edifici, spesso infestati da presenze più o meno fantasmatiche, finiscono per diventare simboli dei traumi da cui i personaggi tentano, con scarso successo di fuggire. 


Questo è l'immaginario che Avati, con molta più decisione anche rispetto al suo capolavoro La casa dalle finestre che ridono (1976), riporta in vita, a partire dall'elegantissimo quanto opprimente bianco e nero con cui dipinge le peregrinazioni dell'anonimo scrittore, la cui presenza quasi kafkiana, resa con grande efficacia da Scotti, da un lato recupera anche il flaneur tipico del giallo all'italiana cui può essere ascritto il sopracitato lungometraggio, ma dall'altro sottolinea come il vero fulcro della narrazione non sia la soluzione del mistero più concreto, bensì quello ancor più complesso e inafferrabile riguardante la natura del reale, la fallacia della percezione umana e i demoni con cui siamo costretti a scendere a patti ogni singolo giorno. La Bologna distrutta dai bombardamenti, così come lo sperduto paesino dell'Iowa e le ormai celeberrime langhe delle valli di Comacchio sempre presenti nel versante più oscuro della filmografia avatiana, rappresentano con notevole forza immaginifica e persino sensoriale la presenza del Male, quello atavico, irrazionale che popola le fiabe, nel mondo quotidiano, sfociando poi in infinite varietà, dall'orrore della guerra e delle sue conseguenze (si pensi alla pratica di vendere i cadaveri caduti in battaglia ai loro cari) fino a un serial killer che trova soddisfazione nel mutilare i genitali femminili e rivendicare la sua "arte" con dei frammenti poetici ellenisti. Per molti potrà risultare straniante l'andamento onirico, privo di risposte certe anche nel finale, scelto dall'autore di Zeder (Pupi Avati, 1983), ma altri non è se non il marchio di fabbrica di quel gotico travestito da thriller metropolitano che il cineasta bolognese trapianta nel milieu che conosce meglio e che si adatta perfettamente allo scavo attraverso la cantina più spaventosa dell'animo umano. Come ogni incubo L'orto americano non si spiega e non si comprende, si abbraccia per poterci risvegliare scossi, ma anche un po' felici di esserne usciti vivi.

venerdì 20 giugno 2025

28 ANNI DOPO: IL SENTIERO DEI NIDI DI INFETTO

Danny Boyle per la maggioranza di chi lo abbia anche solo vagamente sentito nominare è sinonimo di Trainspotting (1996), opera generazionale entrata nell'immaginario collettivo, persino per chi non o ha davvero visto ma magari conosce la sequenza d'apertura sulle note di Lust for Life di Iggy Pop o i meme sul leggendario peggior bagno di Scozia. La carriera del regista britannico però conta anche di molti altri lavori di notevole successo e altrettanta qualità, tra cui spicca un horror post-apocalittico girato quasi secondo gli stilemi di Dogma 95 e capace di ridefinire l'idea di zombie che ancora oggi è onnipresente in tutti i media popolari: 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002). A distanza di ben 23 anni Boyle, insieme allo sceneggiatore Alex Garland, torna in quel mondo con un sequel, 28 anni dopo (28 Years Later), che si distacca narrativamente sia dal predecessore, sia dall'altro seguito, 28 settimane dopo (28 Weeks Later, Juan Carlos Fresnadillo, 2007), nel quale non era coinvolto se non in veste di produttore esecutivo. Arrivato da pochi giorni in sala, il film ha già ottenuto un ottimo riscontro da parte della critica, nonostante le aspettative molto alte e un andamento ondivago delle ultime fatiche dell'autore di The Beach (Danny Boyle, 2000).


Protagonista del lungometraggio è il dodicenne Spike (Alfie Williams), che vive con il padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson) e la madre gravemente malata Isla (Jodie Comer) all'interno di una comunità dedita ad agricoltura e caccia sull'isola di Lindisfarne, collegata alla Gran Bretagna da uno stretto corridoio di terra praticabile solamente durante la bassa marea. Proprio attraverso questo passaggio gli abitanti del villaggio vanno in cerca di oggetti o cibo sulla terraferma, rischiando la vita poiché da ormai ventotto anni il Regno Unito è in totale quarantena rispetto al resto del mondo a causa della diffusione di una variante di rabbia che ha trasformato gli umani in pericolosi cannibali. Spike viene convinto dal padre ad andare per la prima volta a caccia con lui, così da diventare uomo e, nonostante l'incontro con degli infetti particolarmente pericolosi, tra cui quello che viene definito un alpha, riesce a tornare sano e salvo con l'uomo. Durante i festeggiamenti per la riuscita dell'impresa, però, scopre le bugie del genitore e che sulla terraferma sopravvive un medico, che potrebbe dunque visitare e curare Isla. Per questo motivo il ragazzo, insieme alla madre, parte per un pericolosissimo viaggio alla ricerca del dottore.


In un momento storico votato a requel e legacy sequel, Boyle avrebbe potuto giocare la carta del more of the same, considerando anche la tutt'altro che diminuita potenza emotiva di 28 giorni dopo, ma, al contrario, dopo una sequenza d'apertura che sembra citare alcuni dei suoi epigoni (in particolare L'alba dei morti viventi, in originale Dawn of the Dead, diretto da Zack Snyder nel 2004), fa di 28 anni dopo una creatura completamente nuova e inserita nella contemporaneità. Il totale isolamento britannico, unito alla descrizione dell'ambiente in cui vive Spike, con i suoi connotati preindustriali, rappresenta un chiaro riferimento alla deriva socio-politica inglese, con il ritorno di un forte conservatorismo e pseudo orgoglio nazionalista quale unica, semplicistica risposta alle complesse sfide di un periodo caratterizzato da crisi economiche, perdita di centralità dell'Occidente, pandemie, guerre asimmetriche e così via. Di tutto ciò la Brexit è solamente uno dei sintomi più eclatanti e il regista lo rilegge in controluce, con il resto dell'Europa che decide di imporre all'ex impero la scissione per mero opportunismo, abbandonando tutti i cittadini britannici al virus, esattamente come nel mondo reale questi ultimi hanno preferito voltare le spalle a un'Europa continentale in grave difficoltà.

Questa pur interessante metafora politica però, cui si unisce anche un'ormai archetipica reinterpretazione del rapporto padre-figlio in un mondo apocalittico resa celebre da The Road di Cormac McCarthy, non è il vero fulcro della pellicola, che, in seguito a una festa i cui connotati grotteschi potrebbero riportare alla mente gli eccessi di Trainspotting, ribalta il topos prima descritto trasformandosi in un nuovo Bildungsroman, sempre legato al percorso del protagonista per diventare uomo, ma stavolta grazie alle peregrinazioni tra le lande selvagge dominate dagli infetti insieme alla madre. Come in altri lavori scritti (e diretti) da Garland, l'ormai stantia visione machista anche della formazione e del mito fondativo assume connotati più vicini alla sensibilità attuale, poiché Spike deve certamente imparare a essere forte, coraggioso, capace di uccidere per sopravvivere, ma, ancor di più, deve comprendere che la delusione, il rifiuto e persino la morte sono parti essenziali della vita adulta, dove tutto diventa complesso e stratificato. Gli zombie in fondo non sono altro che persone malate, in maniera non dissimile da Isla, che non può e non deve essere definita dalle sue debilitazioni fisiche e mentali, bensì dalla sua umanità, dalla forza con cui ama le persone più importanti del suo percorso di vita. In un mondo votato alla violenza, in cui si può morire da un momento all'altro, anche essendo ancora vivi biologicamente ma completamente soli, Boyle, attraverso il singolare personaggio del dottor Kelson (Ralph Fiennes), ci ricorda quanto sia fondamentale riscoprire ciò che davvero ci rende umani, vivi, ricchi di pensieri, sentimenti ed emozioni, tanto da riuscire a entrare in rapporto empatico persino con una infetta al momento del parto.


Lo straordinario viaggio di Spike alla riscoperta dell'umanità lasciata per strada, così vicina a quello di tanta narrazione del secondo dopoguerra (da Calvino a Vittorio De Sica passando per Rossellini), non potrebbe avere il medesimo, immenso impatto emozionale senza la ricerca formale messa in pratica dal cineasta britannico. In una sorta di evoluzione del linguaggio fortemente digitale, lo-fi e postmoderno di 28 giorni dopo, l'autore opta ancora una volta per mezzi di ripresa digitali estremamente agili e in bilico tra device professionali e a portata di tutti (gran parte delle scene sono girate attraverso degli Iphone), ma abbandona l'impianto stilistico asciutto e quasi documentaristico precedente in favore di una ricerca estrema dell'immersività, figlia della diffusione del racconto videoludico, del sensismo aptico tipico delle esperienze in VR e del cinema sperimentale di Harmony Korine. Dagli scontri con gli infetti alla scoperta di paesaggi mai visti prima, ogni singolo momento del rito di iniziazione di Spike trova un contrappunto formale ideale, talvolta ottenuto tramite il ricorso a strumenti che richiamano l'analogico, come gli inserti quasi subliminali di found footage proveniente da Enrico V di Laurence Olivier (The Chronicle History of King Henry the Fifth with His Battell Fought at Agincourt in France, 1944) o le lenti anamorfiche che esaltano la maestosità della natura selvaggia che caratterizza il Regno Unito post-apocalittico, in maniera non dissimile da quanto fatto dal già citato Snyder per un altro titolo di genere simile, Army of the Dead (2021), o nel supereroistico L'uomo d'acciaio (Man of Steel, 2013).

28 anni dopo riuscirà a influenzare un intero filone filmico come il suo predecessore? Difficile dirlo a pochi giorni dalla sua distribuzione sul grande schermo. Ciò che è innegabile, d'altro canto, è il riuscito mix di coraggio, personalità e profonda apertura al mondo attuale di un film che non può lasciare indifferenti.

domenica 25 maggio 2025

FINAL DESTINATION BLOODLINES: MEMENTO MORI

La storia dell'arte, in tutte le sue espressioni, è ricca di momenti in cui a disastri umani come guerre logoranti, epidemie o gravi crisi economiche corrispondono esplosioni creative particolarmente rilevanti. Si pensi in tal proposito al Rinascimento italiano o al Barocco secentesco, proliferato in un contesto contrassegnato da un aumento esponenziale della mortalità. Un milieu che non può non essere collegato all'abbondanza di dipinti dedicati al sempiterno tema del "memento mori" coniato in epoca romana e che torna a fare capolino nell'immaginario collettivo quantunque il fiato sul collo del tristo mietitore. In una non dissimile situazione nasce anche il fortunato franchise di Final Destination, il cui primo capitolo anticipa di pochi mesi lo spartiacque della caduta delle Torri Gemelle. Ecco che in un 2025 all'insegna di guerre sempre più vicine anche all'Occidente, i postumi ancora tutti da decifrare di una pandemia e incessanti cambiamento socio-culturali fa capolino una nuova iterazione della saga, Final Destination Bloodlines, nata da un soggetto di John Watts ma diretto dal duo Zach Lipovsky/Adam Stein. Nonostante la generale difficoltà delle sale e la distanza siderale per le nuove generazioni dal precedente capitolo (Final Destination 5, Steve Quale, 2011), il film sta riscuotendo un notevole successo al box office, corroborato da recensioni entusiastiche sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo.


Dopo un incipit ambientato nel 1968, la pellicola sposta la sua attenzione sul presente e sull'autrice del sogno con cui si apre, la studentessa Stefani (Kaitlin Santa Juana), che proprio a causa di questo incubo ricorrente sta mettendo a repentaglio la propria brillante carriera universitaria. Per riuscire a venirne a capo decide di tornare a casa, dove scopre che la donna del passato che vede ogni notte è in realtà sua nonna materna Iris (Gabrielle Rose), che non ha mai conosciuto a causa di problemi mentali che avevano già traumatizzato l'infanzia della madre di Stefani, Darlene (Rya Kihlstedt), e dell'amato zio Howard (Alex Zahara). Quando la protagonista incontra finalmente Iris involontariamente innesca il piano della Morte per liberarsi della sua intera famiglia.


Alzi la mano chi all'annuncio di un nuovo Final Destination aveva pensato all'ennesimo requel a cui ci sta abituando con disarmante ripetitività Hollywood con un mix di vecchi e nuovi protagonisti? Ecco io sono il primo a essersi sbagliato di grosso. Certo Bloodlines, come in parte suggerisce il titolo, possiede alcune connessioni con il resto della saga e la cronologia del racconto si sposta tra passato e presente gettando nuova luce anche sulla più estesa mitologia inaugurata nel 2000, ma è tutto rilegato ai margini, quelli che fanno piacere ai fan di vecchia data ma senza che gli venga, metaforicamente, gratta la pancia per 110 minuti. In tutt'altro che banale controtendenza Lipovsky e Stein, a partire da una sceneggiatura firmata da Guy Busick e Lori Evans Taylor, danno vita a un sequel che mantiene i punti cardine del franchise, compresa la tendenza a raccontare le vicende di un gruppo di protagonisti completamente nuovo, rafforzando però un aspetto che spesso è stato sottovalutato, ovvero la messa in scena di personaggi per cui il pubblico provi empatia, quella vera. A differenza di quanto afferma la vulgata sul filone slasher, cui chiaramente è debitore il lungometraggio, Stefani e la sua famiglia sono esseri umani a tutto tondo, in parte corrispondenti ad alcuni archetipi del new horror inaugurato dai vari Hooper, Craven o Raimi, ma perlopiù umanizzati al punto in cui, di fatto, quelle linee di sangue espresse nel titolo si riferiscono soprattutto alla grande disamina di dinamiche familiari che qualunque spettatore può sentire vicine. Persino nei momenti più (auto)ironici e over the top il pubblico è portato da scrittura e interpretazioni attoriche a sperare che questo grande nucleo famigliare, già messo a dura prova da traumi infantili, dolorose separazioni e problemi di comunicazione, alla fine riesca ad avere la meglio sulle trame ordite dalla Morte. Ciononostante è altrettanto innegabile che una cospicua percentuale di piacere dalla visione derivi dalla straripante fantasia con cui vengono fatti fuori uno a uno i personaggi in scena, grazie anche a un distacco quasi brechtiano che, istantaneamente, prende il sopravvento non appena il meccanismo cinicamente beffardo dell'uccisione spettacolare si innesca. Trovare un equilibrio tra la volontà di raccontare esseri umani con cui entrare in contatto emotivamente e quella di divertire, come in una sorta di luna park, gli spettatori con una caricatura catartica del memento mori non è per niente semplice, come dimostra, ad esempio, Terrifier 2 (Damien Leone, 2022), eppure Bloodlines vi riesce. Non senza semplificazioni evitabili o scivoloni che neanche il sempreverde sarcasmo può nascondere (si veda la scena ambientata dopo il funerale di un certo personaggio che supera davvero il limite anche del grottesco o dello humour nero), così come non vi sono particolari vezzi formali che possano con il passare degli anni mascherare l'inevitabile invecchiamento di una CGI già oggi non al top.


Al netto di una perfezione che non gli appartiene, il film riesce in pieno nei propri obiettivi, compreso quello di esorcizzare per un paio di ore scarse l'inquietudine crescente in cui viviamo o anche solo di farci provare un sincero stupore dinanzi all'inventiva delle morti, come al cospetto di un gioco di prestigio che anche stavolta ce l'ha fatta sotto al naso.

P.s. c'è chi ha dovuto asciugare almeno una lacrima per la scena (improvvisata) con cui Tony Todd si congeda dal pubblico, diegetico e non, e chi mente.

domenica 4 maggio 2025

COMPANION: GOOD GUYS STAB YOU IN THE FRONT

In un periodo transitorio come quello attuale per il cinema, sopravvissuto alla fine del trend dei cinecomics, così come all'ennesima morte annunciata dovuta al COVID-19 e alla contestuale esplosione dello streaming casalingo, vedere una major produrre e distribuire su larga scala opere con budget ristretti e lontane da qualsivoglia franchise appare quasi utopia, eppure quest'anno Warner Bros, probabilmente quella più in difficoltà tra le grandi potenze hollywoodiane, ha portato sugli schermi di tutto il mondo Companion. Diretto dall'esordiente al lungometraggio Drew Hancock, motivo per cui la campagna marketing ha sottolineato soprattutto la presenza nelle vesti di produttore del fautore di Barbarian Zach Cregger, il film ha ricevuto reazioni entusiastiche da parte della critica, specie negli Stati Uniti, e un discreto successo al botteghino, considerando peraltro che negli ultimi tempi quasi tutte le produzioni con elementi vagamente fantascientifiche stanno faticando e non poco.


Ambientata in un futuro non troppo distante dal nostro presente, la pellicola la piccola vacanza a casa di un ambiguo quanto ricco russo di nome Sergey (Rupert Friend) della coppia formata da Iris (Sophie Thatcher) e Josh (Jack Quaid). Nella lussuosa casa del magnate europeo i due trovano anche i migliori amici del ragazzo, la scontrosa Kat (Megan Suri) e gli innamoratissimi Eli (Harvey Guillén) e Patrick (Lukas Gage). Quello che sembrerebbe un semplice weekend di relax, lontano dalle fatiche della quotidianità, viene rivoluzionato da due eventi concatenati: il tentativo di stupro da parte di Dimitry nei confronti di Iris e la rivelazione che questa e Patrick sono in realtà androidi accompagnatori.


Già dalla sequenza introduttiva, quella che mostra come si sarebbero conosciuti i protagonisti, Companion mette in chiaro la propria natura estremamente e volutamente derivativa, dato lo spirito marcatamente postmoderno con cui affronta sia i generi, sia i temi al centro del racconto. La voce over di Iris, il suo abbigliamento da fidanzata modello secondo i canoni borghesi americani e persino i colori pastello di fotografia e scenografia mettono in luce una lunga serie di riferimenti ipertestuali topici per il panorama filmico a cavallo tra anni Novanta e Duemila (fase storica in cui il postmodernismo ha trovato il proprio canto del cigno nell'immaginario mainstream) e per le riflessioni da proporre allo spettatore, da La donna perfetta (The Stepford Wives, Frank Oz, 2004) al periodo pulp di Guy Ritchie, passando per Her (Spike Jonze, 2013) e persino opere meno conosciute come Virtual Sexuality (Nick Hurran, 1999) e Dovevi essere morta (Deadly Friend, Wes Craven, 1986). Altrettanto postmoderna è l'ironia, spesso molto caustica e amara, che permea la narrazione, probabilmente indispensabile oggi per rendere digeribili al grande pubblico i momenti più oscuri e disturbanti della vicenda, ma che al contempo esalta alcuni degli interpreti (in particolare Quaid) e affossa appunto la problematizzazione delle riflessioni poste da Hancock. Le montagne russe costanti tra incursioni nel lato più oscuro dell'umanità e del suo utilizzo della tecnologia e le battute dei personaggi, infatti, da un lato avvicinano lo stile narrativo a quello dei meme, attirando in tal senso lo spettatore Millennial o Gen-Z, dall'altro depotenziano la profondità della portata poetica del lungometraggio, specie se si considera che le intuizioni di cui si fregia non sono certo nuove per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l'audiovisivo.

Ciononostante il mix di generi orchestrato dal regista statunitense si adatta efficacemente alla volontà di mettere in scena certe dinamiche tossiche che imperversano tra le coppie, di qualunque orientamento, che nascono però in primis dalle insicurezze che vive il maschio in una società in trasformazione. Il ruolo di potere incontrastato che ha sempre rivestito l'uomo viene oggi, fortunatamente, ridiscusso e questo porta a una costante ricerca da parte di molti maschi, anche molto giovani e istruiti, di relazioni basate non sulla reciprocità, bensì sulla soddisfazione egoistica del proprio bisogno di controllo e, conseguentemente, sulla sensazione di essere il centro di gravità permanente dell'altro. Un tale concentrato di narcisismo, mancanza di empatia e pratiche di gaslighting viene evidenziato nella pellicola dalla scelta di Josh di abbandonare ogni tentativo di trovare una compagna compatibile in favore di una artificiale, da lui modellata e priva di autonomia vera e propria. Si pensi ad esempio a come ne possa modificare le capacità intellettive o alla sequenza flashback in cui il giovane, subito dopo aver configurato Iris, come primo utilizzo pensa immediatamente al sesso. Altrettanto importante nella rappresentazione di suddette dinamiche di potere all'interno della coppia è la caratterizzazione del personaggio dal volto di Jack Quaid come "bravo ragazzo", quello che noi italiani purtroppo abbiamo sentito fin troppo spesso affibbiato a colpevoli di femminicidi brutali e totalmente premeditati. Josh è realmente convinto di essere nel giusto da un punto di vista etico, poiché figlio di secoli di cultura patriarcale che ne ha difeso le pretese sul prossimo, specie se donna, ma tutto questo non potrebbe forse portare alla scia di uccisioni e violenze presenti nel film senza un'ulteriore componente: la profonda crisi economica e sociale del mondo post-capitalista. In fondo perché un trentenne codardo, immaturo e di classe media come il protagonista/villain dovrebbe mai pensare di mettere in moto il piano criminale concernente Dimitry? Niente di tutto questo gli sarebbe mai passato per l'anticamera del cervello senza un contesto di enorme decadimento del benessere economico e dei connessi equilibri sociali che tutti noi stiamo vivendo a partire dal famigerato crollo delle borse mondiali del 2008. Una condizione di costante incertezza verso il futuro, improvvisazione interminabile per riuscire a portare il pane in tavola in qualche monolocale il cui affitto costa quasi quanto quel tanto agognato stipendio derivato da un impiego rigorosamente a tempo determinato. I Josh sono evidentemente figli anche di questa situazione, oltre che del tradizionale patriarcato messo finalmente in discussione dalle nuove generazioni, e questo lo si può evincere anche da un personaggio quale Eli, certamente più positivo, visto l'amore sincero che prova verso Patrick, ma che accetta di far parte delle orchestrazioni dell'amico pur di avere la sua fetta di denaro. In barba anche al politically correct odierno che non vorrebbe mai una figura queer cadere nelle tentazioni del lato oscuro della moralità.


Chissà cosa sarebbe potuto essere Companion tra le mani di un profondo conoscitore delle meccaniche di genere come Carpenter o, restando tra le fila di autori più giovani e attivi nell'oggi, Leigh Whannell, che con L'uomo invisibile (The Invisible Man, 2020) aveva già affrontato le medesime tematiche, ma con ben altra potenza immaginifica, conoscenza formale del mezzo e pregnanza. Al netto di questi what if ci godiamo un film molto godibile, recitato magnificamente dalla coppia protagonista e che può aiutare una fascia di pubblico non così avvezza a riflettere su ciò che ha intorno o persino dentro casa.

martedì 8 aprile 2025

WOLF MAN: LICANTROPIA NEL MONDO POST-COVID

Tra gli appassionati di settima arte non è certo passato inosservato lo strano caso dei classici mostri Universal, su cui la major statunitense sperava di poter imbastire un intero universo cinematografico, sul solco del MCU, a partire da La mummia (The Mummy, Alex Kurtzman) del 2017, che però si è rivelato un grosso fallimento, nonostante il coinvolgimento di star del calibro di Tom Cruise e Russell Crowe. Accantonato questo progetto i vertici della nota casa di produzione hanno deciso di virare verso lidi molto meno rischiosi economicamente e slegati drammaturgicamente, formando un sodalizio con una garanzia nella massimizzazione dei ricavi con budget irrisori come Blumhouse. Il primo risultato di tale strategia è stato l'eccezionale L'uomo invisibile (The Invisible Man), scritto e diretto da Leigh Whannell nel 2020, capace di generare grandi profitti, ma anche ottime recensioni, persino troppo poco lusinghiere a mio avviso. Visti i risultati Universal scrittura lo stesso autore di Upgrade (Leigh Whannell, 2018) per offrire una rivisitazione contemporanea anche dell'Uomo lupo, che arriva nelle sale di tutto il mondo nel corso di gennaio del 2025 con il titolo Wolf Man. Questa volta, purtroppo per il cineasta americano, il box office latita e la critica si divide tra detrattori e giudizi positivi ma mai vicini all'eccellenza.


Dopo un prologo ambientato negli anni Novanta, dove tra i boschi dell'Oregon un cacciatore (Sam Jaeger) si imbatte, insieme al figlio Blake (Zac Chandler), in una strana creatura feroce, il film si sposta nella San Francisco del presente, dove l'ormai adulto Blake (Christopher Abbott) vive insieme alla moglie giornalista Charlotte (Julia Garner) e la figlia Ginger (Matilda Firth). L'uomo, divenuto uno scrittore, vive un periodo di crisi lavorativa che affronta dedicandosi alle cure della piccola di casa, visti anche i numerosi impegni della consorte, che non sembra passare molto tempo con la famiglia. Proprio per rinsaldare il legame con l'amata, il protagonista coglie l'occasione della notizia del decesso del padre, con cui aveva interrotto ogni rapporto da anni, per organizzare un viaggio verso il piccolo paesino dell'infanzia con moglie e figlia, lontani dallo stress della vita quotidiana e immersi negli splendidi paesaggi del luogo.


Il licantropo, seppur con minore successo pop rispetto ad altre figure sovrannaturali come il vampiro o lo zombie, rappresenta un archetipo così radicato nell'immaginario collettivo da secoli, ben prima che George Waggner nel 1941 dirigesse il celeberrimo L'uomo lupo (The Wolf Man) con l'iconico Lon Chaney Jr., per cui ogni tipologia di società, distante l'una dall'altra nello spazio e nel tempo, ne ha dato una propria versione. Allo stesso modo sul grande schermo tanti autori hanno adattato tale mitologia alla propria personalità o poetica, dando vita al dolente gotico targato Hammer con L'implacabile condanna (The Curse of the Werewolf, Terence Fisher, 1961), così come alla rilettura postmoderna e femminista di Ginger Snaps (Licantropia Evolution, John Fawcett, 2000). Whannell opta per un'ulteriore versione rispetto alle succitate, ancor più strettamente connessa all'attualità e ad alcune tematiche che lo sceneggiatore di Saw - L'enigmista (Saw, James Wan, 2004) aveva già affrontato nei suoi lungometraggi da regista. A cominciare dalla sequenza d'apertura, appare evidente come il racconto voglia ancora una volta mettere in scena la disgregazione dei rapporti famigliari e l'incapacità di comunicare tra uomini, non limitandosi però all'ormai ben noto topos della dialettica tra civiltà e natura selvaggia, città e provincia, ma spostando il focus di questo tema su quanto questa atavica problematica si insinui anche nelle relazioni affettive più apparentemente progressiste. Blake, a differenza del violento e machista genitore, si occupa a tempo pieno della casa e della prole, lascia tranquillamente che sua figlia gli applichi il rossetto sulle labbra e cucina anche per la moglie, che sembra sostenere da sola da un punto di vista economico l'intero nucleo. Il ribaltamento degli stereotipi di genere potrebbe a prima vista espletare una sorta di sogno per qualunque semplicistica riduzione dell'American Dream 3.0, se solo no diventasse evidente, minuto dopo minuto, il disagio provato dal protagonista per una condizione che mette a dura prova quella mascolinità da lui ripudiata tagliando ogni cordone ombelicale con la figura paterna, ma che al contempo si insinua ancora oggi in ogni aspetto della società, fino a tramutarsi, letteralmente in un virus quando trascina i propri cari nel locus horribilis tipico della narrativa gotica in cui nasce l'idea della licantropia, solo che in questo caso non è una magione ottocentesca o medievale, bensì una foresta del tutto slegata dalle comodità e tecnologie moderne. Il posto ideale, insomma, dove la civiltà lascia il posto agli istinti repressi e, conseguentemente, le conquiste sociali di Blake finiscono in secondo piano rispetto all'istinto predatorio dell'uomo e a millenni di mascolinità tossica perpetrati dalle comunità umane. Simbolo, neanche troppo velato, di questo scontro è quello tutto fisico tra lo scrittore e l'ormai ex cacciatore nel momento in cui entrambi si trovano sotto gli effetti del morbo del lupo mannaro: facendo leva sugli ultimi bagliori di razionalità rimastigli, Blake uccide persino il padre, creduto già morto, pur di proteggere la sua famiglia, riuscendo in un solo colpo a recidere definitivamente ogni legame con il proprio passato, anche ovviamente da un punto di vista freudiano, e ad assumere quel ruolo di pater familias che finora aveva sempre relegato alla donna, con tutto ciò che comporta per un uomo cresciuto in un ambiente dal machismo conclamato.


La scelta di trasformare la licantropia in una sorta di infezione, metafora di quella insita in ogni maschio alla ricerca di un ruolo ben definito in una società sempre più liquida e (fortunatamente) lontana dagli schemi tradizionali, non si traduce in una manichea demonizzazione di Blake. Mantenendo quella tragicità tipica del lupo mannaro, molto vicina a quella degli eroi della tradizione teatrale greca dei vari Edipo, Oreste ecc., la macchina da presa non smette di provare empatia nei confronti del protagonista, che resta tale anche nel corso di una trasformazione che, invece di avvenire nel giro di pochi minuti o addirittura secondi, si rivela graduale e prolungata, facendo perdere progressivamente la ragione e il controllo di sé all'uomo a piccole dosi. Ecco dunque che il regista ci porta direttamente nei panni sempre più scomodi di Blake tramite sequenze soggettive in cui lo spettatore può provare quasi sulla propria pelle e con i propri occhi gli effetti di tale mutazione: udito sempre più sensibile, fame insaziabile, capacità di distinguere i colori sempre più animalesca e infine una totale incapacità di comunicare con gli umani. Quest'ultima caratteristica diventa centrale, poiché cos'è in fondo l'essere umano se non un animale sociale, in grado di condividere esperienze ed emozioni con i propri simili, specie quelli a cui tiene di più? La progressiva perdita di questa facoltà diventa il fulcro sentimentale della discesa negli inferi della famiglia Abbott, al punto in cui persino gli ottimi effetti speciali pratici che sottolineano il cambiamento in Blake impallidiscono dinanzi al dolore derivato dallo spezzarsi del profondo filo emozionale che connetteva l'uomo a Charlotte e ancor di più a Ginger, che a più riprese scherzava con il papà fingendo di saper leggere nella sua mente e nel suo cuore. Attraverso una narrazione estremamente asciutta, performance estremamente convincenti del cast e la vicinanza della mdp, che soltanto in rari casi si concede attimi di puro estetismo con alcuni campi lunghi di notevole gusto compositivo, la pellicola colpisce in pieno la componente più irrazionale dello spettatore, ricordandoci quanto orrore possa nascondersi in quelle condizioni fisiche che possono allontanarci dagli affetti a cui siamo più legati, tanto che lo stesso regista ha dichiarato di essersi ispirato a casi a lui vicini di malattie fortemente debilitanti come la SLA o l'Alzheimer.


Wolf Man in definitiva non raggiunge probabilmente gli straordinari risultati poetici, estetici e narrativi di L'uomo invisibile, eppure resta una visione così passionale e intima rispetto a tanto cinema americano, di genere e non, da non lasciare indifferenti, in special misura chiunque abbia avuto la sfortuna di vivere sulla propria pelle l'esperienza del decadimento fisico e psicologico di una persona amata, proprio come dovrebbe fare un buon esempio di cinema a tema licantropi nella nostra contemporaneità.

venerdì 7 marzo 2025

MIMÌ - IL PRINCIPE DELLE TENEBRE: FINALMENTE LA NAPOLI DEI DIVERSI

Il cinema italiano del terzo millennio: un universo parallelo in cui è difficile esordire persino per un figlio d'arte quando ha idee personali, un curriculum internazionale e il desiderio di andare oltre il solito compitino che piace tanto ai finanziamenti pubblici, solitamente all'insegna di commedie che sfruttino il nome di richiamo televisivo o social oppure l'ennesimo lungometraggio sfacciatamente piccolo borghese che si fregia di una presunta superiorità artistica perché nasconde la propria pochezza stuprando il termine Neorealismo. Brando De Sica, figlio di un attore simbolo del nostro panorama popolare e, conseguentemente, nipote di uno dei più grandi registi del cinema mondiale, impiega ben sette anni per poter dare vita al proprio primo film diretto in solitaria, il cui titolo Mimì - Il principe delle tenebre, evoca immediatamente scelte coraggiose e interessanti, non casualmente apprezzate in numerosi festival, anche piuttosto prestigiosi come il Sitges, mentre gode di una quasi inesistente distribuzione in sala nel corso del 2023. Da qualche settimana può essere finalmente acquistato o noleggiato sulle principali piattaforme di streaming, con ben due anni di ritardo e modalità che non incoraggiano certo il pubblico, al 99% ignaro della sua esistenza, a tentare la sorte, come avrebbero sicuramente più volentieri fatto se fosse stato disponibile direttamente all'interno dell'abbonamento di uno di tali servizi.


Ambientata nell'odierna Napoli, la pellicola mostra l'incontro tra due ragazzi che, per motivi diversi, vivono ai margini della socialità. Mimì (Domenico Cuomo) è un orfano con una rara deformazione ai piedi che lo rende oggetto di scherno da parte dei coetanei, in particolare la cricca di Bastianello (Giuseppe Brunetti), cantante neomelodico figlio di un camorrista. Carmilla (Sara Ciocca), d'altro canto, più giovane del protagonista di qualche anno, è un'adolescente goth ossessionata dal vampirismo che è fuggita dalla famiglia benestante di Codogno. I due si conoscono all'interno della pizzeria gestita dal padre adottivo di Mimì, il semplice ma dal cuore immenso Nando (Mimmo Borrelli), e finiscono per innamorarsi, donando l'un l'altro la speranza di una felicità mai vissuta, almeno fino a quando non sono costretti a fare i conti con Bastianello.


Fin dalle primissime inquadrature, tra cui un notevole plongéè su una strada zigzagante e i sinuosi movimenti di macchina che accompagnano la visita del protagonista al suo ex orfanatrofio, Mimì - Il principe delle tenebre mostra una certa reverenza verso Tim Burton,  a cui poi si aggiungeranno una lunga serie di strizzate d'occhio verso capisaldi del genere horror, in particolare quelli legati al mito di Dracula, come Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Friedrich Wilhelm Murnau, 1922) o la serie a esso dedicata prodotta da Hammer, ma anche classici nostrani come Non si sevizia un paperino (Lucio Fulci, 1972). Un repertorio cinefilo certamente utile a comprendere la grande passione per il genere insita nel regista e nel progetto in toto, ma, soprattutto, perfettamente innestato in quello che è a tutti gli effetti un racconto di formazione con al centro un freak tanto buono quanto emarginato dal resto della società che è molto vicino all'Edward Scissorhands burtoniano e al contempo, esattamente come il modello statunitense, al prototipo di Pinocchio, nato totalmente buono come il selvaggio di Rousseau e costretto, suo malgrado, a conoscere in prima persona quanto l'uomo possa essere meschino e crudele con il prossimo, prima di diventare un bambino vero/adulto.


Altrettanto riconducibile all'immaginario dell'autore di Batman (Tim Burton, 1989) è certamente la componente dark su cui si concentra lo sguardo empatico di De Sica, stavolta però con una netta distinzione: se nel cineasta statunitense questa caratteristica deriva principalmente da una lunga serie di esempi provenienti dal mondo della fantasia o comunque dell'arte, nel caso del collega italiano c'è molto di reale, per quanto stilizzato, nel milieu a cui il giovane pizzaiolo viene introdotto da Carmilla. Chiunque abbia vissuto o anche solo frequentato Napoli sarà avvezzo a una delle sue tantissime contraddizioni, ovvero quella tra un'immagine popolare fatta di sole, mare e spirito eternamente allegro diffusa anche a livello turistico e un'anima sotterranea (persino fisicamente) ricca di folklore oscuro, fantasmagorico ed esoterico, dove le leggende sul munaciello e le tante personalità storiche legate all'alchimia arrivano fino a far ipotizzare che Vlad l'impalatore possa essere sepolto nel capoluogo campano. A ciò si aggiunge un substrato di sottoculture giovanili fervido fin dai tempi della contestazione studentesca sessantottina, successivamente sfociata in una consistente presenza di adolescenti punk, goth o emo che ancora oggi si incontrano in alcuni luoghi simbolo del centro storico, costretti però a convivere con i pregiudizi di quella parte della popolazione ignorante e invischiata nella mentalità da guappi che spesso li trasformano in oggetto di bullismo. Esperienze tutt'altro che immaginifiche o di pura trasposizione di topoi visti sul grande schermo, che vengono però ammantati di un'aura fiabesca onnipresente, come si può evincere anche dai personaggi di Nando e dell'amica maga transessuale Giusi (Abril Zamora), novelli Geppetto e Fata Turchina che rappresentano un faro di amore e speranza nella travagliata esistenza di Mimì e ne accettano la diversità persino quando il fantastico entra prepotentemente all'interno della vicenda. Ingresso peraltro segnato da una sequenza quasi remake del già citato Nosferatu che da sola vale come biglietto da visita per il gusto estetico e poetico dell'autore, che sembra affermare quanto la potenza dell'immaginazione, simboleggiata in questo caso da quella cinematografica, possa segnare una svolta per chi nella realtà trova solamente sofferenze e non ride mai, neanche alle battute dei film comici, che capisce "perché mica sono scemo".


In un tripudio di orrore e tenerezza che ben definiscono l'esperienza del passaggio dall'adolescenza all'età adulta, con tanto di momenti estremamente gore e la fine del personaggio di Bastianello che davvero racchiude tutta l'ipocrisia del machismo dei piccoli delinquenti della Napoli post-Gomorra, Mimì - Il principe delle tenebre risulta un'opera prima che, come il suo protagonista, naviga tra mari tempestosi unicamente con la forza del proprio cuore e di tante altre virtù che nessuno o quasi, purtroppo, supporta.

sabato 15 febbraio 2025

LOVE LIES BLEEDING: UNA FIABA DI SANGUE, STEROIDI E FEMALE GAZE

All'interno di un mondo profondamento conservatore, al netto dello sbandierato progressismo di facciata, come quello del cinema americano, dove si definiscono giovani autori ultraquarantenni, il percorso di ascesa di Rose Glass rappresenta la proverbiale boccata di aria fresca. Classe 1990, dopo una gavetta fatta di corti, esordisce al lungometraggio nel 2019 con l'horror Saint Maud, prodotto da A24, che le permette di girare anche il successivo Love Lies Bleeding, accolto con enorme entusiasmo al Sundance e successivamente da buoni risultati anche al box office americano, considerando le aspettative per un progetto lontano dalle coordinate di un blockbuster.


Ambientato in un piccolo sobborgo del New Mexico nel 1989, il film mette in scena l'incontro folgorante tra Lou (Kristen Stewart), proprietaria di una palestra, e Jackie (Katy O'Brian), bodybuilder appena arrivata in città. Le due si innamorano immediatamente ma le complessità rappresentate da una relazione omosessuale in quel periodo storico vengono rese ancor più estreme dai problemi legati alla famiglia di Lou, composta da una sorella (Jena Malone) costantemente picchiata dal marito (Dave Franco) e un padre (Ed Harris) immerso in loschi affari celati dietro un poligono di tiro.


Fin dalle primissime inquadrature, tutte incentrare sui fisici scolpiti che popolano la palestra della protagonista, con tanto di lungo piano sequenza sfacciatamente estetizzante, Love Lies Bleeding mette in chiaro quanto il corpo sia centrale, persino nelle sue componenti più feticistiche ma attraverso una lente prettamente femminile. Il mondo dei body builder, in grande ascesa non a caso nel decennio edonistico per eccellenza quali sono stati gli anni Ottanta, viene osservato con un mix di distanza critica e curiosità dallo sguardo spento e consumato dalla vita di Lou, la cui introduzione con le mani letteralmente nello sterco preannuncia una figura classicamente tragica, ma reinventata dalle coordinate della società reaganiana, dove la diversità è una malattia e, pur di mantenere quella facciata di rispettabilità borghese, si è disposti a sacrificare ogni sogno e velleità personale, specie se si è donna e provenienti da un nucleo famigliare tanto disfunzionale quanto violento. Violenza che pervade ogni singolo aspetto dell'ambiente in cui la ragazza vive, così fieramente americano e, conseguentemente, intriso di machismo, esibizionismo aggressivo e prevaricatore, simboleggiati proprio dall'ossessione per i muscoli, così come per le armi da fuoco. In tal senso sorprende il personaggio di Jackie, che inizialmente sembra fare propri, in maniera quasi passiva, tutti questi caratteri preminentemente maschili per farsi strada in una comunità così individualista e spregiudicata, per poi mostrare, nel corso del rapporto con l'amata, i più intimi motivi che la spingono a rispondere alla forza con una forza maggiore. Ecco dunque che il culturismo assume i contorni di uno strumento per l'affermazione di sé nel classico senso dell'american dream, che però, come sempre accade, presenta anche tante spine, simboleggiate in questo caso dall'uso di sostanze anabolizzanti che finiscono per prendere il sopravvento sulla volontà della giovane, fino a una sequenza a metà tra l'horror vero e proprio e i momenti più dolorosamente visionari di Requiem for a Dream (Darren Aronofski, 2000), con il quale in comune c'è anche il compositore Clint Mansell.


Visivamente Glass dipinge un'opera che non rinnega l'estetismo sfacciato del suo esordio, specialmente quando gioca con il ralenti e tinte ultra sature per ricreare la sensualità delle immagini degli anni Ottanta (interessante l'aneddoto secondo cui la regista avrebbe chiesto al cast di vedere Showgirls, diretto da Paul Verhoeven nel 1995, per comprendere l'atmosfera ricercata), così come le incursioni orrorifiche e le esplosioni di violenza grafica, ciononostante la macchina da presa tende maggiormente a porre lo spettatore all'interno del punto di vista delle due eroine, rinunciando all'algidità che spesso caratterizza le produzioni A24. Il cuore della pellicola, difatti, è rappresentato dalla palpabile chimica tra di esse, espletata anche tramite le sequenze di sesso, ma soprattutto negli sguardi complici e ricchi di desiderio, che le porta a sfidare ogni legge della società pur di vivere il loro sogno di amore e libertà, impossibile da realizzare senza sporcarsi le mani quando il potere è così ingiustamente maschilista. Motivo per cui le due scene finali, intrise di un mix anche autoironico tra realismo magico ed escapismo puro, mettono il punto esclamativo a una rielaborazione del neo-noir americano nel solco della tradizione millenaria della fiaba, alla stregua di quanto fatto da Refn con Drive (2011), stavolta però abbandonando ogni topos su cavalieri dall'armatura scintillante che si sacrificano per salvare la dama in pericolo. Qui, nel pieno dell'esasperazione della mascolinità tossica made in US, le donne possono tornare libere soltanto con le proprie forze, riversando sui prevaricatori la loro stessa medicina, fino al dolce perdersi tra gli sconfinati orizzonti del deserto americano, protagonista assoluto della mitologia tutta al maschile della superpotenza americana.



mercoledì 5 febbraio 2025

LISA FRANKENSTEIN: LA RIVINCITA DEL MOSTRUOSO (FEMMINILE)

Chi avrebbe immaginato che un breve romanzo in bilico tra fantascienza e horror (generi peraltro agli albori al tempo) scritto da una giovanissima scrittrice britannica in seguito a una sorta di scommessa intorno al 1816 avrebbe rivoluzionato per sempre l'immaginario collettivo, tanto da essere il soggetto di almeno due trasposizioni cinematografiche anche quest'anno, a più di 200 anni di distanza? Frankenstein o il moderno Prometeo rappresenta ormai un archetipo, un mito che, in quanto tale, è passibile di una infinita gamma di rivisitazioni, tra le quali si inserisce l'esordio dietro la macchina da presa di Zelda Williams, figlia del compianto Robin, la quale firma nel 2024 Lisa Frankenstein. Sceneggiato da un talento quale Diablo Cody, il film passa purtroppo inosservato al botteghino americano, motivo per cui in Italia arriva direttamente in home video, mentre la critica appare piuttosto confusa sul risultato, in maniera non dissimile da quanto accaduto con un altro cult nato dalla mente della screenwriter statunitense, Jennifer's Body (Karyn Kusama, 2009).


Ambientata nel 1989, come si evince dal riferimento a Senti chi parla (Look Who's Talking, Amy Heckerling), la pellicola segue le disavventure di Lisa (Kathryn Newton), adolescente orfana da parte di madre che vive con un padre estremamente naif (Joe Chrest), la sorellastra cheerleader Taffy (Liza Soberano) e l'insopportabile matrigna Janet (Carla Cugino). La ragazza vive completamente isolata dai suoi coetanei e trova come unico conforto il tempo che trascorre al cimitero locale, nel quale è rimasta particolarmente colpita dalla tomba riservata a un giovane morto nel 1837 (Cole Sprouse). Proprio questi, mentre la protagonista si trova sola a casa, torna in vita grazie a una potente scarica elettrica originata da un violento nubifragio e si presenta dinanzi a Lisa, che, dopo la paura iniziale, instaura un rapporto di amicizia con lui e decide di aiutarlo a riacquistare le funzioni vitali e le parti del corpo perse.


Come si può evincere già da questa breve sinossi o dai titoli di testa animati che introducono la backstory della Creatura, Lisa Frankenstein propone una rilettura postmoderna del capolavoro di Mary Shelley fortemente influenzata dalla poetica di Tim Burton. Il peculiare mix di generi, horror e commedia in primis, così come la fascinazione per il cinema delle origini (si pensi alla sequenza onirica che cita Pabst e soprattutto George Méliès) e il ritratto di una provincia americana estremamente stereotipata e insofferente verso qualunque variatio rispetto ai canoni della morale borghese portano subito alla mente i tratti più peculiari della filmografia dell'autore di Ed Wood (Tim Burton, 1994). In fondo il racconto si dipana proprio nello stesso anno di uno dei grandi capolavori del succitato cineasta, quel Batman (Tim Burton, 1989) che aveva inserito all'interno del multiforme universo supereroistico una dolente nota introspettiva che vedeva nel Cavaliere oscuro un outsider rispetto al sentire comune. E come non trovare nell'abbondanza di colori pastello della fotografia realizzata da Paula Huidobro una connessione a quella di Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, Tim Burton, 1990), dove il contrasto tra essi e il look cupo del protagonista simboleggiano quello tutto interiore tra maggioranza e freaks?


Proprio da questo parallelo, però, si può iniziare a evincere quanto la coppia Williams/Cody non si limiti a sciorinare una lunga lettera d'amore a Burton, bensì ne rielabori l'amore nei confronti dei diversi attraverso una lente ancor più contemporanea e vicina a quanto possa essere ancor più dura per una donna non riuscire ad adeguarsi alla massa. Nella pellicola in analisi, difatti, le tinte accese, tipiche anche dell'estetica e della moda anni Ottanta, rispecchiano proprio la diversità di Lisa, la cui passione per il macabro e la musica goth e darkwave non si rispecchia in un ormai abusato look oscuro (con alcune eccezioni), ma, al contrario, in una costante esplosione tonale che stigmatizza visivamente il piattume che contraddistingue il resto dei personaggi, tutti fin troppo impegnati a indossare i panni a loro richiesti dalla società: dal nerd che usa il cinema come metodo per avvicinare le ragazze al bel tenebroso che cita le massime più banali di Oscar Wilde, passando per le immancabili ragazze popolari che frequentano atleti e giocatori di basket. Altra variazione sul tema rispetto ai canoni del teen movie americano è rappresentata dal personaggio di Taffy, la quale, dopo una fase iniziale dove sembra rispettare il topos della cheerleader, si rivela ben più sfaccettata e complessa, costretta a seguire determinati comportamenti e modelli per non essere esclusa dalla comunità, come d'altronde succedeva a Jennifer nel cult diretto da Karyn Kusama, e che nonostante i caratteri così diversi ama davvero la sorella acquisita, al punto da discutere anche con la perfida madre, il cui egoismo e odio nei confronti di qualunque deviazione rispetto al pensiero borghese stride incredibilmente con il suo lavoro in una clinica per problemi psichiatrici. La protagonista stessa, al di là dei simbolismi estetici, non si limita al ruolo di eroina senza macchia osteggiata dal conservatorismo americano; il suo percorso di persa di coscienza di sé, tipico del Bildungsroman, le permette di scendere a patti anche con gli istinti che teme maggiormente e che aveva represso fino all'incontro con la Creatura, che, al contrario di quanto avveniva nel romanzo britannico, agisce come forza dionisiaca in grado di smuovere l'essenza più profonda della ragazza. Una liberazione dai tratti certamente grotteschi e sarcastici che però rendono efficacemente l'idea di quanto la femminilità ancora oggi venga associata a concetti misogini e arcaici come quello del mostruoso femminile, centrale nella poetica di Cody e della sua idea di horror come genere per eccellenza con cui esprimere il bisogno della donna di vivere senza più i vincoli in cui per secoli è stata rinchiusa da società prettamente patriarcali.


Purtroppo Lisa Frankenstein pecca di numerose ingenuità e defezioni legate probabilmente anche alla poca esperienza di Williams, come un registro formale a mio parere fin troppo vicino a quello inquietantemente blando e impersonale da produzioni per lo streaming, ma affascina per la libertà con cui attinge a un determinato patrimonio iconologico per parlare a chiunque si sia mai sentito escluso dalla maggioranza e strappa tanti sorrisi, portando qualunque spettatore a fare il tipo per una coppia adorabilmente romantica, nel senso più storico del termine.