domenica 10 agosto 2025

THE OUTRUN - NELLE ISOLE ESTREME: LET THE OCEAN TAKE ME

A distanza di dieci anni dall'uscita dell'album che ha reso famosi, almeno tra gli appassionati di metalcore, gli Amity Affliction la cineasta tedesca Nora Fingscheidt scrive e dirige un film che mi ha immediatamente evocato quel Let the Ocean Take Me, cantato anche nel ritornello di Don't Lean on Me: The Outrun (2024). Il film, voluto fortemente dalla coppia formata da Saoirse Ronan e Jack Lowden, entrambi co-produttori, è un adattamento dell'omonima autobiografia di Amy Liptrot, co-sceneggiatrice insieme alla regista teutonica, presentato al Sundance Festival, dove ha ricevuto ottime recensioni, mentre in Italia è passato pressoché inosservato.


Seguendo un andamento cronologicamente non-lineare, la pellicola segue il tentativo di tornare a vivere davvero da parte di Rona (Saoirse Ronan), quasi trentenne laureata in biologia con problemi di alcolismo. Dopo essersi disintossicata in una comunità per 90 giorni, la giovane lascia Londra per le Orcadi, dove vivono i genitori, seppur separati. La convivenza con i due non è semplice, così come il progressivo reinserimento nella società tramite un lavoro per una ONG che si occupa di preservare la fauna locale, mentre i ricordi del passato e la mancanza del suo ex fidanzato Daynin (Paapa Essiedu) contribuiscono alle difficoltà della protagonista.


The Outrun inizia con la voce fuori campo di Rona che racconta allo spettatore di alcune particolari figure della mitologia norrena in grado di alternare forma acquatica e umana, ma che se restano sulla terraferma troppo a lungo restano intrappolate nell'involucro terrestre, anelando per il resto della loro esistenza il ritorno tra gli abissi, mentre la macchina da presa si sofferma proprio sulle onde dell'Atlantico. Un prologo quanto mai profetico per la narrazione che segue, il cui andamento ciclico e paratattico ricorda l'azione delle onde stesse e che mette in scena la costante battaglia di una donna che sembra trovare la propria ragione d'essere solo a contatto con il mare. La giovane biologa, del quale vengono mostrati frammenti di vita fin da quando è bambina, appare sempre fuori posto, vicina solamente all'apparenza alle persone che la circondano, che raramente riesce a comprendere. Probabilmente è questo disagio esistenziale, la consapevolezza di non appartenere a nessun luogo, esasperata anche dalla disorientante vastità di una metropoli come Londra, che la porta a rifugiarsi nell'alcol, senza il quale, parafrasando quello che dice a un compagno nel percorso di riabilitazione, non riesce proprio a vedersi felice. Nei flashback del suo percorso universitario e della convivenza con Daynin, l'unica persona con cui intrattiene conversazioni che non siano di pura circostanza, è quasi sempre alticcia o completamente ubriaca, che si tratti di contesti felici o di ricordi dolorosi. Una dipendenza che la porta a fare terra bruciata intorno a sé, sul piano lavorativo prima e poi su quello personale, perdendo proprio l'amore della sua vita e, in una spirale discendente, arrivando a toccare il fondo quando subisce un tentato stupro.


Il turbine di salti temporali tra presente e passato rende evidente anche quanto abbia influito sul disagio cronico della ragazza la convivenza con la precaria salute mentale del padre, le cui crisi dissociative distruggono a poco a poco il nucleo famigliare di Rona, ma sembrano al contempo confermare l'affascinante ipotesi di matrice mitopoietica che padre e figlia siano in fondo anime incomprese e cronicamente infelici poiché nate per vivere tra le forze ancestrali della natura, in particolare il vento nel caso dell'uomo e il mare per la giovane. Una sorta di interpretazione in chiave panica della malattia mentale tanto efficace poeticamente grazie in primis alla straordinaria interpretazione di Ronan, il cui corpo si rivela un serbatoio infinito di storie ed emozioni come un aedo di epoca omerica, ma in misura non inferiore alla potenza immaginifica della regia di Fingscheidt, che rende palpabile la connessione tra la protagonista e i suggestivi paesaggi delle Orcadi attraverso illuminazione rigorosamente naturale e un uso del colore fortemente simbolico, che si ritrova nelle variegate sfumature del cielo nordico, così come in dettagli apparentemente insignificanti come le tinte di capelli di Rona o le variazioni nello smalto sulle sue unghie. Esemplare la lunga sequenza priva di dialoghi nei minuti finali della pellicola, in cui la danza liberatoria della giovane piano piano si tramuta nei movimenti di un direttore d'orchestra i cui strumenti musical sono le primigenie forze della natura, le uniche in grado di aiutarla realmente a uscire dal tunnel della dipendenza quando vi si abbandona completamente, come in un coraggioso bagno tra le gelide acque dell'oceano tra i richiami dei versi delle foche.

In un momento storico di progressiva e fantasmatica smaterializzazione dell'esperienza umana, The Outrun è una splendida, seppur sofferente, esperienza aptica resa possibile solo dalla magia del cinema.   

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