Il Sundance Film Festival ha lanciato nel corso degli anni molti giovani talenti provenienti dalla scena indipendente statunitense, alcuni dei quali divenuti autori ben riconosciuti a livello globale mentre altri continuano a cercare una propria dimensione stabile. Più o meno a metà tra queste due categoria si potrebbe collocare Drake Doremus, autore di pellicole che non sono ancora riuscite a fare breccia nel pubblico generalista ma che nel 2013 colpì profondamente il festival fondato da Robert Redford con Like Crazy, suo secondo lungometraggio. Girato con un budget davvero irrisorio per gli standard hollywoodiani il film conquistò la critica americana, lanciò la carriera da star di Felicity Jones e portò una credibilità nuova al compianto Anton Yelchin.
La pellicola segue, nel corso di alcuni anni, l'evoluzione della storia d'amore sbocciata all'università tra Jacob (Anton Yelchin) e Anna (Felicity Jones). Quello che sembra un idillio perfetto viene però bruscamente interrotto dalla burocrazia americana, che impedisce alla ragazza, di cittadinanza inglese, il ritorno negli USA a causa della violazione dei termini del permesso di soggiorno durante l'estate che i due innamorati hanno passato insieme. La distanza forzata costringe la coppia a separarsi, a provare a vivere due vite distinte ma con la consapevolezza di essere ancora importanti l'uno per l'altro.
L'amore non è certo un tema nuovo al cinema, per usare un eufemismo, eppure raramente capita di vederlo sul grande schermo così vicino al vissuto dello spettatore, specialmente se in quella fascia d'età compresa tra i venti e i trent'anni. Like Crazy ribalta i topoi della commedia romantica classica avvicinando la propria disanima del rapporto di coppia a un modello cinematografico rintracciabile nella trilogia di Richard Linklater iniziata con Prima dell'alba (Before Sunset, 1995). Doremus, rievocando esperienze autobiografiche, dona vita a una narrazione partorita dall'unione tra una sceneggiatura quasi del tutto priva di dialoghi e l'apporto drammaturgico dei suoi attori protagonisti, in maniera non dissimile da quanto fatto dal cineasta di Houston. Attraverso questa metodologia di scrittura i personaggi di Jacob e Anna risultano estremamente naturali e il loro feeling come coppia produce un'empatia da parte del pubblico molto potente, amplificata dall'uso insistito di inquadrature ravvicinate, come se la cinepresa divenisse essa stessa un prolungamento dei corpi e degli occhi dei due giovani. A tal proposito l'autore di Equals (2015) rinuncia a cineprese professionali in favore di fotocamere reflex, ben più agili e in grado di donare alla fotografia del film un look che ricorda le riprese private che tutti noi utilizziamo per immortalare momenti particolarmente importanti della nostra vita, specialmente quando si tratta di relazioni sentimentali. Una scelta estetica che allontana l'opera dal modello citato, così come l'ampio ricorso a jump cut ed ellissi temporali completamente opposte al concetto di unità cronologica e topologica della trilogia con protagonisti Ethan Hawke e Julie Delpy.
Proprio spazio e tempo diventano nel corso del lungometraggio fattori fondamentali: la romance tra Jacob e Anna viene esplorata nel corso di un periodo temporale ampio e la sua evoluzione viene letteralmente segnata dalla dimensione spaziale. La distanza forma un primo ostacolo all'amore che lega i due, portandoli a prendere strade divergenti, a conoscere nuove persone e forme di autorealizzazione senza però che riescano mai a dirsi davvero addio. Una situazione paradossale in cui, inevitabilmente, con lo scorrere del tempo il sentimento finisce per assumere le forme dolorose del suo ricordo, dando vita così a un finale aperto da cui traspare tutta l'amarezza nei confronti di un fato avverso. Un destino che, come purtroppo quasi tutti noi sappiamo, spesso porta l'amore a vivere una parabola discendente di questo tipo, resa nel caso dei personaggi splendidamente interpretati da Anton Yelchin e Felicity Jones ancor più tragica dall'intervento di elementi esterni (con tanto di velata ma non troppo critica alle leggi sull'immigrazione americana post-11 settembre).
Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
lunedì 20 gennaio 2020
sabato 18 gennaio 2020
ORANGE ROAD: UN LOCUS AMOENUS CHIAMATO ADOLESCENZA
In un tempo che sembra ormai sempre più lontano, non solo cronologicamente, la televisione commerciale italiana conquistava i pomeriggi di intere generazioni di ragazzi attraverso l'importazione di prodotti seriali animati giapponesi, più comunemente conosciuti come anime. Nonostante degli adattamenti quasi sempre lontani dalla fedeltà ai prodotti originali, specialmente per quanto concerne una forte censura sottesa all'idea bigotta secondo cui l'animazione sia destinata sempre e comunque a un pubblico infantile, molte di queste serie hanno conquistato il cuore di quei bambini o teenager cresciuti davanti agli schermi delle ormai obsolete tv a tubo catodico, divenendo veri e propri cult. Tra questi anime di culto trova un suo posto d'onore Orange Road (Kimagure Orange Road, Osamu Kobayashi, 1987-1988), da molti conosciuta con il titolo È quasi magia Johnny affibbiatole dallo storico doppiaggio realizzato per la sua messa in onda sui canali Mediaset a partire dal 1989. Sebbene sia in realtà questa versione ad aver fatto breccia nel pubblico italiano oggi intendo analizzare l'adattamento a opera di Yamato Video, libero da censure e fedele in tutto e per tutto all'opera originale, compresi i nomi dei personaggi. Per completezza ho deciso di includere in questo viaggio nostalgico anche i due film È quasi magia Johnny: Una scelta difficile (adattato per il nostro paese soltanto da Mediaset), diretto da Tomomi Mochizuki nel 1988, e Orange Road The Movie: … e poi, l'inizio di quella estate… (Kunihiko Yuyama, 1996), particolarmente importanti sia come conclusione delle vicende narrate nel serial televisivo che per le intrinseche qualità cinematografiche, pur non potendo aver goduto di una distribuzione in sala per quanto riguarda l'Italia.
Protagonista assoluto delle vicende narrate è Kyosuke Kasuga, quindicenne dotato, come le sorelle gemelle minori Kurumi e Manami e il pervertito nonno, di poteri ESP quali telecinesi e teletrasporto. Per poter vivere normalmente in mezzo alle persone comuni il padre del protagonista impone ai figli di non utilizzare le loro capacità paranormali in pubblico ma, a causa dei guai combinati da Kurumi, la famiglia si ritrova spesso a trasferirsi per evitare i sospetti dei conoscenti. Quando i Kasuga arrivano nella ennesima nuova città Kyosuke, mentre conta i gradini di una scalinata, incontra Madoka Ayukawa, sua coetanea della quale si innamora a prima vista e dalla quale riceve un cappello in regalo. I due si ritrovano anche nella stessa classe e sebbene dimostrino attitudini caratteriali molto diverse si troveranno ad avvicinarsi sempre di più. L'unico ostacolo a questo amore viene rappresentato da Hikaru Hiyama, migliore amica di Madoka e compagna di classe delle gemelle, che perde letteralmente la testa per il protagonista, la cui perenne indecisione porta alla nascita di un triangolo amoroso che diventa il centro della serie.
Anche dalla breve sinossi appena illustrata appare chiaro come Orange Road veleggi attraverso i codici e i topoi di generi tipici dell'animazione giapponese indirizzata a un pubblico adolescente quali commedia romantica e, appunto, teen drama ma con una reinterpretazione degli stessi assolutamente personale. A spiccare in primo luogo è la presenza di personaggi, tra cui proprio il protagonista, esper, ossia dotati di abilità extrasensoriali. Sebbene il centro del racconto non siano certamente tali poteri, è innegabile come questi ultimi diventino un espediente narrativo di grande efficacia per raccontare, con un registro spesso comico, le disavventure che Kyosuke vive a causa del proprio carattere timido e insicuro, che non gli permette di confessare i propri sentimenti a Madoka, che non a caso chiama sempre per cognome. L'incapacità di prendere decisioni del ragazzo, unita all'inesperienza amorosa tipica dell'adolescenza, incoraggia inoltre l'esuberante e un po' infantile Hikaru ad avanzare pretese su quest'ultimo, dando vita a una singolare relazione a tre all'insegna dei tipici fraintendimenti da commedia romantica, resi ancor più irresistibili dall'uso quasi sempre fallace dei poteri dei Kasuga. Al trio che forma il legame d'amore al cuore del narrato si aggiungono una serie di comprimari altrettanto ben caratterizzati e di notevole valore sia per le gag comiche (mi riferisco in particolare ai due compagni di classe pervertiti di Kasuga, Seiji e Hatta) che per i tira e molla sentimentali (fondamentali in questo il nonno del protagonista e il suo cuginetto Kazuya, capace di leggere nella mente, passare nei corpi altrui e persino di viaggiare nel tempo). Un variegato ecosistema di personaggi in grado di dare vita a una rappresentazione dello straordinario periodo adolescenziale che lo spettatore riesce a sentire estremamente vicino al proprio vissuto. La scoperta dell'amore, le difficoltà scolastiche, i primi viaggi lontani dai genitori e persino il rapporto con il dolore e la morte vengono sì alleggeriti dalla verve umoristica appena accennata ma mai banalizzati o ridotti a puro calco privo di personalità, come spesso accade invece nella commedia romantica statunitense. Il precedentemente citato espediente narrativo dei poteri ESP, in particolare, è certamente tipico della produzione audiovisiva giapponese ma il suo utilizzo all'interno di un racconto di formazione, sentimentale in primis, rappresenta una vera e propria singolarità. In Akira (Katsuhiro Otomo, 1988), magnum opus della fascinazione giapponese nei confronti degli esper, le abilità extrasensoriali sono possedute da figure di teenager (si pensi a Tetsuo in primis) ma all'interno di un mondo futuro distopico abitato da ragazzi privi di prospettive, costretti a rifugiarsi nella violenza e nella dipendenza. In Orange Road, la cui versione fumettistica è non a caso di poco successiva rispetto al manga di Otomo, al contrario, la curiosa scelta di affidare capacità paranormali a degli adolescenti si incastona in un universo diegetico in tutto e per tutto vicino a quello del pubblico, chiaramente più rassicurante ma anche egregiamente rappresentato nei suoi picchi di bellezza così come nelle sue tante storture.
Menzione particolare meritano i due lungometraggi cinematografici. Entrambi si svolgono in momenti successivi al finale della serie televisiva, mostrando finalmente la relazione Kyosuke-Madoka nella sua concretizzazione ma con stilemi formali e aspirazioni poetiche molto differenti. È quasi magia Johnny: Una scelta difficile si pone come obiettivo quello di mostrare le conseguenze immediate degli eventi accaduti nell'ultimo episodio del serial, abbandonando però la leggerezza comica tipica di quest'ultimo ed estromettendo persino tutta la componente fantastica. Attraverso uno stile caratterizzato da inquadrature di notevole durata, spesso in campo lungo o in dettaglio su oggetti o gesti solo all'apparenza futili, Tomomi Mochizuki reinterpreta l'universo narrativo a sua disposizione traducendolo in una pellicola di notevole lirismo. Impossibile restare impassibili dinanzi all'eleganza con cui viene messo in scena lo struggimento dei tre personaggi principali, il cui dolore di variegata forma (il rifiuto dalla persona amata, la fine di un'amicizia ecc.) trova il suo punto d'incontro concettuale ed emozionale in un fortissimo sentimento a metà tra Sehnsucht e Heimweh romantici. Un senso di nostalgico rimpianto nei confronti di un periodo aureo, l'adolescenza, ormai pronta a un tramonto che porta via con sé spensieratezza, ricordi e persone amate. Un'opera dunque per certi versi più vicina al suo lavoro successivo Si sente il mare (1993), altro ritratto poetico e allo stesso tempo ancorato al reale della giovinezza.
Meno sperimentale risulta Orange Road The Movie: ...e poi, l'inizio di di quella estate…, nel quale, sebbene non vengano assolutamente rinnegati gli accadimenti del lungometraggio precedente, tornano protagonisti i poteri ESP e gli intermezzi comici. Pur con un character design differente e una scelta delle inquadrature prettamente cinematografica, Yuyama recupera le atmosfere tipiche del prequel televisivo e gran parte dei suoi personaggi secondari ma attraverso un filtro nostalgico che unisce lo struggimento di ascendenza romantica di Mochizuki a una chiave di lettura metatestuale, in cui al rimpianto per il tempo che passa di Kyosuke e gli altri si unisce quello degli spettatori e dei fan in particolare. La pellicola, realizzata a quasi dieci anni dalla prima messa in onda dell'anime, finisce così per creare un cortocircuito tra la nostalgia diegetica e quella, resa ancor più evidente dai tanti flashback e easter egg, del pubblico fidelizzato. Un pubblico in gran parte costituito da ragazzi all'inizio delle disavventure di questo bizzarro triangolo d'amore (la citazione dei New Order è voluta) e che assiste finalmente al suo epilogo con almeno dieci anni di età in più. E Orange Road dimostra come poche altre opere animate (e non solo) quale abisso si trovi in mezzo a quindici e venticinque anni.
Protagonista assoluto delle vicende narrate è Kyosuke Kasuga, quindicenne dotato, come le sorelle gemelle minori Kurumi e Manami e il pervertito nonno, di poteri ESP quali telecinesi e teletrasporto. Per poter vivere normalmente in mezzo alle persone comuni il padre del protagonista impone ai figli di non utilizzare le loro capacità paranormali in pubblico ma, a causa dei guai combinati da Kurumi, la famiglia si ritrova spesso a trasferirsi per evitare i sospetti dei conoscenti. Quando i Kasuga arrivano nella ennesima nuova città Kyosuke, mentre conta i gradini di una scalinata, incontra Madoka Ayukawa, sua coetanea della quale si innamora a prima vista e dalla quale riceve un cappello in regalo. I due si ritrovano anche nella stessa classe e sebbene dimostrino attitudini caratteriali molto diverse si troveranno ad avvicinarsi sempre di più. L'unico ostacolo a questo amore viene rappresentato da Hikaru Hiyama, migliore amica di Madoka e compagna di classe delle gemelle, che perde letteralmente la testa per il protagonista, la cui perenne indecisione porta alla nascita di un triangolo amoroso che diventa il centro della serie.
Anche dalla breve sinossi appena illustrata appare chiaro come Orange Road veleggi attraverso i codici e i topoi di generi tipici dell'animazione giapponese indirizzata a un pubblico adolescente quali commedia romantica e, appunto, teen drama ma con una reinterpretazione degli stessi assolutamente personale. A spiccare in primo luogo è la presenza di personaggi, tra cui proprio il protagonista, esper, ossia dotati di abilità extrasensoriali. Sebbene il centro del racconto non siano certamente tali poteri, è innegabile come questi ultimi diventino un espediente narrativo di grande efficacia per raccontare, con un registro spesso comico, le disavventure che Kyosuke vive a causa del proprio carattere timido e insicuro, che non gli permette di confessare i propri sentimenti a Madoka, che non a caso chiama sempre per cognome. L'incapacità di prendere decisioni del ragazzo, unita all'inesperienza amorosa tipica dell'adolescenza, incoraggia inoltre l'esuberante e un po' infantile Hikaru ad avanzare pretese su quest'ultimo, dando vita a una singolare relazione a tre all'insegna dei tipici fraintendimenti da commedia romantica, resi ancor più irresistibili dall'uso quasi sempre fallace dei poteri dei Kasuga. Al trio che forma il legame d'amore al cuore del narrato si aggiungono una serie di comprimari altrettanto ben caratterizzati e di notevole valore sia per le gag comiche (mi riferisco in particolare ai due compagni di classe pervertiti di Kasuga, Seiji e Hatta) che per i tira e molla sentimentali (fondamentali in questo il nonno del protagonista e il suo cuginetto Kazuya, capace di leggere nella mente, passare nei corpi altrui e persino di viaggiare nel tempo). Un variegato ecosistema di personaggi in grado di dare vita a una rappresentazione dello straordinario periodo adolescenziale che lo spettatore riesce a sentire estremamente vicino al proprio vissuto. La scoperta dell'amore, le difficoltà scolastiche, i primi viaggi lontani dai genitori e persino il rapporto con il dolore e la morte vengono sì alleggeriti dalla verve umoristica appena accennata ma mai banalizzati o ridotti a puro calco privo di personalità, come spesso accade invece nella commedia romantica statunitense. Il precedentemente citato espediente narrativo dei poteri ESP, in particolare, è certamente tipico della produzione audiovisiva giapponese ma il suo utilizzo all'interno di un racconto di formazione, sentimentale in primis, rappresenta una vera e propria singolarità. In Akira (Katsuhiro Otomo, 1988), magnum opus della fascinazione giapponese nei confronti degli esper, le abilità extrasensoriali sono possedute da figure di teenager (si pensi a Tetsuo in primis) ma all'interno di un mondo futuro distopico abitato da ragazzi privi di prospettive, costretti a rifugiarsi nella violenza e nella dipendenza. In Orange Road, la cui versione fumettistica è non a caso di poco successiva rispetto al manga di Otomo, al contrario, la curiosa scelta di affidare capacità paranormali a degli adolescenti si incastona in un universo diegetico in tutto e per tutto vicino a quello del pubblico, chiaramente più rassicurante ma anche egregiamente rappresentato nei suoi picchi di bellezza così come nelle sue tante storture.
Menzione particolare meritano i due lungometraggi cinematografici. Entrambi si svolgono in momenti successivi al finale della serie televisiva, mostrando finalmente la relazione Kyosuke-Madoka nella sua concretizzazione ma con stilemi formali e aspirazioni poetiche molto differenti. È quasi magia Johnny: Una scelta difficile si pone come obiettivo quello di mostrare le conseguenze immediate degli eventi accaduti nell'ultimo episodio del serial, abbandonando però la leggerezza comica tipica di quest'ultimo ed estromettendo persino tutta la componente fantastica. Attraverso uno stile caratterizzato da inquadrature di notevole durata, spesso in campo lungo o in dettaglio su oggetti o gesti solo all'apparenza futili, Tomomi Mochizuki reinterpreta l'universo narrativo a sua disposizione traducendolo in una pellicola di notevole lirismo. Impossibile restare impassibili dinanzi all'eleganza con cui viene messo in scena lo struggimento dei tre personaggi principali, il cui dolore di variegata forma (il rifiuto dalla persona amata, la fine di un'amicizia ecc.) trova il suo punto d'incontro concettuale ed emozionale in un fortissimo sentimento a metà tra Sehnsucht e Heimweh romantici. Un senso di nostalgico rimpianto nei confronti di un periodo aureo, l'adolescenza, ormai pronta a un tramonto che porta via con sé spensieratezza, ricordi e persone amate. Un'opera dunque per certi versi più vicina al suo lavoro successivo Si sente il mare (1993), altro ritratto poetico e allo stesso tempo ancorato al reale della giovinezza.
Meno sperimentale risulta Orange Road The Movie: ...e poi, l'inizio di di quella estate…, nel quale, sebbene non vengano assolutamente rinnegati gli accadimenti del lungometraggio precedente, tornano protagonisti i poteri ESP e gli intermezzi comici. Pur con un character design differente e una scelta delle inquadrature prettamente cinematografica, Yuyama recupera le atmosfere tipiche del prequel televisivo e gran parte dei suoi personaggi secondari ma attraverso un filtro nostalgico che unisce lo struggimento di ascendenza romantica di Mochizuki a una chiave di lettura metatestuale, in cui al rimpianto per il tempo che passa di Kyosuke e gli altri si unisce quello degli spettatori e dei fan in particolare. La pellicola, realizzata a quasi dieci anni dalla prima messa in onda dell'anime, finisce così per creare un cortocircuito tra la nostalgia diegetica e quella, resa ancor più evidente dai tanti flashback e easter egg, del pubblico fidelizzato. Un pubblico in gran parte costituito da ragazzi all'inizio delle disavventure di questo bizzarro triangolo d'amore (la citazione dei New Order è voluta) e che assiste finalmente al suo epilogo con almeno dieci anni di età in più. E Orange Road dimostra come poche altre opere animate (e non solo) quale abisso si trovi in mezzo a quindici e venticinque anni.
mercoledì 8 gennaio 2020
LA CONGIURA DELLA PIETRA NERA: IL RITORNO AL WUXIA DI JOHN WOO
Al netto dell'amore che un persino il più appassionato (come me) può provare è innegabile come il periodo hollywoodiano di John Woo abbia vissuto non solo di luci, specialmente per l'insuccesso commerciale di produzioni ricche di divi e budget notevoli come l'ultimo Paycheck (2003). Se vi si aggiunge anche la mai troppo celata delusione per le asfissianti intromissioni dei produttori sul suo lavoro di regista appare più che sensata la sua scelta di tornare a lavorare in patria, anche se sotto l'egida del governo di Pechino che aveva sempre criticato. Tralasciando le spinose questione politiche relative alle diatribe tra Hong Kong e Cina non si può non parlare di una nuova fase ascendente nella sua carriera con il ritorno in Asia e, a proposito proprio di questo ultimo periodo, ho deciso di porre alla vostra attenzione una delle ultime opere dell'autore di Once a Thief (1991): La congiura della pietra nera (conosciuto internazionalmente come Reign of Assassins). I credits riportano in realtà come regista e sceneggiatore il più giovane Su Chao-pin, con Woo relegato al ruolo di produttore e co-regista ma state per scoprire quanto di quest'ultimo sia presente all'interno dell'opera, rendendola a tutti gli effetti parte della sua filmografia da director.
Ambientato durante la dinastia Ming, il film ruota attorno ai resti mummificati del guerriero indiano Bodhi, che, secondo una leggenda, sarebbero in grado di donare straordinari poteri a chiunque li possegga. A volersi accaparrare la preziosa reliquia è in primo luogo la setta di assassini nota come Pietra Nera, il cui leader, Cao Feng (Wang Xueqi) invia senza alcuna remora la sua allieva prediletta, Pioggia Lieve (Michelle Yeoh), ad assassinare il primo ministro Zhang pur di ottenere una metà della stessa. La donna uccide senza problemi il politico, sconfigge anche suo figlio Renfeng ma decide di non tornare alla base, scappando con il bottino. Durante la fuga conosce il monaco guerriero Wisdom, che la mette in guardia circa i punti deboli della sua tecnica di lotta finendo per essere trafitto dalla speciale spada di Pioggia Lieve, non prima però di averla convinta a rifarsi una vita priva di violenza facendosi cambiare i lineamenti del volto da un medico. Seguendo questo consiglio la protagonista assume l'identità di Zeng Jing, vive come una qualsiasi civile e arriva persino a sposarsi con il dolce Jiang Ah-sheng (Jung Woo-sung) ma il passato tornerà a bussare alla sua porta.
Tra i topoi di uno dei generi più prolifici del cinema e della letteratura cinese, il wuxia (in parte assimilabile all'occidentale cappa e spada o swashbuckler), vi è il ricorso a intrecci ricchi di articolati intrighi politici o di potere in genere e certamente anche da questo punto di vista La congiura della pietra nera rientra in pieno in tale filone. Altrettanto tipici del genere risultano i numerosi duelli all'arma bianca, contrassegnati dai classici, leggiadri movimenti dei guerrieri che rendono le battaglie più simili a delle danze di corpi privi di peso, capaci di violare continuamente la forza di gravità. La scelta di girare in costume, l'epoca storica, le congiure e i tradimenti rientrano in tutto e per tutto nei canoni del wuxia ma qualcosa contribuisce ad allontanare la pellicola da un anonimo classicismo: la presenza di John Woo. Ufficialmente il cineasta di Hong Kong funge solamente da produttore e consulente per il promettente Su Chao-pin ma la realtà dei fatti evidenzia come il suo contributo risulti decisivo sia ai fini dello sviluppo narrativo che della messinscena. Il racconto della caccia al corpo mummificato del monaco Bodhi mostra fin dai primissimi minuti una protagonista che appare come una versione femminile di quei killer dotati di un proprio codice etico e intenzionati ad abbandonare per sempre il crimine tipici del cinema di Woo, come il Chow Yun-Fat di The Killer (1989). Pioggia Lieve, proprio come il celeberrimo assassino vestito di bianco, vive una tenera storia d'amore che la convince definitivamente ad abbandonare la via dell'omicidio e per proteggere l'oggetto di questo fortissimo sentimento arriva persino a mettere in gioco la propria incolumità, rivoltandosi contro il suo stesso maestro e datore di lavoro. Attraverso un notevole colpo di scena si scoprirà poi che Jiang Ah-sheng condivide molti tratti con Jennie, la cantante resa cieca da Ah Jong e del quale quest'ultimo si innamora nel film sopracitato, evidenziando ancora di più l'assonanza con uno dei classici della filmografia dell'autore di Hard Boiled. Centrale nello sviluppo narratologico, oltre che tematico, è la capacità del medico eremita di cambiare la fisionomia dei volti attraverso un intervento chirurgico: un elemento ai limiti del magico che non può non ricordare il procedimento fantascientifico che in Face/Off del 1997 (capolavoro del periodo statunitense del director asiatico) permette lo scambio fisiognomico e identitario tra Sean Archer e Castor Troy. Attraverso questo omaggio viene non solo introdotto il tema del doppio tanto caro a Woo, bensì anche il già menzionato percorso di redenzione da parte del personaggio, splendidamente, interpretato da Michelle Yeoh assume una forza visiva nuova, amplificata dal corto circuito tra interiorità ed esteriorità.
Una direzione simile può essere rintracciata anche sul versante prettamente formale poiché i duelli che costellano il lungometraggio, tipici ovviamente del wuxia, vengono diretti con ampio ricordo al celebre ralenti del cineasta di Hong Kong, così come il ritmo del montaggio (al quale Woo avrebbe partecipato direttamente secondo quanto rivelato dalla produzione) che accomuna la danza di corpi e spade a quello di pistole e proiettili visti nei precedenti lavori. Il ralenti, inoltre, torna prepotentemente anche nelle sequenze maggiormente emozionali, tradendo quella tensione al melò che l'autore cinese aveva evidenziato fin dai tempi di A Better Tomorrow (1986).
In conclusione Reign of Assassins può essere annoverato a tutti gli effetti come un comeback di John Woo a quel genere che aveva abbandonato dopo il poco conosciuto in Occidente Last Hurrah for Chivalry (1979) e sfiorato solamente con l'epico La battaglia dei tre regni (2009-2010), regalando agli appassionati di wuxia un'interpretazione dello stesso classica e personale insieme e confermando ancora una volta la vitalità del talento di questo cineasta.
Ambientato durante la dinastia Ming, il film ruota attorno ai resti mummificati del guerriero indiano Bodhi, che, secondo una leggenda, sarebbero in grado di donare straordinari poteri a chiunque li possegga. A volersi accaparrare la preziosa reliquia è in primo luogo la setta di assassini nota come Pietra Nera, il cui leader, Cao Feng (Wang Xueqi) invia senza alcuna remora la sua allieva prediletta, Pioggia Lieve (Michelle Yeoh), ad assassinare il primo ministro Zhang pur di ottenere una metà della stessa. La donna uccide senza problemi il politico, sconfigge anche suo figlio Renfeng ma decide di non tornare alla base, scappando con il bottino. Durante la fuga conosce il monaco guerriero Wisdom, che la mette in guardia circa i punti deboli della sua tecnica di lotta finendo per essere trafitto dalla speciale spada di Pioggia Lieve, non prima però di averla convinta a rifarsi una vita priva di violenza facendosi cambiare i lineamenti del volto da un medico. Seguendo questo consiglio la protagonista assume l'identità di Zeng Jing, vive come una qualsiasi civile e arriva persino a sposarsi con il dolce Jiang Ah-sheng (Jung Woo-sung) ma il passato tornerà a bussare alla sua porta.
Tra i topoi di uno dei generi più prolifici del cinema e della letteratura cinese, il wuxia (in parte assimilabile all'occidentale cappa e spada o swashbuckler), vi è il ricorso a intrecci ricchi di articolati intrighi politici o di potere in genere e certamente anche da questo punto di vista La congiura della pietra nera rientra in pieno in tale filone. Altrettanto tipici del genere risultano i numerosi duelli all'arma bianca, contrassegnati dai classici, leggiadri movimenti dei guerrieri che rendono le battaglie più simili a delle danze di corpi privi di peso, capaci di violare continuamente la forza di gravità. La scelta di girare in costume, l'epoca storica, le congiure e i tradimenti rientrano in tutto e per tutto nei canoni del wuxia ma qualcosa contribuisce ad allontanare la pellicola da un anonimo classicismo: la presenza di John Woo. Ufficialmente il cineasta di Hong Kong funge solamente da produttore e consulente per il promettente Su Chao-pin ma la realtà dei fatti evidenzia come il suo contributo risulti decisivo sia ai fini dello sviluppo narrativo che della messinscena. Il racconto della caccia al corpo mummificato del monaco Bodhi mostra fin dai primissimi minuti una protagonista che appare come una versione femminile di quei killer dotati di un proprio codice etico e intenzionati ad abbandonare per sempre il crimine tipici del cinema di Woo, come il Chow Yun-Fat di The Killer (1989). Pioggia Lieve, proprio come il celeberrimo assassino vestito di bianco, vive una tenera storia d'amore che la convince definitivamente ad abbandonare la via dell'omicidio e per proteggere l'oggetto di questo fortissimo sentimento arriva persino a mettere in gioco la propria incolumità, rivoltandosi contro il suo stesso maestro e datore di lavoro. Attraverso un notevole colpo di scena si scoprirà poi che Jiang Ah-sheng condivide molti tratti con Jennie, la cantante resa cieca da Ah Jong e del quale quest'ultimo si innamora nel film sopracitato, evidenziando ancora di più l'assonanza con uno dei classici della filmografia dell'autore di Hard Boiled. Centrale nello sviluppo narratologico, oltre che tematico, è la capacità del medico eremita di cambiare la fisionomia dei volti attraverso un intervento chirurgico: un elemento ai limiti del magico che non può non ricordare il procedimento fantascientifico che in Face/Off del 1997 (capolavoro del periodo statunitense del director asiatico) permette lo scambio fisiognomico e identitario tra Sean Archer e Castor Troy. Attraverso questo omaggio viene non solo introdotto il tema del doppio tanto caro a Woo, bensì anche il già menzionato percorso di redenzione da parte del personaggio, splendidamente, interpretato da Michelle Yeoh assume una forza visiva nuova, amplificata dal corto circuito tra interiorità ed esteriorità.
Una direzione simile può essere rintracciata anche sul versante prettamente formale poiché i duelli che costellano il lungometraggio, tipici ovviamente del wuxia, vengono diretti con ampio ricordo al celebre ralenti del cineasta di Hong Kong, così come il ritmo del montaggio (al quale Woo avrebbe partecipato direttamente secondo quanto rivelato dalla produzione) che accomuna la danza di corpi e spade a quello di pistole e proiettili visti nei precedenti lavori. Il ralenti, inoltre, torna prepotentemente anche nelle sequenze maggiormente emozionali, tradendo quella tensione al melò che l'autore cinese aveva evidenziato fin dai tempi di A Better Tomorrow (1986).
In conclusione Reign of Assassins può essere annoverato a tutti gli effetti come un comeback di John Woo a quel genere che aveva abbandonato dopo il poco conosciuto in Occidente Last Hurrah for Chivalry (1979) e sfiorato solamente con l'epico La battaglia dei tre regni (2009-2010), regalando agli appassionati di wuxia un'interpretazione dello stesso classica e personale insieme e confermando ancora una volta la vitalità del talento di questo cineasta.
martedì 7 gennaio 2020
THE IRISHMAN: C'ERA UNA VOLTA L'AMERICA (DEI GANGSTER)
Non credo che Martin Scorsese abbia bisogno di una qualche presentazione. Persino i giovanissimi o i più a digiuno di cinema hanno imparato a "conoscerlo" grazie alla triste polemica sorta sul web per le dichiarazioni del regista sul MCU. Per la prima volta in carriera nel 2019 l'autore di Toro scatenato (Raging Bull, 1980) ha diretto un film destinato non alle sale (o almeno non a una distribuzione tradizionale nelle stesse), bensì al colosso dello streaming Netflix: The Irishman. Un'opera mastodontica per durata (circa tre ore e mezza), budget (più di 150 milioni di dollari), cast e persino effetti speciali digitali, resi possibili dalla Industrial Light & Magic. Un'operazione oggi, purtroppo, impensabile commercialmente per le major storiche che ha costretto Scorsese a rivolgersi al sempre più florido mercato casalingo, privando così molti spettatori della possibilità di godere del film sul grande schermo ma permettendo anche alla pellicola di nascere e di essere distribuita. Scopriamo perché Netflix merita solo un sentito "grazie".
Il lungometraggio segue l'ascesa, a partire dagli anni Cinquanta, all'interno del mondo della criminalità organizzata di Frank Sheeran (Robert De Niro), reduce irlandese impiegato come camionista che finisce per diventare sicario e pupillo del boss italoamericano Russell Bufalino (Joe Pesci). Un'ulteriore svolta alla carriera a e alla vita del protagonista viene offerta dall'incontro con Jimmy Hoffa (Al Pacino), capo del sindacato dei trasportatori dedito al prestito di denaro alla malavita. L'amicizia con quest'ultimo segnerà per sempre la vita di Frank, nel bene e nel male.
The Irishman rappresenta la trasposizione in celluloide di I Heard You Paint Houses, opera scritta da Charles Brandt in cui viene raccontata la vicenda dietro l'omicidio irrisolto del potente Hoffa, del quali si accusa proprio Frank Sheeran. Perdonatemi il piccolo spoiler ma è importante sottolineare la filiazione del film per capire come Scorsese abbia utilizzato il sopracitato nucleo narrativo come centro attraverso cui converge però l'intera esistenza post-guerra di Frank, la cui vita diventa vera e propria sineddoche del proprio paese. In maniera simile a quanto fatto da Sergio Leone con il suo C'era una volta il West (Once Uon a Time in the West, 1968) il regista di origini italiane filma attraverso un filtro di genere un racconto che attraversa gli snodi principali degli USA, spostando l'occhio della cinepresa dal tramonto del Far West visto nell'opera leoniana all'ascesa del paese a superpotenza egemone sullo scenario mondiale. Contemporaneamente all'inesorabile cammino del reduce irlandese verso i vertici della mafia italoamericana Scorsese mette in scena, attraverso uno straordinario lavoro di montaggio che alterna salti temporali ad accostamenti simbolici quasi ejzenstejniani, la cavalcata trionfale statunitense a base di capitalismo sempre più esasperato e continui incroci tra potere politico, economico e malavita. La connivenza oserei dire ancestrale tra violenza e sviluppo socio-politico in America era stata già al centro di precedenti lavori scorsesiani, in particolare Gangs of New York (2002), così come l'esplorazione del microcosmo criminale creatosi tra gli immigrati italiani (si pensi a Goodfellas del 1990) ma The Irishman si pone come ideale punto di incontro, come summa di tutta la riflessione decennale del cineasta su queste tematiche, dando vita a un affresco su micro e macrostoria statunitense modellato attraverso la rielaborazione degli stilemi crime paragonabile solamente alla trilogia de Il padrino diretta da Francis Ford Coppola.
Spostando il nostro focus proprio sulla microstoria mi preme sottolineare come Scorsese ponga in realtà al centro dell'intreccio e dell'enorme carico emotivo della pellicola proprio le vicende personali di Sheeran. Il percorso che dall'immediato secondo dopoguerra porta l'irlandese al centro di intrighi economici e politici, omicidi e frodi fiscali, viene mostrato soprattutto come evoluzione più o meno marcata della sua persona e dei rapporti che crea con le persone più vicine. In particolare restano impressi negli occhi e nella mente dello spettatore le relazioni con tre personaggi: i due "migliori amici" Russ e Jimmy e quello con la figlia Peggy. Tre rapporti in cui l'innegabile affetto provato da Frank viene continuamente messo a dura prova da una abnegazione totale dell'uomo verso gli ordini impartitigli dall'alto, chiara conseguenza del periodo vissuto da soldato sul fronte italiano. In questa estenuante lotta tra ragione e sentimento, affetti e dovere finisce sempre per avere la meglio l'adempimento del proprio dovere di mafioso, trasformando inesorabilmente il reduce in un uomo privo della sua più pura forma di umanità. Un uomo irrimediabilmente solo, come tutti i suoi compari malavitosi, costretti a morire con una pallottola in testa o in una prigione di solitudine e oblio, che sia essa la galera o un ospizio. Sheeran, da buon irlandese cattolico, cerca in terza età persino l'aiuto di Dio ma si rende conto di non essere più in grado neanche di pentirsi per tutto il male commesso.
The Irishman rappresenta dunque una parabola estremamente dilatata, nello spazio e nel tempo, che mette un punto finale su un intero genere cinematografico e sull'intera ascesa a braccetto di capitalismo e crimine americani. Nel farlo si affida alle vicende di un singolo uomo e dunque non può che portare, infine, a riflettere fatalmente sul tempo e sulla mancanza di esso: la vecchiaia come luogo cronologico del rimpianto e del fallimento, dell'abbandono ma anche dell'ultima speranza di perdono, non quello degli uomini (neanche quello delle figlie) ma almeno quello di un Dio misericordioso.
Il lungometraggio segue l'ascesa, a partire dagli anni Cinquanta, all'interno del mondo della criminalità organizzata di Frank Sheeran (Robert De Niro), reduce irlandese impiegato come camionista che finisce per diventare sicario e pupillo del boss italoamericano Russell Bufalino (Joe Pesci). Un'ulteriore svolta alla carriera a e alla vita del protagonista viene offerta dall'incontro con Jimmy Hoffa (Al Pacino), capo del sindacato dei trasportatori dedito al prestito di denaro alla malavita. L'amicizia con quest'ultimo segnerà per sempre la vita di Frank, nel bene e nel male.
The Irishman rappresenta la trasposizione in celluloide di I Heard You Paint Houses, opera scritta da Charles Brandt in cui viene raccontata la vicenda dietro l'omicidio irrisolto del potente Hoffa, del quali si accusa proprio Frank Sheeran. Perdonatemi il piccolo spoiler ma è importante sottolineare la filiazione del film per capire come Scorsese abbia utilizzato il sopracitato nucleo narrativo come centro attraverso cui converge però l'intera esistenza post-guerra di Frank, la cui vita diventa vera e propria sineddoche del proprio paese. In maniera simile a quanto fatto da Sergio Leone con il suo C'era una volta il West (Once Uon a Time in the West, 1968) il regista di origini italiane filma attraverso un filtro di genere un racconto che attraversa gli snodi principali degli USA, spostando l'occhio della cinepresa dal tramonto del Far West visto nell'opera leoniana all'ascesa del paese a superpotenza egemone sullo scenario mondiale. Contemporaneamente all'inesorabile cammino del reduce irlandese verso i vertici della mafia italoamericana Scorsese mette in scena, attraverso uno straordinario lavoro di montaggio che alterna salti temporali ad accostamenti simbolici quasi ejzenstejniani, la cavalcata trionfale statunitense a base di capitalismo sempre più esasperato e continui incroci tra potere politico, economico e malavita. La connivenza oserei dire ancestrale tra violenza e sviluppo socio-politico in America era stata già al centro di precedenti lavori scorsesiani, in particolare Gangs of New York (2002), così come l'esplorazione del microcosmo criminale creatosi tra gli immigrati italiani (si pensi a Goodfellas del 1990) ma The Irishman si pone come ideale punto di incontro, come summa di tutta la riflessione decennale del cineasta su queste tematiche, dando vita a un affresco su micro e macrostoria statunitense modellato attraverso la rielaborazione degli stilemi crime paragonabile solamente alla trilogia de Il padrino diretta da Francis Ford Coppola.
Spostando il nostro focus proprio sulla microstoria mi preme sottolineare come Scorsese ponga in realtà al centro dell'intreccio e dell'enorme carico emotivo della pellicola proprio le vicende personali di Sheeran. Il percorso che dall'immediato secondo dopoguerra porta l'irlandese al centro di intrighi economici e politici, omicidi e frodi fiscali, viene mostrato soprattutto come evoluzione più o meno marcata della sua persona e dei rapporti che crea con le persone più vicine. In particolare restano impressi negli occhi e nella mente dello spettatore le relazioni con tre personaggi: i due "migliori amici" Russ e Jimmy e quello con la figlia Peggy. Tre rapporti in cui l'innegabile affetto provato da Frank viene continuamente messo a dura prova da una abnegazione totale dell'uomo verso gli ordini impartitigli dall'alto, chiara conseguenza del periodo vissuto da soldato sul fronte italiano. In questa estenuante lotta tra ragione e sentimento, affetti e dovere finisce sempre per avere la meglio l'adempimento del proprio dovere di mafioso, trasformando inesorabilmente il reduce in un uomo privo della sua più pura forma di umanità. Un uomo irrimediabilmente solo, come tutti i suoi compari malavitosi, costretti a morire con una pallottola in testa o in una prigione di solitudine e oblio, che sia essa la galera o un ospizio. Sheeran, da buon irlandese cattolico, cerca in terza età persino l'aiuto di Dio ma si rende conto di non essere più in grado neanche di pentirsi per tutto il male commesso.
The Irishman rappresenta dunque una parabola estremamente dilatata, nello spazio e nel tempo, che mette un punto finale su un intero genere cinematografico e sull'intera ascesa a braccetto di capitalismo e crimine americani. Nel farlo si affida alle vicende di un singolo uomo e dunque non può che portare, infine, a riflettere fatalmente sul tempo e sulla mancanza di esso: la vecchiaia come luogo cronologico del rimpianto e del fallimento, dell'abbandono ma anche dell'ultima speranza di perdono, non quello degli uomini (neanche quello delle figlie) ma almeno quello di un Dio misericordioso.
sabato 4 gennaio 2020
LA PARANZA DEI BAMBINI: LA PERDITA DELL'INNOCENZA TRA BILDUNGSROMAN E NEO-NOIR
Il caso Gomorra (Matteo Garrone, 2008), con la sua filiazione transmediale, ha evidentemente portato all'esplosione, all'interno del già fecondo neo-noir italiano, di un sottogenere di ambientazione campana in cui si sono cimentati, a cavallo degli anni Dieci del terzo millennio, alcuni tra i migliori cineasti italiani contemporanei. A essi si aggiunge nel 2019 Claudio Giovannesi, autore, proprio a partire da un altro romanzo scritto da Roberto Saviano, di La paranza dei bambini, presentato a Berlino e vincitore dell'Orso d'argento per la miglior sceneggiatura. Inevitabile il confronto, specialmente da parte del pubblico, con il succitato capolavoro diretto da Garrone ma scopriamo perché questo film è tutt'altro che un Gomorra 2.0.
Ambientata principalmente nel Rione Sanità di Napoli, la pellicola segue la improvvisa e inesorabile ascesa/discesa criminale di un gruppo di quindicenni, guidato da Nicola (Francesco Di Napoli), figlio della titolare di una lavanderia costretta a consegnare puntualmente quel poco che guadagna agli sgherri del boss di quartiere. Consapevole di non poter trovare altra via per guadagnare denaro rapidamente il ragazzo prima entra nella cosca egemone e poi, insieme ai suoi amici, conquista il potere nel momento in cui lo stesso boss viene arrestato. Nicola imparerà a spese sue e di chi ama però che la scalata al potere pretende dei sacrifici.
Claudio Giovannesi ha sì diretto alcuni episodi di Gomorra - La serie (Roberto Saviano, 2014-) ma fin dal prologo appare evidente come La paranza dei bambini sia ben più vicino al lungometraggio Fiore (2016) che non allo stile fortemente di genere proprio del serial televisivo. La pellicola, fin dalla scelta di concentrarsi su un gruppo di ragazzini inizialmente estraneo al sottobosco criminale, opera un distanziamento netto sia a livello formale che narrativo, portando all'interno del milieu e del genere neo-noir napoletano le istanze ormai consolidate del cinema di Giovannesi. Proprio come nelle opere precedenti, l'autore filma un lavoro di fiction adoperando un registro linguistico tipico del documentario, come dimostra il ricorso costante al piano sequenza con camera in spalla. Nicola, protagonista assoluto dell'intreccio, viene pedissequamente seguito dall'occhio della cinepresa con piani sempre molto ravvicinati, tra i quali spiccano non a caso soggettive e semisoggettive che aumentano il senso di aderenza dello spettatore alle vicende e la centralità dello sguardo del giovane. Se Gomorra, con la sua moltiplicazione di storie e di personaggi, rappresentava il primato del collettivo rispetto all'individuo, ormai privato di un reale libero arbitrio dall'ambiente tossico nel quale si trova a vivere, La paranza dei bambini mette il singolo al cuore della narrazione e persino la sua gang di amici e complici finisce per diventare diretta emanazione della personalità del protagonista. Questo non significa che Biscottino, Tyson e gli altri (non casualmente privati dei loro reali nomi) siano personaggi privi di alcuna psicologia o aderenti soltanto a un determinato carattere, bensì ognuno di essi finisce per espandere e gettare una luce più netta sulle sfaccettature dietro il volto angelico di un teenager che in breve tempo diventa un boss della camorra. Nicola stesso in una delle prime sequenze del film, quando incontra, innamorandosene all'istante, Letizia, sottolinea di essere un bravo ragazzo e il fastidio che prova dinanzi alla richiesta del pizzo alla madre da parte di due guappi mette in chiaro come questi sia in principio un adolescente uguale in tutto e per tutto a quelli che, magari dopo aver finito il liceo classico, si laureano a pieni voti per la gioia di mamma e papà. Ed ecco la parola chiave dell'intera pellicola: papà. Nell'appena menzionata sequenza si evince per la prima volta come il protagonista viva senza un padre, così come privi di genitori appaiono i suoi amici e in particolare i fratelli Striano: proprio con uno dei due, Agostino, Nicola instaura un'amicizia fulminea, una sorta di colpo di fulmine (un certo sottotesto omoerotico non è certamente trascurabile) che scatta sotto il segno del comune peso dell'assenza paterna. Agostino è figlio di un boss che viene solamente evocato, un boss sinonimo di un passato glorioso ma ormai ammuffito e che sembra portare solamente problemi alla progenie. La mancanza di un modello maschile di riferimento o più in generale di un genitore forte accomuna in prima istanza il rampollo degli Striano e il protagonista ma è una condizione che si estende, in modo più o meno letterale, a tutti i ragazzi della paranza. In questo senso la scalata ai vertici del crimine degli stessi assume contorni ibridi, assimilabili sia ai codici del genere crime tanto caro a Scorsese e De Palma che al romanzo di formazione. Gli echi del gangster crepuscolare raccontati in Carlito's Way (Brian De Palma, 1993) si fondono con il racconto del passaggio cruciale dall'infanzia all'età adulta senza un padre come modello di riferimento tipico del cinema spielberghiano, senza mai perdere quella dimensione documentaristica, sia formale che poetica, a cui accennavo precedentemente.
Giovannesi (autore della sceneggiatura insieme proprio a Saviano) utilizza dunque un ampio repertorio stilistico e narratologico, capace di abbracciare estremi apparentemente lontanissimi della cinematografia mondiale, non per creare un ennesimo e comunicativamente sterile pamphlet antimafia, bensì per catapultare lo spettatore all'interno di uno dei tanti possibili racconti su come un ragazzino, in un ambiente in cui la cultura è sinonimo di esibizione di mobilio pacchiano all'interno della villa di un camorrista, sia destinato a perdere irrimediabilmente la propria primigenia innocenza, in luogo di un patto diabolico con la criminalità. L'unica possibile strada offertagli dai soli rimpiazzi di un padre che conosca, un boss ai domiciliari.
Ambientata principalmente nel Rione Sanità di Napoli, la pellicola segue la improvvisa e inesorabile ascesa/discesa criminale di un gruppo di quindicenni, guidato da Nicola (Francesco Di Napoli), figlio della titolare di una lavanderia costretta a consegnare puntualmente quel poco che guadagna agli sgherri del boss di quartiere. Consapevole di non poter trovare altra via per guadagnare denaro rapidamente il ragazzo prima entra nella cosca egemone e poi, insieme ai suoi amici, conquista il potere nel momento in cui lo stesso boss viene arrestato. Nicola imparerà a spese sue e di chi ama però che la scalata al potere pretende dei sacrifici.
Claudio Giovannesi ha sì diretto alcuni episodi di Gomorra - La serie (Roberto Saviano, 2014-) ma fin dal prologo appare evidente come La paranza dei bambini sia ben più vicino al lungometraggio Fiore (2016) che non allo stile fortemente di genere proprio del serial televisivo. La pellicola, fin dalla scelta di concentrarsi su un gruppo di ragazzini inizialmente estraneo al sottobosco criminale, opera un distanziamento netto sia a livello formale che narrativo, portando all'interno del milieu e del genere neo-noir napoletano le istanze ormai consolidate del cinema di Giovannesi. Proprio come nelle opere precedenti, l'autore filma un lavoro di fiction adoperando un registro linguistico tipico del documentario, come dimostra il ricorso costante al piano sequenza con camera in spalla. Nicola, protagonista assoluto dell'intreccio, viene pedissequamente seguito dall'occhio della cinepresa con piani sempre molto ravvicinati, tra i quali spiccano non a caso soggettive e semisoggettive che aumentano il senso di aderenza dello spettatore alle vicende e la centralità dello sguardo del giovane. Se Gomorra, con la sua moltiplicazione di storie e di personaggi, rappresentava il primato del collettivo rispetto all'individuo, ormai privato di un reale libero arbitrio dall'ambiente tossico nel quale si trova a vivere, La paranza dei bambini mette il singolo al cuore della narrazione e persino la sua gang di amici e complici finisce per diventare diretta emanazione della personalità del protagonista. Questo non significa che Biscottino, Tyson e gli altri (non casualmente privati dei loro reali nomi) siano personaggi privi di alcuna psicologia o aderenti soltanto a un determinato carattere, bensì ognuno di essi finisce per espandere e gettare una luce più netta sulle sfaccettature dietro il volto angelico di un teenager che in breve tempo diventa un boss della camorra. Nicola stesso in una delle prime sequenze del film, quando incontra, innamorandosene all'istante, Letizia, sottolinea di essere un bravo ragazzo e il fastidio che prova dinanzi alla richiesta del pizzo alla madre da parte di due guappi mette in chiaro come questi sia in principio un adolescente uguale in tutto e per tutto a quelli che, magari dopo aver finito il liceo classico, si laureano a pieni voti per la gioia di mamma e papà. Ed ecco la parola chiave dell'intera pellicola: papà. Nell'appena menzionata sequenza si evince per la prima volta come il protagonista viva senza un padre, così come privi di genitori appaiono i suoi amici e in particolare i fratelli Striano: proprio con uno dei due, Agostino, Nicola instaura un'amicizia fulminea, una sorta di colpo di fulmine (un certo sottotesto omoerotico non è certamente trascurabile) che scatta sotto il segno del comune peso dell'assenza paterna. Agostino è figlio di un boss che viene solamente evocato, un boss sinonimo di un passato glorioso ma ormai ammuffito e che sembra portare solamente problemi alla progenie. La mancanza di un modello maschile di riferimento o più in generale di un genitore forte accomuna in prima istanza il rampollo degli Striano e il protagonista ma è una condizione che si estende, in modo più o meno letterale, a tutti i ragazzi della paranza. In questo senso la scalata ai vertici del crimine degli stessi assume contorni ibridi, assimilabili sia ai codici del genere crime tanto caro a Scorsese e De Palma che al romanzo di formazione. Gli echi del gangster crepuscolare raccontati in Carlito's Way (Brian De Palma, 1993) si fondono con il racconto del passaggio cruciale dall'infanzia all'età adulta senza un padre come modello di riferimento tipico del cinema spielberghiano, senza mai perdere quella dimensione documentaristica, sia formale che poetica, a cui accennavo precedentemente.
Giovannesi (autore della sceneggiatura insieme proprio a Saviano) utilizza dunque un ampio repertorio stilistico e narratologico, capace di abbracciare estremi apparentemente lontanissimi della cinematografia mondiale, non per creare un ennesimo e comunicativamente sterile pamphlet antimafia, bensì per catapultare lo spettatore all'interno di uno dei tanti possibili racconti su come un ragazzino, in un ambiente in cui la cultura è sinonimo di esibizione di mobilio pacchiano all'interno della villa di un camorrista, sia destinato a perdere irrimediabilmente la propria primigenia innocenza, in luogo di un patto diabolico con la criminalità. L'unica possibile strada offertagli dai soli rimpiazzi di un padre che conosca, un boss ai domiciliari.