Non credo che Martin Scorsese abbia bisogno di una qualche presentazione. Persino i giovanissimi o i più a digiuno di cinema hanno imparato a "conoscerlo" grazie alla triste polemica sorta sul web per le dichiarazioni del regista sul MCU. Per la prima volta in carriera nel 2019 l'autore di Toro scatenato (Raging Bull, 1980) ha diretto un film destinato non alle sale (o almeno non a una distribuzione tradizionale nelle stesse), bensì al colosso dello streaming Netflix: The Irishman. Un'opera mastodontica per durata (circa tre ore e mezza), budget (più di 150 milioni di dollari), cast e persino effetti speciali digitali, resi possibili dalla Industrial Light & Magic. Un'operazione oggi, purtroppo, impensabile commercialmente per le major storiche che ha costretto Scorsese a rivolgersi al sempre più florido mercato casalingo, privando così molti spettatori della possibilità di godere del film sul grande schermo ma permettendo anche alla pellicola di nascere e di essere distribuita. Scopriamo perché Netflix merita solo un sentito "grazie".
Il lungometraggio segue l'ascesa, a partire dagli anni Cinquanta, all'interno del mondo della criminalità organizzata di Frank Sheeran (Robert De Niro), reduce irlandese impiegato come camionista che finisce per diventare sicario e pupillo del boss italoamericano Russell Bufalino (Joe Pesci). Un'ulteriore svolta alla carriera a e alla vita del protagonista viene offerta dall'incontro con Jimmy Hoffa (Al Pacino), capo del sindacato dei trasportatori dedito al prestito di denaro alla malavita. L'amicizia con quest'ultimo segnerà per sempre la vita di Frank, nel bene e nel male.
The Irishman rappresenta la trasposizione in celluloide di I Heard You Paint Houses, opera scritta da Charles Brandt in cui viene raccontata la vicenda dietro l'omicidio irrisolto del potente Hoffa, del quali si accusa proprio Frank Sheeran. Perdonatemi il piccolo spoiler ma è importante sottolineare la filiazione del film per capire come Scorsese abbia utilizzato il sopracitato nucleo narrativo come centro attraverso cui converge però l'intera esistenza post-guerra di Frank, la cui vita diventa vera e propria sineddoche del proprio paese. In maniera simile a quanto fatto da Sergio Leone con il suo C'era una volta il West (Once Uon a Time in the West, 1968) il regista di origini italiane filma attraverso un filtro di genere un racconto che attraversa gli snodi principali degli USA, spostando l'occhio della cinepresa dal tramonto del Far West visto nell'opera leoniana all'ascesa del paese a superpotenza egemone sullo scenario mondiale. Contemporaneamente all'inesorabile cammino del reduce irlandese verso i vertici della mafia italoamericana Scorsese mette in scena, attraverso uno straordinario lavoro di montaggio che alterna salti temporali ad accostamenti simbolici quasi ejzenstejniani, la cavalcata trionfale statunitense a base di capitalismo sempre più esasperato e continui incroci tra potere politico, economico e malavita. La connivenza oserei dire ancestrale tra violenza e sviluppo socio-politico in America era stata già al centro di precedenti lavori scorsesiani, in particolare Gangs of New York (2002), così come l'esplorazione del microcosmo criminale creatosi tra gli immigrati italiani (si pensi a Goodfellas del 1990) ma The Irishman si pone come ideale punto di incontro, come summa di tutta la riflessione decennale del cineasta su queste tematiche, dando vita a un affresco su micro e macrostoria statunitense modellato attraverso la rielaborazione degli stilemi crime paragonabile solamente alla trilogia de Il padrino diretta da Francis Ford Coppola.
Spostando il nostro focus proprio sulla microstoria mi preme sottolineare come Scorsese ponga in realtà al centro dell'intreccio e dell'enorme carico emotivo della pellicola proprio le vicende personali di Sheeran. Il percorso che dall'immediato secondo dopoguerra porta l'irlandese al centro di intrighi economici e politici, omicidi e frodi fiscali, viene mostrato soprattutto come evoluzione più o meno marcata della sua persona e dei rapporti che crea con le persone più vicine. In particolare restano impressi negli occhi e nella mente dello spettatore le relazioni con tre personaggi: i due "migliori amici" Russ e Jimmy e quello con la figlia Peggy. Tre rapporti in cui l'innegabile affetto provato da Frank viene continuamente messo a dura prova da una abnegazione totale dell'uomo verso gli ordini impartitigli dall'alto, chiara conseguenza del periodo vissuto da soldato sul fronte italiano. In questa estenuante lotta tra ragione e sentimento, affetti e dovere finisce sempre per avere la meglio l'adempimento del proprio dovere di mafioso, trasformando inesorabilmente il reduce in un uomo privo della sua più pura forma di umanità. Un uomo irrimediabilmente solo, come tutti i suoi compari malavitosi, costretti a morire con una pallottola in testa o in una prigione di solitudine e oblio, che sia essa la galera o un ospizio. Sheeran, da buon irlandese cattolico, cerca in terza età persino l'aiuto di Dio ma si rende conto di non essere più in grado neanche di pentirsi per tutto il male commesso.
The Irishman rappresenta dunque una parabola estremamente dilatata, nello spazio e nel tempo, che mette un punto finale su un intero genere cinematografico e sull'intera ascesa a braccetto di capitalismo e crimine americani. Nel farlo si affida alle vicende di un singolo uomo e dunque non può che portare, infine, a riflettere fatalmente sul tempo e sulla mancanza di esso: la vecchiaia come luogo cronologico del rimpianto e del fallimento, dell'abbandono ma anche dell'ultima speranza di perdono, non quello degli uomini (neanche quello delle figlie) ma almeno quello di un Dio misericordioso.
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