Il mondo del cinema, lungo tutto la sua storia centenaria, è sempre stato ricco di figure in grado di spaccare a metà l'opinione pubblica; dai talenti difficilmente imbrigliabili come Orson Welles ad autori passati rapidamente dal successo più fulgido alla miseria, Michael Cimino su tutti. In una singolare posizione viene a trovarsi nel panorama attuale M. Night Shyamalan, della cui parabola discendente e della conseguente, inattesa, ripresa ho già parlato nell'affrontare The Visit (2015) e Split (2017). Proprio l'enorme successo commerciale e il plauso generale ricevuti da quest'ultimo sembravano finalmente aver ricondotto la grande promessa del cinema statunitense sul binario dell'Olimpo hollywoodiano, almeno fino all'uscita di Glass (2019), capitolo conclusivo di una trilogia composta dallo stesso Split e dal precedente Unbreakable (2000). In realtà a livello commerciale l'opera può dirsi un trionfo totale, dato i circa i quasi 250 milioni di dollari incassati rispetto al ristretto budget di soli venti, ma la critica, in particolare quella statunitense, ha letteralmente distrutto il lavoro probabilmente più personale e ambizioso del cineasta di origini indiane.
Come anticipato la pellicola si pone come seguito diretto del film risalente al 2017, mettendo il serial killer affetto da disturbo dissociativo dell'identità Kevin (James McAvoy) contro David Dunne (Bruce Willis), l'eroe visto in Unbreakable. Quest'ultimo, coadiuvato dal supporto tecnologico e logistico, in pieno stile Oracle/Barbara Gordon di Batman, di suo figlio Joseph (Spencer Treat Clark), durante una delle sue abituali ronde nella città di Philadelphia riesce finalmente a scoprire il rifugio nemico, salvando la vita ad alcune cheerleader sequestrate ma dovendo allo stesso tempo confrontarsi proprio con l'identità più temibili tra le ventitré che abitano il corpo di Kevin: la Bestia. Il violento confronto tra i due viene interrotto dall'arrivo di un manipolo armato che li cattura e li pone sotto la custodia della dottoressa Ellie Staple (Sarah Paulson). La donna è convinta di poter aprire gli occhi di David, Kevin e l'altro paziente internato nell'istituto psichiatrico, Elijah "l'Uomo di vetro" Price (Samuel L. Jackson), sul fatto che la loro convinzione di essere dotati di capacità sovrumane sia in realtà solamente frutto di disturbi psicologici, di una sorta di mania di grandezza che li porta a credersi supereroi (o supercriminali).
Devo essere onesto, per poter affrontare esaustivamente la notevole complessità insita sia nella messa in scena che negli sviluppi poetico-narrativi di Glass probabilmente sarebbe necessario un saggio intero, cosa che rende chiaro quanto sia stata frettolosa la critica anglofona nel demolire in toto l'opera. Contrariamente a Split, il film in analisi, in quanto chiusura di un cerchio iniziato nell'ormai lontano 1999, richiede inequivocabilmente la visione dei capitoli precedenti della trilogia, al punto addirittura da contenere materiale found footage risalente ad alcune scene eliminate da Unbreakable. Shyamalan pone lo spettatore dinanzi a quello che potrebbe essere definito come il terzo atto, quello conclusivo, non tanto di una trilogia quanto di una origin story fumettistica e, di rimando, cinefumettistica, come del resto sentenzia con una delle numerose riflessioni metatestuali il personaggio interpretato da Samuel L. Jackson. Non è un caso che la pellicola prenda il nome proprio dall'Uomo di vetro, da questa figura che rappresenta l'origine della storia delle origini dei supereroi del mondo fittizio ma più reale del reale ideato dal regista americano. Sebbene Elijah appaia per buona parte del lungometraggio in uno stato catatonico in realtà funge da vero e proprio demiurgo dell'intero intreccio, dunque non solamente di quello che si dipana nelle circa due ore di Glass, bensì dell'intero trittico. Un trittico in cui l'autore di Signs (2002) riunisce le riflessioni metalinguistiche sul fumetto e sulla narrazione supereroistica affrontate in Unbreakable con le profonde rivendicazioni da parte degli emarginati, di "coloro che hanno sofferto" (citando le parole di Kevin) viste in Split intessendo un articolato maglio narratologico che, tra passato e presente, trova il proprio fil rouge proprio nel numero tre, onnipresente nell'intera pellicola. Come già detto il film è il terzo capitolo di una trilogia, il terzo atto di una origin story, così come tre sono i supereroi (quante volte la dottoressa Staple sottolinea il fatto che siano solo tre), tre sono i loro aiutanti o supporti (Joseph, la madre di Elijah e Casey, la ragazza nel secondo atto della saga interpretata da Anya Taylor-Joy), ancora tre sono i principali piani e campi ai quali ricorre costantemente la macchina da presa e tre sono i colori utilizzati da Shyamalan per identificare i protagonisti e i rispettivi aiutanti.
Perché un numero può rappresentare il materiale con il quale allestire l'intera impalcatura estetico-narrativa del film? E perché proprio il tre? Senza alcun dubbio è la simbologia mistico-religiosa che affascina il regista di Mahe, l'universalmente riconosciuta valenza spirituale attribuita ai numeri in generale (si pensi alla numerologia e alla Kabbalah) e in particolare proprio al tre: il numero perfetto, il numero che rappresenta Dio, uno e trino allo stesso tempo. E come si potrebbe mai affrontare un discorso tanto complesso e filologicamente adeguato sul fumetto come medium di narrazione per immagini, sul genere supereroistico e sul rapporto tra tali opere di fiction e la realtà senza riflettere sull'importanza della religione e del sentimento di religiosità che trasuda la nona arte dedicata agli eroi in costume? Impossibile. Superman, il capostipite di questi personaggi del mito contemporaneo, in fondo nasce dalle menti e dalla matita di due giovani ebrei che immaginano un Mosè ai tempi della hard sci-fi delle riviste pulp per poi incarnare, in maniera sempre più esplicita e raffinata, una vera e propria allegoria cristologica attraverso le rielaborazioni di tantissimi autori di comic book e registi cinematografici quali Richard Donner e Zack Snyder. Shyamalan dunque dimostra per l'ennesima volta una conoscenza quanto mai approfondita del tipo di narrazione che analizza ma, soprattutto, la rara abilità di sfruttare tale sapere teorico per adattarlo alla propria, fervida immaginazione e poter così mettere su schermo ancora una volta la sua poetica di sognatore disincantato, sognatore umanista. L'autore de Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999), attraverso il percorso straordinario di tre uomini comuni all'interno di un mondo tutt'altro che fantasy e il loro ineluttabile martirio, dimostra per l'ennesima volta la sua straordinaria fede nelle infinite possibilità insiste nel genere umano, capace sì di efferatezze quasi irreali (gli abusi subiti da Kevin per fare un esempio) ma allo stesso tempo di gesti di tale altruismo e amore da rendere possibile l'impossibile, come il perdono di una vittima per il proprio carnefice che avviene proprio tra Casey e il suo aguzzino.
Con il suo sacrificio Cristo ha donato la salvezza tramite il libero arbitrio a tutti gli uomini di buona volontà, liberi finalmente dal fardello del peccato originale, e allo stesso modo i tre eroi di Shyamalan donano all'umanità verità e speranza, così da poter un giorno salvare se stessi. E a noi spettatori cosa viene donato dal martirio di questo Glass, dilapidato dai colpi di recensori troppo distratti per cogliere il valore di questo cinecomic tanto atipico? Probabilmente proprio verità e speranza; la rivelazione di un modo di unire cinema e fumetto che non sia per forza quello dettato dalle leggi del box office e la speranza che questo regista così bistrattato continui a credere nella propria creatività, della quale la settima arte ha ancora bisogno.
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