Tra i cineasti europei maggiormente apprezzati non solo nel vecchio continente ma anche in quell'America che un tempo idolatrava gli autori italiani e francesi spicca oggi Pawel Pawlikowski. Il regista nato a Varsavia ha accresciuto la propria fama all'interno dei festival pellicola dopo pellicola, fino a trovare il plauso unanime in tutto il mondo con Ida (2013), capace di vincere addirittura l'Academy per il miglior film straniero. Atteso dunque al lungometraggio della conferma l'autore polacco ha diretto nel 2018 Cold War, trovando un apprezzamento paragonabile a quello del lavoro precedente, condito da un successo di pubblico tutt'altro che scontato e la candidatura per la miglior regia agli ultimi premi Oscar. Indaghiamo i motivi di tale clamore.
La pellicola, parzialmente ispirata alla reale storia d'amore dei genitori del regista, segue nel corso di una quindicina di anni la tormentata relazione tra il musicista Wiktor (Tomasz Kot) e la cantante Zula (Joanna Kulig). I due si incontrano durante le audizioni per la formazione di un gruppo di musica tradizionale polacca nel 1949 per poi perdersi e ritrovarsi tra Berlino, Parigi, Jugoslavia e ancora la madrepatria, simbolo del dopoguerra e delle tensioni tra i due blocchi che si contendono il predominio mondiale.
La presenza incombente, minacciosa e costante della Guerra fredda che dona il titolo al film potrebbe far pensare a chi si apprestasse alla sua visione di potersi trovare dinanzi a un lavoro fortemente indirizzato alla ricostruzione storica e alla denuncia dei soprusi orditi dai regimi totalitari (siano essi fascisti o comunisti), riconducendolo a lungometraggi quali La vita è bella (Roberto Benigni, 1997) o Schindler's List (Steven Spielberg, 1993). Certamente non manca nell'opera di Pawlikowski la riflessione sulla dimensione spazio-temporale, la cui importanza viene sottolineata dalla precisione con cui a ogni cambio di città o paese viene abbinata anche una data certa, ma la dedica finale ai propri genitori mette in luce come al centro della sua indagine ci sia qualcosa di più intimo e meno razionale: l'amore. Cold War con il suo titolo imbraccia fin da subito questa duplice natura; da un lato la guerra fredda rimanda inevitabilmente a quel clima di tensione tra USA e URSS scaturito dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalla brama di ottenere la supremazia politica e militare sull'intero pianeta, eppure dall'altro può anche riferirsi alla storia d'amore tra i due protagonisti, perennemente in conflitto, costantemente divisi per un motivo o un altro ma ogni volta capaci di ritrovarsi e di seguire ciecamente il sentimento che li unisce. Sebbene sappiano di appartenersi e non riescano a resistersi (Wiktor afferma più volte che Zula è l'amore della sua vita) i due vivono un chiaro conflitto che impedisce loro di stare insieme come una coppia felice, alimentato sia da caratteri antitetici che dagli infiniti ostacoli posti dalla cortina di ferro. In questo senso dunque persino il macroevento storico, il clima generale di paranoia dovuto allo scontro di nervi tra Occidente e blocco sovietico e la rigidità delle politiche di quest'ultimo vengono affrontate dall'autore di My Summer of Love (2004) non dal punto di vista della lucida riflessione socio-politica, bensì nell'ottica di come questo contesto finisce per influire sul rapporto tra il musicologo e la cantante. Non a caso la pellicola mantiene quell'aspect ratio insolito di 4:3 già visto in Ida, ideale per focalizzare l'attenzione della macchina da presa solamente su ciò che è fondamentale, relegando tutto il superfluo fuori dal profilmico. Wiktor, Zula e il loro amore esasperato è tutto ciò che davvero conta, più delle nefandezze dei regimi dittatoriali, più della squallida vita da pseudo bohemien degli artistoidi parigini, e l'unico linguaggio che possa realmente legare ed esplicare il mistero di una presenza intangibile capace di influenzare l'esistenza di due esseri umani anche più della violenza fisica e psicologica esercitata da governi disumani è la musica. Proprio come l'amore la musica segue Wiktor e Zula in ogni spostamento, in ogni bivio, nei momenti felici e in quelli tragici, cessando solamente nello struggente finale.
A dispetto della raffinatezza estetica, dei tantissimi long take e del singolare ricorso ai 4:3 Cold War riesce nella vera e propria impresa di offrire emozioni palpabili e difficilmente dimenticabili non solo al cultore del cinema d'essay ma a qualsiasi tipo di spettatore, dimostrando la capacità unica della settima arte di raccontare i sentimenti più viscerali senza dover per forza essere didascalico e allo stesso di poter partorire lavori raffinati senza escludere alcun tipo di fruitore.
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