giovedì 1 agosto 2024

CONAN THE BARBARIAN: ESTETICA E PASSIONE MA EPICA NON PERVENUTA

Tra i nomi meno apprezzati (per evitare termini più forti e che neanche dovrebbero essere accostati all'arte) dai cinefili che hanno iniziato ad amare il cinema nei primi anni Duemila c'è di sicuro Marcus Nispel, reo di aver diretto principalmente reboot di classici, a loro volta in realtà fortemente osteggiati quando furono originariamente distribuiti. Mentre oggi almeno Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 2003) gode di una certa rivalutazione, specie tra chi ha avuto modo di avvicinarsi a quella saga proprio tramite questo titolo, indubbiamente l'opera meno amata del regista tedesco resta Conan the Barbarian, reboot del dittico tratto dai racconti di Robert E. Howard girato in stereoscopia nel 2011. Accolto con recensioni in gran parte negative e incassi ben al di sotto delle aspettative per un blockbuster, scopriamo, con la giusta distanza critica permessa dai quasi quindici anni trascorsi, cosa riserva allo spettatore odierno.


La pellicola, ambientata nell'immaginaria era hyboriana, segue il percorso di vendetta del cimmerio Conan (Jason Momoa), guerriero che ha perso tutto il suo clan e suo padre (Ron Perlman) a causa delle mire dello spietato Khalar Zym (Stephen Lang), che utilizza qualsiasi mezzo per ottenere tutti i frammenti di una maschera dai poteri magici enormi, Per riuscire ad attirare l'odiato nemico, il protagonista salva e porta con sé la sacerdotessa Tamara (Rachel Nichols), indispensabile per utilizzare l'artefatto mistico.



Ciò che attira in prima istanza l'attenzione durante la visione di Conan the Barbarian è la scelta da parte degli sceneggiatori di modificare buona parte degli eventi che segnano l'infanzia dell'eroe hyboriano rispetto all'iconico lungometraggio diretto nel 1982 da John Milius, così da avere maggiori libertà creative e tentare allo stesso tempo di smarcarsi dal continuo e, chiaramente deleterio, confronto con lo stesso. Questo non vuol dire però che Nispel non utilizzi come riferimento l'originale letterario in cui nasce il personaggio, anzi: alcuni scorci, specie nelle panoramiche o nei campi lunghissimi, così come l'aspetto di Momoa riecheggiano con grande reverenza le illustrazioni dei racconti realizzate da Frank Frazetta, così come la caratterizzazione interiore di Conan rievocano l'aspetto più libertario e picaresco dei lavori di Howard, verso cui non mancano anche easter egg e ammiccamenti per i fan. Altrettanto apprezzabile è in generale l'impianto formale della pellicola. Se nelle precedenti fatiche di matrice horror il cineasta aveva già mostrato una notevole cura nella composizione delle inquadrature, minata in parte però da un ricorso quasi ossessivo alla macchina a mano, stavolta preme l'acceleratore sul lato più estetizzante del proprio sguardo, persino durante le concitate scene d'azione, in cui il ralenti conferisce un'ulteriore impatto e anche una leggibilità dei movimenti spesso carente nell'action contemporaneo.
Di buon livello risultano le interpretazioni del cast, a partire dal già citato Momoa, passando dai due villain principali: Stephen Lang dona una certa gravitas al suo personaggio, mentre sua figlia Marique assume tratti lascivi e persino incestuosi grazie all'apporto di drammaturgia attoriale offerto da Rose McGowan, che in tal modo spinge anche ai limiti il perbenismo americano e l'autocensura tipica delle produzioni di massa. Proprio come l'abbondanza di sangue e gore durante i combattimenti, i cui arti mozzati, teste staccate di netto e flotti di sangue, evidentemente derivanti dagli horror dai connotati splatter diretti da Nispel, sono figli certamente dei modelli di Milius e Howard e molto lontani dal mondo dei blockbuster, specialmente quelli di matrice disneyana da cui siamo sommersi oggi.
Allora come mai il film è stato un tale insuccesso ed è ancora ricordato con vergogna, persino dalla sua star? Sicuramente per un eccesso di damnatio memoriae legata al dissenso dei fan del materiale originale, ma anche per oggettivi demeriti. In primis la sceneggiatura soffre di una grande mancanza di personalità e, soprattutto di epica; difetto quest'ultimo accentuato da un ritmo eccessivamente rapido e un commento musicale davvero anonimo. In questo senso risulta impietoso il confronto con la pellicola con protagonista Arnold Schwarzenegger, che brillava proprio nella distensione del racconto, le divagazioni estetico-poetiche in bilico tra Kurosawa e il western di John Ford e la colonna musica ricca di pathos firmata Poledouris.


Conan the Barbarian è, in conclusione, un buonissimo action fantasy, un'opera esteticamente ben più pregevole della media dei blockbuster degli ultimi anni ma priva di quello che contraddistingue il nome che porta, l'epica.