Il cosiddetto cinecomic è il genere cinematografico attualmente più in voga, non solo per le cifre spaventose che, per esempio, i film del MCU riescono a incassare al botteghino, ma soprattutto per l'influenza sull'intero panorama di celluloide e sull'immaginario collettivo. Nonostante sia peraltro nata agli albori del cinema stesso la connessione tra la settima arte e il fumetto, è ancora oggi piuttosto fumoso il concetto stesso di cinecomic: indica forse ogni adattamento da comic book e simili oppure si limita a quelli a carattere supereroistico? Rientrano al suo interno anche le trasposizioni dei manga giapponesi o anche le avventure di supereroi nati direttamente sul grande schermo? A rendere ancora più complessa una delimitazione del genere, come spesso accade dalla rivoluzione portata dalla New Hollywood, si trova inoltre la tendenza crescente da parte di molte pellicole a ibridare più filoni estetico-narrativi al suo interno, come accade, ad esempio, con gli influssi western di Logan (James Mangold, 2017). Proprio la fusione al suo interno di più generi è alla base della pellicola che intendo porre all'attenzione oggi, Brightburn, diretta nel 2019 dall'esordiente David Yarovesky. Attraverso una sagace campagna pubblicitaria e il coinvolgimento nel ruolo di produttore di James Gunn, uno dei registi più amati all'interno del cinema supereroistico, quest'opera prima, dal budget peraltro molto contenuto per gli standard hollywoodiani, ha potuto godere di un buon successo al box office, pur dovendo pagare in sede critica lo scotto dovuto da attese rivelatesi probabilmente fin troppo elevate.
Protagonista assoluto del lungometraggio è Brandon Bryer (Jackson A. Dunn), dodicenne un po' schivo e con pochi amici ma molto legato ai genitori adottivi Tori (Elizabeth Banks) e Kyle (David Denman). Quello che potrebbe sembrare un tipico nucleo familiare americano nasconde un enorme segreto: il ragazzo dei Bryer in realtà è stato trovato dalla coppia, dopo l'ennesimo tentativo di concepire un figlio, nei pressi della loro casa nel Kansas, all'interno di una navicella spaziale schiantatasi al suolo. Nonostante ciò Brandon è cresciuto come un bambino qualsiasi, senza sapere niente delle proprie origini, almeno fino a quando degli strani messaggi provenienti proprio dall'astronave iniziano a modificarne in maniera sinistra il comportamento.
Persino da questo esigua sinossi appare evidente, persino al meno avvezzo ai fumetti, quanto la narrazione di Brightburn sia figlia delle origin story del princeps dei supereroi, Superman. Come già anticipato dal geniale trailer che riutilizzava, con una potente carica parodica, il tema Flight che Hans Zimmer aveva composto per L'uomo d'acciaio (Man of Steel, Zack Snyder, 2013), l'esordio al lungometraggio di Yarovesky si rivela una sorta di "what if", di trasposizione del percorso di crescita del kryptoniano più famoso della nona arte modificando un unico, tutt'altro che insignificante dettaglio: la trasformazione del campione di moralità che tutto il mondo conosce in un essere privo di scrupoli. Come in uno dei celebri Elseworlds di DC Comics, il regista rievoca tutti o quasi gli elementi cardine della mitologia del supereroe di Smallville come, per l'appunto, l'arrivo in un piccolo borgo del Kansas e i genitori adottivi dediti all'agricoltura per poi ribaltarli nel momento in cui Brandon viene spinto dal lascito dei suoi avi alieni ad agire in maniera egoistica e violenta.
In ogni origin story che si rispetti il giovane destinato a diventare un eroe vive una fase in cui la scoperta dei propri poteri soprannaturali si sovrappone ai cambiamenti dell'adolescenza, in cui i primi diventano chiari simboli del traumatico passaggio dall'infanzia all'età adulta. Nel caso del protagonista del film in analisi, a differenza di quanto accade per Clark Kent, la pubertà e la contemporanea scoperta delle proprie vere origini creano un solco incolmabile tra sé e i genitori adottivi, reso ancor più profondo dalle proprie straordinarie abilità. Come spesso accade in situazione simili, il ragazzo finisce per avvicinarsi in maniera repentina e inesorabile alla sfera etico-emotiva della propria famiglia "di sangue", senza riuscire a ricucire lo strappo con Tori e Kyle. In questo senso assume un ruolo centrale l'influsso della voce proveniente dalla navicella spaziale, che inaugura la trasformazione della pellicola da tipica origin story da cinecomic in un ibrido con l'horror. In particolare il modo in cui le misteriose frasi che risuonano nella testa di Brandon, i suoi inquietanti disegni e in generale il modo in cui modifica il proprio comportamento ricordano filoni orrorifici ormai classici come quelli della possessione demoniaca e soprattutto quello, inaugurato da The Omen (non a caso diretto, nel 1976, da quel Richard Donner famoso soprattutto per la saga dedicata all'Uomo d'acciaio), incentrato sui figli del Diavolo.
La peculiare natura di meticcio tra cinecomic, coming of age e horror satanico di Brightburn si conferma anche per quanto concerne il lato visuale dell'opera. Pur non potendo contare su un budget da centinaia di milioni come le pellicole del MCU, il film non lesina nel mostrare la supervelocità o la vista calorifica del protagonista, eppure la reale potenza delle loro apparizioni si situa nel sapiente utilizzo del sonoro e in generale nel loro inserimento all'interno di sequenze ricche di tensione. Yarovesky dimostra un'abilità notevole nel gestire il registro tipico dell'horror, unendo l'attenzione per la profondità di campo e i long take di James Wan a un accorta alternanza tra silenzi ed esplosioni sonore, certificando la discesa verso l'orrore puro del lungometraggio dopo la prima metà.
Pur pagando probabilmente l'inesperienza del proprio regista, Brightburn rappresenta un coraggioso esperimento narrativo e formale all'interno dei due generi maggiormente in forma nel panorama contemporaneo, aprendo peraltro la strada a dei sequel che potrebbero dare vita a un contraltare indipendente e nichilista del modello Marvel.
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