Fin dagli albori di questo terzo millennio il cinema sudcoreano ha dimostrato una vitalità inedita per il paese, capace di alternare e ibridare produzioni d'autore e di genere in grado di mettere all'angolo i blockbuster statunitensi all'interno del mercato autoctono e di esportare nel resto del mondo figure registiche sempre più rispettate. Tra i nomi più noti fuori dai confini del paese asiatico vi è sicuramente quello di Bong Joon-ho, del quale non si possono non ricordare in tal senso anche le produzioni occidentali ad alto budget come Snowpiercer (2013) e Okja (2017), con quest'ultimo al centro di una lunga sequela di polemiche legate alla sua candidatura alla Palma d'oro pur essendo una produzione Netflix, non destinata dunque alla distribuzione in sala. Dopo due anni dalla suddetta pellicola il cineasta coreano è tornato a lavorare nel paese natio dirigendo Parasite, a oggi il suo miglior exploit al botteghino in carriera e primo film sudcoreano ad aggiudicarsi il più importante riconoscimento del Festival di Cannes.
Centro della (atipica) narrazione è la famiglia di Kim Ki-woo (Choi Woo-shik), giovane dotato di intelligenza e buona preparazione culturale che però non gli hanno permesso di superare i test dell'università. Insieme al padre Kim Ki-taek (Song Kang-ho), la madre Kim Chung-sook e la sorella Kim Ki-jeong (Park So-dam) vive in un trasandato seminterrato mantenendosi con piccoli lavoretti occasionali mal retribuiti. La possibile svolta a una situazione familiare di grande difficoltà viene offerta inaspettatamente da Min-hyuk (Park Seo-joon), amico fraterno di Kim Ki-woo benestante che propone al ragazzo di prendere il suo posto come insegnante privato di inglese per una ragazza di ottima famiglia. Utilizzando tutto il proprio estro creativo e quello dei propri familiari il protagonista tenterà di sfruttare l'ingenuità di Park Dong-ik (Lee Sun-kyun) e di sua moglie Park Yeon-gyo (Cho Yeo-jeong) per permettere a tutta la famiglia di essere assunti dai suoi ricchissimi datori di lavoro, senza però svelare il legame di parentela che lega ciascuno di loro.
Come accaduto già in gran parte delle sue opere precedenti anche con Parasite Bong Joon-ho lavora, con intelligenza e astuzia, mescolando i generi classici, fino a dare vita a un film polimorfo, in grado di cambiare pelle come un rettile nel corso della sua durata. In questo caso specifico l'autore di The Host (2006) "accomoda" lo spettatore nei ranghi di una black comedy per circa metà lungometraggio per poi innestare una marcia da polifonia composta da elementi horror e thriller che accompagnano un'anima solista da dramma sempre più angosciante. E proprio come nel sopracitato monster movie i topoi di genere diventano per il cineasta coreano strumenti per poter riflettere sulla condizione umana all'interno di una società fortemente capitalista e ormai priva di una classe media come quella coreana. Le due famiglie al centro della pellicola rappresentano in maniera evidente i lati opposti di una barricata creata da logiche economiche e culturali rese possibili solamente da una sfrenata rincorsa al benessere ostentato dagli Stati Uniti, non a caso continuamente citati come sorta di terra promessa da Park e consorte, scontratasi con l'iceberg costituito dalla crisi economica mondiale del 2008 e dalle trasformazioni socio-economiche derivanti dalla digitalizzazione massiccia della vita contemporanea, simboleggiata dalla centralità dello smartphone all'interno del film. La prima metà sembra dunque rielaborare in chiave personale e grottesca la lezione della commedia all'italiana (la presenza di un brano di Morandi all'interno della colonna musica potrebbe essere un indizio in tale direzione) in cui le tante risate strappate nascondono in realtà un velo di estrema malinconia e rabbia verso una lotta di classe tutt'altro che diluita rispetto ai tempi in cui per primo ne parlò Karl Marx. Persino l'eccelsa eleganza formale con cui Bong riprende sia le brutture della famiglia Kim che l'elegantissima casa dei Park, i lunghi piani sequenza ricchi di morbidi movimenti di macchina e la ricercatissima composizione delle inquadrature anziché raffreddare il lato emozionale del film riescono ad accentuare la partecipazione empatica dello spettatore nei confronti dei quattro truffatori. Come dei novelli Totò risulta impossibile non patteggiare per Kim Ki-woo e gli altri, poveri diavoli mossi solamente dalla necessità a oltrepassare i confini della legge e in fondo senza mai ferire le proprie "vittime", a loro volta descritti senza alcun intento aprioristicamente antiborghese dal regista.
Ecco così che è il subentrare nella vicenda da commedia agrodolce della ex governante e di suo marito, poveri tra i poveri, disperati tra i disperati a segnare il cambio di registro, sia formale che narrativo. La rapida ed inesorabile escalation che trasforma la black comedy in tragedia sanguinolenta si consuma non a caso quando a confrontarsi e scontrarsi si trovano esponenti della medesima classe sociale dei più indigenti, mostrando la volontà di Bong di rimarcare come la vera tragedia della contemporaneità (in special modo in Corea del sud ma non solo) risieda in realtà nella lotta tra poveri conseguente proprio all'acutizzazione delle disparità sociali attuali. Trovare un compromesso che possa permettere a entrambi i gruppi di poveri di riscattare almeno in parte la dignità da sempre agognata appare una chimera, una possibilità irrealizzabile che viene scartata immediatamente in favore di una violenza sempre più fisica e distruttiva. Una violenza così pervasiva da lenire persino l'immagine fino a quel momento piuttosto positiva della famiglia benestante, della quale inizia a emergere lentamente ma inesorabilmente il disprezzo verso la classe "inferiore", simboleggiato dal cattivo odore che emanerebbe Kim Ki-taek.
Parasite, tirando le fila, mette in scena non tanto la lotta di classe, la contrapposizione ormai otto-novecentesca tra borghesia e proletariato quanto invece ciò che unisce e ciò che divide esseri umani. Uomini e donne, ragazzi e ragazze nei quali non esiste una malvagità o una bontà aprioristica ma soltanto una serie di rocambolesche circostanze che portano fratelli e sorelle appartenenti alla medesima specie a farsi del male.
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