Quasi tutti i cinefili conoscono la vera e propria odissea vissuta dal progetto di Terry Gilliam per realizzare il proprio progetto di adattare per il grande schermo Don Chisciotte della Mancia, romanzo simbolo della letteratura spagnola pubblicato da Miguel de Cervantes in due volumi tra il 1605 e il 1615. Ebbene dopo aver ideato il film nel 1989 e aver girato alcune scene a partire dal 1998, il 2018 ha finalmente portato alla luce L'uomo che uccise Don Chisciotte (The Man Who Killed Don Quijote), seppur con un cast diverso rispetto all'originale e anche moltissime modifiche alla sceneggiatura. Com'era lecito aspettarsi da un'opera attesa da una trentina di anni e divenuta mitica, grazie anche al documentario Lost in La Mancha (Keith Fulton, Louis Pepe, 2002), le aspettative gonfiatesi nel corso dei decenni hanno finito per oscurare in parte il film stesso, accusato di non raggiungere le vette della filmografia di Gillian, ma nonostante ciò gran parte della critica ha accolto con favore l'ultimo lavoro del regista di Brazil (1985).
Protagonista della pellicola è il director di spot pubblicitari Toby Grisoni (Adam Driver), intento da alcune settimane con le riprese di una pubblicità a tema Don Chisciotte. Proprio nel momento di maggiore sconforto verso un lavoro che non lo entusiasma il pur talentoso regista compra da un venditore ambulante gitano (Oscar Jaenada) una copia pirata del suo primo film, L'uomo che uccise Don Chisciotte, girato per la laurea alla scuola di cinema proprio in un paesino dei dintorni con un cast non-professionista. Preso da una vena nostalgica l'uomo abbandona il set per tornare a Los Sueños, dove però viene accolto con risentimento dai pochi abitanti fino a quando non ritrova finalmente il calzolaio (Jonathan Pryce) che aveva interpretato il protagonista del film. Il problema è che questi, ormai impazzito, crede davvero di essere Don Chisciotte e finirà per trascinare Toby in un vortice di situazioni surreali in cui è difficile distinguere la realtà dai vaneggiamenti.
Mai come nel caso di questo L'uomo che uccise Don Chisciotte separare la diegesi dalle situazioni produttive appare non solo impossibile ma anche un ostacolo alla comprensione dell'opera. Basti leggere una breve sunto sulle traversie occorse nel corso di questi circa trent'anni, in primo luogo i continui alterchi tra produttori e regista e il notevole cambio nella sceneggiatura che ha eliminato i viaggi nel tempo, per rendersi conto di come questi avvenimenti accaduti alle spalle della macchina da presa abbiano poi trovato un loro spazio privilegiato proprio nel profilmico, rendendo il confine tra mondo diegetico ed extra realmente labile. Conscio delle enormi difficoltà nell'adattare in un unico lungometraggio il complesso romanzo doppio di Cervantes, Gilliam aveva inizialmente optato per un racconto fantascientifico nel quale un uomo del presente finiva per viaggiare nel tempo fino a incontrare il cavaliere errante ma, in seguito ai continui alterchi legali con le case di produzione, ha modificato gran parte dello script optando per una narrazione in cui realtà e immaginazione si mescolano continuamente, all'interno di una cornice metacinematografica che assume caratteri sempre più marcatamente biografici con il passare del minutaggio. Risulta ben evidente come Toby rappresenti una maschera dello stesso autore, con il suo enorme talento riconosciuto da tutti (talvolta anche solo per sentito dire, come capita con i vari assistenti di produzione che ricalcano le idiozie da cinefilo 2.0 cresciuto a pane e citazioni da Wikipedia) ma finito sprecato in lavori di puro business in cui non vi è la minima traccia dell'estro artistico di inizio carriera, anzi anche i pochi rimandi alle opere passate finiscono per diventare parodie delle stesse. Il personaggio di Adam Driver, proprio come Gilliam, si sente soffocare sotto le imposizioni del mercato e avverte come si stia smarrendo anche la sua più genuina umanità, quella che lo aveva portato a creare un legame speciale sia con il calzolaio che con la giovane Angelica, l'unica donna da lui realmente amata. Ecco dunque che Toby/Terry, proprio nel momento più basso della propria carriera, decide di mettersi contro il mondo intero, il sistema hollywoodiano, le multinazionali che finanziano il cinema a suon di inserti pubblicitari e persino la ragione per poter finalmente realizzare il sogno del film definitivo sul più grande dei sognatori: quell'anziano nobile decaduto impazzito a tal punto dal convincersi di poter diventare uno di quei cavalieri erranti dei romanzi che combattono mostri e stregoni per salvare fanciulle indifese. Chiunque conosca anche parzialmente il profilo personale e artistico del cineasta di Minneapolis sa quanto questi abbia lottato per tutta la vita contro i limiti del sistema industriale della settima arte statunitense, sbattendo la testa e rischiando anche di finire completamente ai margini del cinema, proprio come Don Chisciotte, nel romanzo come nel film, continua a scontrarsi contro creature immaginarie anche a costo di farsi seriamente male, senza però mai arrendersi.
In questa parabola sull'importanza dei sogni certamente l'assetto formale non può che rispecchiare il carattere surreale della sceneggiatura, annullando completamente tutti quegli espedienti visuali che nel cinema classico segnano il passaggio dalla realtà al mondo onirico o alla fantasia in genere. In questo modo il confine tra le due dimensioni finiscono per essere completamente annullate e, anzi, persino le sequenze chiaramente ambientate nella realtà fattuale finiscono per assumere un aspetto perturbante grazie al costante ricorso al grandangolo e a un'illuminazione eccessiva, capace di accecare lo spettatore come un viandante nel deserto alle prese con i tipici miraggi causati dalla sete.
Probabilmente L'uomo che uccise Don Chisciotte non è il capolavoro generazionale che molto si sarebbero aspettati dopo trent'anni di attesa, così come non è un film che fa dell'equilibrio, la compostezza la sua ragion d'essere, eppure la coerenza tra diatribe produttive, biografia dell'autore, narrazione, forma e sostanza, tutto all'insegna dell'importanza del sogno come atto fondativo dell'essere umano, ne fanno un'opera di fascino straordinario e la dichiarazione d'intenti definitiva del cinema secondo Terry Gilliam.
Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
venerdì 28 giugno 2019
lunedì 24 giugno 2019
LA CASA DELLE BAMBOLE: L'HORROR AMERICANO SECONDO LAUGIER
Nel 2008 il francese Pascal Laugier aveva sconvolto il mondo intero con Martyrs, pellicola capace di far parlare di sé non solo per il suo valore estetico ma anche per l'estrema violenza portata sullo schermo. Il clamore del film sembrava potesse dischiudere le porte di Hollywood al cineasta transalpino ma a oggi, proprio come successo ai suoi colleghi della cosiddetta New French Extremety quali Xavier Gens o la coppia Bustillo-Maury, gli USA sembrano non aver creduto davvero nel suo talento. Proprio in seguito allo scarso successo riscosso oltreoceano Laugier ha deciso di tornare a produzioni più indipendenti e legate al proprio paese d'origine dirigendo, nel 2018, La casa delle bambole (Ghostland), co-produzione tra Francia e Canada. Arrivato in Italia nel dicembre dello stesso anno, il lungometraggio ha riscontrato un discreto successo tra la critica nostrana e il pubblico, nonostante la limitata distribuzione, mentre ancora una volta gli Stati Uniti hanno confermato la loro ostilità al director.
Al centro delle vicende narrate si trova il nucleo familiare composto da Pauline (Mylene Farmer) e dalle sue due figlie adolescenti, Beth (Emilia Jones) e Vera (Taylor Hickson). Le tre sono in procinto di trasferirsi nella casa ereditata da una zia defunta, sebbene le ragazze non siano esattamente esaltate dall'idea di andare a vivere in un edificio pieno di bambole inquietanti all'interno di una dimenticata campagna. Proprio la prima sera all'interno della nuova dimora le donne vengono assalite da una coppia di squilibrati che violentano Vera e provano a uccidere Pauline. Proprio nel momento di maggior paura per Beth la madre pare avere la meglio su uno dei balordi ma improvvisamente l'azione si sposta avanti nel tempo, mostrando la stessa Beth adulta (Crystal Reed) nei panni di scrittrice di successo di romanzi horror.
Per quanto sterile possa essere l'esercizio comparativo con il sopracitato Martyrs mi pare innegabile come, al netto delle sostanziali divergenze, La casa delle bambole possa essere visto come un ritorno del regista ad alcune delle tematiche fondamentali del suo lavoro più celebre, aggiornate ovviamente dal passaggio di un decennio e dalle esperienze vissute nel contatto con gli Stati Uniti. Dopo aver affrontato in maniera estremamente esplicita il rapporto tra sguardo, violenza e mondo femminile, Laugier sembra aver deciso di utilizzare un registro maggiormente sotteso per continuare a portare avanti questa sua poetica esplosa nel 2008, facendo tesoro della lunghissima tradizione del cinema di genere americano e in particolare del new horror, prendendo in prestito topoi da pilastri come John Carpenter e Tobe Hooper. A tale proposito il cineasta francese opera un lavoro tutt'altro che banale di sincretismo tra il proprio background europeo e la lezione dei maestri americani, dando vita a un personale incrocio tra slasher a base di redneck e fiaba nera, senza omettere riferimenti metatestuali che ricordano Il seme della follia (In the Mouth of Madness, John Carpenter, 1994). Alternando il mondo reale con la fantasia creata da una delle protagoniste il film riflette, proprio come Martyrs, sulla potenza dello sguardo e su come sia strettamente legato alla violenza: le sevizie perpetrate dai due maniaci su Beth e Vera assumono una consistenza epistemologicamente effettiva solamente nel momento in cui la più giovane delle sorelle tiene gli occhi aperti, mentre l'intero mondo diegetico creato da Laugier si modifica completamente quando la ragazza si rifiuta di guardare, rifugiandosi in un universo partorito dalla propria mente. Se nella pellicola del 2008 Anna finiva per raggiungere uno stato di percezione altro in seguito alle torture subite in questo caso l'aspirante scrittrice abbandona la realtà fattuale per potergli sfuggire, evitando dunque di percepire il dolore. Due vie di ascesi molto diverse ma che rivelano allo stesso modo un'idea ben precisa della donna da parte dell'autore transalpino; una donna strettamente legata al concetto di violenza ma in quanto capace, evidentemente a differenza dell'uomo, di sopportare e vincere la sofferenza fisica, fino a ottenere una crescita etica e filosofica irraggiungibile per chiunque non abbia sofferto.
Date le differenza appena esposte a livello poetico, anche la messinscena del lungometraggio in analisi presenta un approccio complementare ma divergente nei confronti del precedente. Abbandonando montaggio rapido e macchina a mano, Laugier dimostra una notevole conoscenza dell'horror d'atmosfera sia americano che europero, sfruttando elementi costitutivi del genere (la casa stregata, le bambole, la periferia polverosa ecc.) e inquadrature classicamente composte per creare inquietudine nello spettatore fino poi a sorprenderlo negandogli soluzioni orrorifiche semplici o già viste migliaia di volte su schermo. In particolare la creazione della casa, ambientazione per eccellenza del film, riprende in superficie tutti i topoi o quasi del filone delle haunted houses, promette al pubblico momenti di spaventi puramente soprannaturali per poi spiazzarlo con momenti slasher, rendendo così l'ambiente una vera e propria espressione più dell'io interiore dei personaggi.
Probabilmente non ci trovai ai livelli di eccellenza raggiunti con Martyrs, eppure questo Ghostland possiede tutte le carte per intrattenere ogni appassionato di horror, senza rinunciare a bonus tutt'altro che irrilevanti provenienti dal grande talento visivo del cineasta francese, messo nuovamente al servizio di una certa riflessione che può essere ormai considerata a tutti gli effetti una personale poetica da auteur.
Al centro delle vicende narrate si trova il nucleo familiare composto da Pauline (Mylene Farmer) e dalle sue due figlie adolescenti, Beth (Emilia Jones) e Vera (Taylor Hickson). Le tre sono in procinto di trasferirsi nella casa ereditata da una zia defunta, sebbene le ragazze non siano esattamente esaltate dall'idea di andare a vivere in un edificio pieno di bambole inquietanti all'interno di una dimenticata campagna. Proprio la prima sera all'interno della nuova dimora le donne vengono assalite da una coppia di squilibrati che violentano Vera e provano a uccidere Pauline. Proprio nel momento di maggior paura per Beth la madre pare avere la meglio su uno dei balordi ma improvvisamente l'azione si sposta avanti nel tempo, mostrando la stessa Beth adulta (Crystal Reed) nei panni di scrittrice di successo di romanzi horror.
Per quanto sterile possa essere l'esercizio comparativo con il sopracitato Martyrs mi pare innegabile come, al netto delle sostanziali divergenze, La casa delle bambole possa essere visto come un ritorno del regista ad alcune delle tematiche fondamentali del suo lavoro più celebre, aggiornate ovviamente dal passaggio di un decennio e dalle esperienze vissute nel contatto con gli Stati Uniti. Dopo aver affrontato in maniera estremamente esplicita il rapporto tra sguardo, violenza e mondo femminile, Laugier sembra aver deciso di utilizzare un registro maggiormente sotteso per continuare a portare avanti questa sua poetica esplosa nel 2008, facendo tesoro della lunghissima tradizione del cinema di genere americano e in particolare del new horror, prendendo in prestito topoi da pilastri come John Carpenter e Tobe Hooper. A tale proposito il cineasta francese opera un lavoro tutt'altro che banale di sincretismo tra il proprio background europeo e la lezione dei maestri americani, dando vita a un personale incrocio tra slasher a base di redneck e fiaba nera, senza omettere riferimenti metatestuali che ricordano Il seme della follia (In the Mouth of Madness, John Carpenter, 1994). Alternando il mondo reale con la fantasia creata da una delle protagoniste il film riflette, proprio come Martyrs, sulla potenza dello sguardo e su come sia strettamente legato alla violenza: le sevizie perpetrate dai due maniaci su Beth e Vera assumono una consistenza epistemologicamente effettiva solamente nel momento in cui la più giovane delle sorelle tiene gli occhi aperti, mentre l'intero mondo diegetico creato da Laugier si modifica completamente quando la ragazza si rifiuta di guardare, rifugiandosi in un universo partorito dalla propria mente. Se nella pellicola del 2008 Anna finiva per raggiungere uno stato di percezione altro in seguito alle torture subite in questo caso l'aspirante scrittrice abbandona la realtà fattuale per potergli sfuggire, evitando dunque di percepire il dolore. Due vie di ascesi molto diverse ma che rivelano allo stesso modo un'idea ben precisa della donna da parte dell'autore transalpino; una donna strettamente legata al concetto di violenza ma in quanto capace, evidentemente a differenza dell'uomo, di sopportare e vincere la sofferenza fisica, fino a ottenere una crescita etica e filosofica irraggiungibile per chiunque non abbia sofferto.
Date le differenza appena esposte a livello poetico, anche la messinscena del lungometraggio in analisi presenta un approccio complementare ma divergente nei confronti del precedente. Abbandonando montaggio rapido e macchina a mano, Laugier dimostra una notevole conoscenza dell'horror d'atmosfera sia americano che europero, sfruttando elementi costitutivi del genere (la casa stregata, le bambole, la periferia polverosa ecc.) e inquadrature classicamente composte per creare inquietudine nello spettatore fino poi a sorprenderlo negandogli soluzioni orrorifiche semplici o già viste migliaia di volte su schermo. In particolare la creazione della casa, ambientazione per eccellenza del film, riprende in superficie tutti i topoi o quasi del filone delle haunted houses, promette al pubblico momenti di spaventi puramente soprannaturali per poi spiazzarlo con momenti slasher, rendendo così l'ambiente una vera e propria espressione più dell'io interiore dei personaggi.
Probabilmente non ci trovai ai livelli di eccellenza raggiunti con Martyrs, eppure questo Ghostland possiede tutte le carte per intrattenere ogni appassionato di horror, senza rinunciare a bonus tutt'altro che irrilevanti provenienti dal grande talento visivo del cineasta francese, messo nuovamente al servizio di una certa riflessione che può essere ormai considerata a tutti gli effetti una personale poetica da auteur.
martedì 11 giugno 2019
GODZILLA II - KING OF THE MONSTERS: HAIL TO THE KING, ALMENO TRA I TITANI
Nel 2014 il britannico Gareth Edwards aveva compiuto, con insperato successo, una missione ritenuta estremamente improba, specie dopo l'indignazione collettiva nei confronti della pellicola diretta da Emmerich nel 1998: adattare al cinema occidentale Gojira, il mostro per eccellenza del Giappone post-atomico. Il Godzilla del regista di Monsters (2010) era riuscito a mettere d'accordo sia pubblico che critica, tanto dal convincere Toho e Warner a creare un universo esteso, in stile MCU, nel quale inserire anche King Kong, tramite Kong: Skull Island (Jordan Vogt-Roberts, 2017). Da circa un paio di settimane si trova nelle sale di tutto il mondo Godzilla II - King of the Monsters (Godzilla: King of the Monsters), sequel diretto stavolta da Michael Dougherty, autore anche della sceneggiatura. Purtroppo per le ambizioni di questo progetto proprio lo script in questione risulta essere il bersaglio prediletto della critica, mentre il pubblico pare stia apprezzando maggiormente l'opera, sebbene i numeri del botteghino siano ancora non del tutto soddisfacenti.
Dopo un prologo ambientato durante la devastante battaglia svoltasi a San Francisco tra Gojira e i MUTO vista nel prequel, il lungometraggio mostra le diverse reazioni nel mondo alla convivenza con i titani (i mostri di dimensioni colossali riconducibili al già citato esemplare risvegliato dai test nucleari nell'Oceano Pacifico), tra cui in particolare la lotta della Monarch (organizzazione sovranazionale guidata dal dottor Serizawa, interpretato ancora da Ken Watanabe) per studiare e permettere a questi esseri di convivere pacificamente con l'umanità e le pretese del governo statunitense di distruggerle. In questa dialettica si inserisce a sorpresa un esercito di ecoterroristi che, con la compiacenza della dottoressa Emma Russell (Vera Farmiga), si impossessa di un dispositivo in grado di comunicare con i titani. Per ritrovare il prezioso congegno, la sua creatrice e la figlia Madison (Millie Bobby Brown) la Monarch recluta il marito di Emma, Mark (Kyle Chandler), in quanto esperto di suoni e comunicazione all'interno del regno animale ma la missione si complica ulteriormente quando i terroristi risvegliano Ghidorah, l'unico predatore in grado di rivaleggiare con Gojira.
Inutile girarci intorno, questo Godzilla II - King of the Monsters, come in realtà molti sequel in ambito blockbuster, rinuncia, più o meno volontariamente, all'attenzione rivolta dal prequel nei confronti dei suoi protagonisti umani; o meglio decide di puntare maggiormente sullo spettacolo offerto dallo scontro tra mostri rispetto all'esplorazione sottile ed emotivamente potente dell'impatto sulle vite degli umani della comparsa di queste creature. Questo non si traduce però, come affermato da molti recensori, in un totale abbandono della dimensione umana del racconto o in una deficienza dello stesso. Dougherty, confermando la scelta appena menzionata, costruisce la narrazione attorno ai temi del sacrificio e della redenzione creando un parallelo continuo tra Mark e Gojira, i due veri e propri protagonisti del film. Inizialmente l'atteggiamento del ricercatore si dimostra ostile verso il titano, individuato dall'uomo come causa della perdita del figlio e della disgregazione della sua famiglia e per questo ostenta un rancore che ricorda per certi versi quello che il capitano Achab rivolge verso Moby Dick ma la lotta del mostro per difendere la specie umana, insieme al sempre più stretto rapporto instaurato con Serizawa, finisce per donargli la forza di perdonarlo e, insieme, di accettare finalmente le tragedie della sua vita, così da poter riallacciare un rapporto reale con la figlia. Il travaglio psicologico della famiglia Russell viene però relegato a un piano minore rispetto alle vicende dei titani, fino al punto di ricorrere in maniera costate a battute di spirito per spezzare i momenti che tendono maggiormente al sentimentalismo o alla riflessione morale. Il regista di Krampus (2015) sembra in questo modo voler evitare a tutti i costi una lettura eccessivamente intellettualistica del film ma, al contempo, mettere in chiaro come per lui le creature siano il vero fulcro dell'opera: non a caso è ancora una volta Gojira il salvatore della Terra, con tanto di parabola morte-resurrezione tipicamente cristologica (ucciso da un colpo a tradimento dell'esercito americano, torna in vita avvolto da una luce che non può non ricordare l'iconologia dello spirito santo), e soltanto la presa di coscienza della necessità di porre la fiducia dell'uomo in questo essere gigante porta alla sconfitta di Ghidorah. Da questo punto di vista il personaggio che realmente spicca risulta proprio il dottore interpretato da Watanabe, vero e proprio apostolo del mostro benevolo, portatore di una fede più potente di ogni difficoltà o tornaconto egoistico che possa finalmente permettere all'uomo di riscattarsi (ancora una volta il tema della redenzione) dal ruolo di distruttore del proprio pianeta.
Un discorso a sé merita a questo punto il lato puramente visivo del film. Comprensibilmente infarcito di computer grafica, il lungometraggio compie un lavoro di sincretismo estetico tra l'oscurità del predecessore, nel quale le maglie della notte finivano sempre ottenebrare la visione completa dei kaiju, e le tonalità pop, vivaci di Kong: Skull Island. Chiaramente in un'opera che si fonda sulla gioia dei fan di poter vedere finalmente combattere mostri iconici, con la spettacolarità assicurata dalle tecnologie odierne, avvolgere eccessivamente queste figure come nel prequel sarebbe stato controproducente e dunque Dougherty ricorre sovente a nebbie e tempeste per mantenere una certa aura di mistero e allo stesso tempo mostrare i titani in tutta la magnificenza di una cgi davvero ben realizzata ma sono molteplici anche i momenti in cui, tra raggi supersonici ed esplosioni nucleari, la regia non lesina su colori estremamente accesi che abbagliano lo spettatore come nelle ambientazioni metropolitane di qualche capitolo della trilogia dedicata a John Wick. Sebbene manchi forse di una certa dose di coraggio nel scegliere una strada originale, è innegabile come il lato formale della pellicola colpisca il bersaglio prescelto, ricorrendo peraltro (come una larghissima fetta dei blockbuster americani e non solo) alle riprese a mano dal basso verso l'alto e i rapidissimi zoom introdotti da Zack Snyder in L'uomo d'acciaio (Man of Steel, 2013) per amplificare la sensazione di impotenza umana dinanzi a una catastrofe in grado di dissolvere in pochi minuti metropoli intere.
Chiunque cerchi un prodotto molto raffinato o la narrazione al primo posto potrebbe sicuramente storcere il naso alla visione di questo Godzilla II - King of the Monsters ma coloro che amano i kaiju, lo spettacolo della sala cinematografica e l'emozione dell'hic et nunc troveranno un prodotto in grado di accontentarli, anche se senza eccellere.
Dopo un prologo ambientato durante la devastante battaglia svoltasi a San Francisco tra Gojira e i MUTO vista nel prequel, il lungometraggio mostra le diverse reazioni nel mondo alla convivenza con i titani (i mostri di dimensioni colossali riconducibili al già citato esemplare risvegliato dai test nucleari nell'Oceano Pacifico), tra cui in particolare la lotta della Monarch (organizzazione sovranazionale guidata dal dottor Serizawa, interpretato ancora da Ken Watanabe) per studiare e permettere a questi esseri di convivere pacificamente con l'umanità e le pretese del governo statunitense di distruggerle. In questa dialettica si inserisce a sorpresa un esercito di ecoterroristi che, con la compiacenza della dottoressa Emma Russell (Vera Farmiga), si impossessa di un dispositivo in grado di comunicare con i titani. Per ritrovare il prezioso congegno, la sua creatrice e la figlia Madison (Millie Bobby Brown) la Monarch recluta il marito di Emma, Mark (Kyle Chandler), in quanto esperto di suoni e comunicazione all'interno del regno animale ma la missione si complica ulteriormente quando i terroristi risvegliano Ghidorah, l'unico predatore in grado di rivaleggiare con Gojira.
Inutile girarci intorno, questo Godzilla II - King of the Monsters, come in realtà molti sequel in ambito blockbuster, rinuncia, più o meno volontariamente, all'attenzione rivolta dal prequel nei confronti dei suoi protagonisti umani; o meglio decide di puntare maggiormente sullo spettacolo offerto dallo scontro tra mostri rispetto all'esplorazione sottile ed emotivamente potente dell'impatto sulle vite degli umani della comparsa di queste creature. Questo non si traduce però, come affermato da molti recensori, in un totale abbandono della dimensione umana del racconto o in una deficienza dello stesso. Dougherty, confermando la scelta appena menzionata, costruisce la narrazione attorno ai temi del sacrificio e della redenzione creando un parallelo continuo tra Mark e Gojira, i due veri e propri protagonisti del film. Inizialmente l'atteggiamento del ricercatore si dimostra ostile verso il titano, individuato dall'uomo come causa della perdita del figlio e della disgregazione della sua famiglia e per questo ostenta un rancore che ricorda per certi versi quello che il capitano Achab rivolge verso Moby Dick ma la lotta del mostro per difendere la specie umana, insieme al sempre più stretto rapporto instaurato con Serizawa, finisce per donargli la forza di perdonarlo e, insieme, di accettare finalmente le tragedie della sua vita, così da poter riallacciare un rapporto reale con la figlia. Il travaglio psicologico della famiglia Russell viene però relegato a un piano minore rispetto alle vicende dei titani, fino al punto di ricorrere in maniera costate a battute di spirito per spezzare i momenti che tendono maggiormente al sentimentalismo o alla riflessione morale. Il regista di Krampus (2015) sembra in questo modo voler evitare a tutti i costi una lettura eccessivamente intellettualistica del film ma, al contempo, mettere in chiaro come per lui le creature siano il vero fulcro dell'opera: non a caso è ancora una volta Gojira il salvatore della Terra, con tanto di parabola morte-resurrezione tipicamente cristologica (ucciso da un colpo a tradimento dell'esercito americano, torna in vita avvolto da una luce che non può non ricordare l'iconologia dello spirito santo), e soltanto la presa di coscienza della necessità di porre la fiducia dell'uomo in questo essere gigante porta alla sconfitta di Ghidorah. Da questo punto di vista il personaggio che realmente spicca risulta proprio il dottore interpretato da Watanabe, vero e proprio apostolo del mostro benevolo, portatore di una fede più potente di ogni difficoltà o tornaconto egoistico che possa finalmente permettere all'uomo di riscattarsi (ancora una volta il tema della redenzione) dal ruolo di distruttore del proprio pianeta.
Un discorso a sé merita a questo punto il lato puramente visivo del film. Comprensibilmente infarcito di computer grafica, il lungometraggio compie un lavoro di sincretismo estetico tra l'oscurità del predecessore, nel quale le maglie della notte finivano sempre ottenebrare la visione completa dei kaiju, e le tonalità pop, vivaci di Kong: Skull Island. Chiaramente in un'opera che si fonda sulla gioia dei fan di poter vedere finalmente combattere mostri iconici, con la spettacolarità assicurata dalle tecnologie odierne, avvolgere eccessivamente queste figure come nel prequel sarebbe stato controproducente e dunque Dougherty ricorre sovente a nebbie e tempeste per mantenere una certa aura di mistero e allo stesso tempo mostrare i titani in tutta la magnificenza di una cgi davvero ben realizzata ma sono molteplici anche i momenti in cui, tra raggi supersonici ed esplosioni nucleari, la regia non lesina su colori estremamente accesi che abbagliano lo spettatore come nelle ambientazioni metropolitane di qualche capitolo della trilogia dedicata a John Wick. Sebbene manchi forse di una certa dose di coraggio nel scegliere una strada originale, è innegabile come il lato formale della pellicola colpisca il bersaglio prescelto, ricorrendo peraltro (come una larghissima fetta dei blockbuster americani e non solo) alle riprese a mano dal basso verso l'alto e i rapidissimi zoom introdotti da Zack Snyder in L'uomo d'acciaio (Man of Steel, 2013) per amplificare la sensazione di impotenza umana dinanzi a una catastrofe in grado di dissolvere in pochi minuti metropoli intere.
Chiunque cerchi un prodotto molto raffinato o la narrazione al primo posto potrebbe sicuramente storcere il naso alla visione di questo Godzilla II - King of the Monsters ma coloro che amano i kaiju, lo spettacolo della sala cinematografica e l'emozione dell'hic et nunc troveranno un prodotto in grado di accontentarli, anche se senza eccellere.