sabato 22 settembre 2018

MARTYRS: GLORIFICAZIONE E DANNAZIONE DELLO SGUARDO

Sono passati ormai dieci anni dall'uscita, piuttosto travagliata in realtà, nelle sale di Martyrs eppure ancora oggi continua a rappresentare una visione tra le più dure per chiunque sia debole di stomaco così come per gli amanti del gore. Presentato al Festival di Cannes dello stesso anno, il secondo lungometraggio del francese Pascal Laugier, pupillo del regista de Il patto dei lupi Christophe Gans, dopo aver faticato persino a trovare finanziatori a causa della violenza estrema che mette in scena arriva nelle sale mondiali in pompa magna, forte proprio dall'aura di film maledetto che si crea all'interno dei festival e dunque ottiene un discreto successo di pubblico ma spacca completamente l'opinione critica, divisa tra chi ne ammira coraggio e visceralità e chi invece bolla l'opera come una mera spettacolarizzazione sadica di torture da accomunare a quel filone dell'horror statunitense definito, in maniera dispregiativa, "torture porn" (si pensi in primis a Saw, diretto nel 2004 da James Wan).

Diviso in tre atti piuttosto ben distinti, il film in analisi segue la discesa nell'abisso del dolore da parte di una coppia di ragazze, Lucie e Anna. La prima è sopravvissuta a un lungo periodo di detenzione in una fabbrica abbandonata dove è stata torturata e distrutta psicologicamente dai suoi aguzzini e la seconda è l'unica persona a prendersi realmente cura di lei quando questa, dopo essere fuggita miracolosamente, viene ricoverata in ospedale. Circa quindici anni dopo l'arrivo della sfortunata giovane nella vita di Anna Lucie trova finalmente la coppia che l'aveva torturata e si vendica uccidendola a sangue freddo, insieme ai figli. L'amica accorre immediatamente nella casa dell'avvenuto massacro per coprirne le tracce ma le visioni dell'ex reclusa diventano sempre più costanti e incontrollabili, tanto da spingerla al suicidio. Sconvolta da quanto è appena accaduto la protagonista chiama, dopo più di due anni, sua madre a telefono, consapevole di aver buttato completamente la propria vita nell'ossessivo rapporto con Lucie ma mentre tenta di dialogare con la donna scopre un passaggio segreto all'interno dell'edificio che sarò fondamentale per il terzo e ultimo atto della pellicola.

In numerose interviste Laugier ha asserito come il suo secondo lungometraggio sia nato come risposta a un periodo di grande dolore vissuto e di sconforto verso la vita stessa ed effettivamente in Martyrs proprio la sofferenza risulta la benzina che muove il motore del film, fin dall'incipit in stile found footage che mostra la traumatica infanzia di Lucie, sopravvissuta a sevizie fisiche e psicologiche talmente potenti da averne segnato per sempre l'esistenza. La speranza, la positività, il bene in senso ontologico sembra completamente assente all'interno dell'universo immaginato dal cineasta francese dato che nessuna delle figure messe in scena pare riuscire a muoversi in tale direzione e finisce sempre per arrecare dolore al prossimo oppure ignorare i patimenti altrui. La sfortunata reduce da giorni di torture finisce per diventare essa stessa un'omicida, la sua unica amica pur di assecondarla si rende complice dei suoi deliri violenti e persino i medici abbandonano Lucie a se stessa senza preoccuparsi della sua mente ormai vicina al collasso. Proprio l'ignavia dei dottori, capaci solo di assistere inermi alla discesa verso il baratro della loro paziente, introduce quello che è a mio avviso il vero cuore pulsante dell'opera e il concetto sul quale riflette maggiormente il regista con essa: lo sguardo e l'atto di osservare. L'intero film è permeato di figure che osservano l'altro e soprattutto la sofferenza del prossimo, a partire proprio dalla già citata prima sequenza che si rivela in realtà un filmato girato dai medici per mostrare lo status della loro difficile paziente. Per Laugier lo sguardo diventa soprattutto il veicolo attraverso il quale l'uomo entra dunque in contatto con il dolore delle altre persone cercando di mantenere una sorta di distanza di sicurezza, come quei generali che osservano l'esito di una battaglia da lontano, senza partecipare del massacro dei propri uomini e del nemico, eppure il regista sembra affermare che sia in realtà impossibile separare colui che osserva dall'oggetto del suo sguardo. Nel corso della pellicola viene a chiarirsi come le visioni (certamente prodotte da errate percezioni mentali ma pur sempre legate al senso della vista) di Lucie siano dovute al senso di colpa per non aver salvato una ragazza incatenata durante la fuga dai suoi aguzzini, così come la detenzione finale di Anna, apice del percorso di distruzione di ogni possibilità di una vita normale, viene provocata indirettamente dalla sua decisione di assistere alla vendetta dell'amica e dalla scelta di non fuggire nel momento in cui scopre il passaggio segreto nella casa della famiglia Belfond. Ecco dunque che nell'atto finale del lungometraggio l'autore di Saint Ange (2004) enuncia esplicitamente la centralità del guardare introducendo una sorta di società segreta, chiaramente ispirata alla Gestapo come organizzazione ma per metodi di tortura più vicini ai soldati statunitensi di stanza in Iraq, che da decenni rapisce giovani donne e le sevizia per riuscire a farle diventare martiri, letteralmente testimoni, in grado di entrare per pochi minuti in contatto con il mondo dell'aldilà e poterlo appunto testimoniare agli adepti. L'ossessione di questa "setta" per la scoperta di un mondo oltre i nostri sensi, percepibile soltanto attraverso la vista di coloro che si ergono tra la massa riuscendo a sopportare le sofferenza più cruente, conferma completamente quanto il cuore dell'opera sia rintracciabile nel connubio dolore-sguardo, un dittico legato indissolubilmente dalla glorificazione mistica che ne fanno i seguaci dell'organizzazione guidata dalla misteriosa Mademoiselle e dalla conseguente dannazione di vittime e carnefici, dei quali in un certo senso fanno parte persino gli spettatori, i primi colpevoli del peccato di guardare per diletto uno spettacolo di tale crudeltà, proprio come i pagani secondo Tertulliano o gli appassionati di horror per Michael Haneke in Funny Games (1997).

Sminuire Martyrs come un semplice film d'exploitation pronto a capitalizzare la morbosa attrazione del pubblico contemporaneo nei confronti di scene di violenza sempre più estreme mi sembra francamente una presa di posizione che dimostra un approccio superficiale al film, al suo contenuto, alla sua costruzione narrativa e persino al suo impianto formale, criticato in molte recensioni per un rifiuto quasi totale della composizione classica dell'inquadratura e per l'uso spasmodico di macchina in spalla e steady cam, scelte estetiche che a mio avviso risultano conseguenti proprio alla feroce critica mossa nei riguardi dell'atto del guardare e soprattutto del piacere che se ne trae. In fondo se siamo riusciti a guardare per intero il lungometraggio, sembra suggerirci Laugier, perché non dovremmo riuscire a osservare anche il dolore reale altrui senza muovere un dito?

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