martedì 7 maggio 2019

VITA DI PI: UN VIAGGIO TRA SOPRAVVIVENZA, RELIGIONE E CINEMA

In un orizzonte attuale in cui il box office pare dominato solamente da franchise, supereroi e prodotti animati (curiosamente quasi tutti Disney per tutte e tre le categorie) pare ormai un passato remoto quel 2012 in cui il mercato è stato sconvolto dal fenomeno Vita di Pi (Life of Pi), diretto da Ang Lee dopo un lungo travaglio produttivo, condito dall'abbandono di cineasti di valore assoluto quali M. Night Shyamalan e Alfonso Cuaron. Al netto dei tanti cambi di timone sia alla regia che alla sceneggiatura e dell'imponente budget, cresciuto a dismisura proprio a causa di questi problemi, la pellicola si è rivelata un clamoroso successo sia di critica che pubblico, vincendo numeroso premi, tra cui anche l'Academy per la miglior regia, e incassando più di seicento milioni di dollari. Risultati tutt'altro che preventivabili per una produzione sì ispirata a un romanzo ben accolto ma ben lontano dall'essere un fenomeno pop come Twilight o Cinquanta sfumature di grigio.

Il film, così come il romanzo omonimo, si svolge prevalentemente all'interno del racconto di Pi (Irrfan Khan) circa la sua miracolosa sopravvivenza a un naufragio, quando era ancora un ragazzo, allo scrittore Yan Martel (Rafe Spall), attirato dalla possibilità di avere tra le mani una storia incredibile da utilizzare per la sua nuova opera. Il protagonista, cresciuto in una famiglia indiana sorretta economicamente dal possesso di uno zoo, è suo malgrado costretto a lasciare insieme ai genitori, al fratello e agli animali la madrepatria per trasferirsi via mare in Canada ma la nave improvvisamente si inabissa e l'unico a sfuggire all'inferno è proprio l'adolescente, a bordo di una scialuppa di salvataggio con una zebra, un orango, una iena e la tigre Richard Parker, animale che ha sempre affascinato Pi e che diventerà il suo vero e unico compagno di sventura dopo la dipartita degli altri naufraghi.

Detto senza mezzi termini, Vita di Pi è tutto ciò che il cinema ad alto budget dovrebbe aspirare a essere e un esempio di come l'arte sappia essere stratificata, capace di parlare e di attirare qualsiasi tipologia di fruitore, da quello più colto al più distratto. Il lavoro di Ang Lee, sempre a suo agio con qualsivoglia genere o caratura produttiva e in qualsiasi nazione, riesce nell'impresa titanica di costruire sotto l'impalcatura di kolossal ricco degli effetti speciali più all'avanguardia del momento, specie se si considera l'utilizzo della stereoscopia che in quegli anni dominava il mercato, una stratificazione di significanti e significati rivolti sia allo spettatore occasionale che al cinefilo, allo studente di cinema e alla famiglia con bambini al seguito fino anche all'ammiratore del romanzo di Martel, del quale risulta molto rispettoso da ogni punto di vista. Senza voler svelare troppo di un intreccio che gioca abilmente sull'ambiguità, specialmente nel finale, ciò che realmente risalta nell'adattamento operato da David Magee è la volontà di indagare attraverso quella che potrebbe apparire come una tipica storia di sopravvivenza quesiti di valenza etica e metafisica che toccano soprattutto il rapporto tra l'uomo e la fede, intesa sia come entità superiore in generale che nelle sue propagazioni empiriche, ossia la natura e il mondo che un dio creatore ci avrebbe donato. Pi, affascinato da ben tre religioni diverse ma al contempo anche dalla matematica, disciplina e linguaggio per eccellenza della razionalità, vive un viaggio che è sì una concreta epopea nella quale rischia la sua vita ma diventa allo stesso tempo un simbolico excursus verso la maturità e, elevando ancora di più il tipo di riflessione, una metafora, una parabola sulla forza creatrice della fantasia e della narrazione, capaci di ammaliare l'uomo persino più della realtà. Lee riesce dunque a impostare almeno tre possibili chiavi di lettura dell'esperienza in mare del protagonista e quel finale così restio nel fornire risposte assolute non fa che confermare come in fondo il regista stia dalla parte dei sognatori, della metafisica rispetto a razionalisti ed empiristi, il tutto con un sottile ma non troppo velato discorso metacinematografico che sottende a un argomento caro alla poetica dell'autore di La tigre e il dragone (2000), ossia quella preferenza nei confronti del meraviglioso e del fantastico a discapito della verosimiglianza che fin troppi auteur ricercano nella settima arte. In tutta la sua filmografia la realtà viene sempre sconvolta da un qualche elemento soprannaturale o quasi e il realismo finisce per arrendersi a una filigrana fantastica che eleva la pura narrazione ad astrazione poetica.
Come ottiene questo risultato il cineasta di Taiwan? Da grande creatore di cinema in quanto immagini in movimento non può che farlo proprio attraverso l'apparato visivo. L'imponente messa in scena si avvale in questo lungometraggio di uno straordinario 3D che esalta la profondità di campo e la vividezza dei colori che compongono le straordinarie panoramiche e gli immaginifici campi lunghi, nei quali il confine tra cielo e mare finisce sempre per scomparire, riportando l'acqua a quella sua dimensione di noumeno, di essenza primigenia portatrice di vita e di principio alla base della filosofia (si pensi ad Empedocle). La stereoscopia permette allo spettatore di provare un'immersione in questo elemento fondamentale per forma e tematiche del film e al contempo amplifica la magnificenza visuale di tutte quelle straordinarie inquadrature in cui la realtà cede il passo alla fantasia, regalando scorci di rara bellezza, come la balena fluorescente o la tempesta squarciata da lampi di sole. Il paragone con Avatar (2009), spesso cercato dalla critica, in realtà appare piuttosto velleitario viste le enormi differenze stilistiche e poetiche con l'epopea sul digitale e l'essenza umana all'interno dell'era della perdita della corporeità nata dalla mente di Cameron, eppure è innegabile come questi due film rappresentino le vette assolute nell'utilizzo del 3D per una produzione ad alto budget e due grandi esempi di congiunzione tra autorialità e spettacolarità hollywoodiana.

Vita di Pi è per me un film consigliato, molto più che caldamente, a chiunque, a chi ama il cinema avventuroso, a chi cerca grandi emozioni, ai patiti delle immagini in grado di meravigliare e qualunque persona che abbia un minimo interesse verso il cinema. Un vero peccato che Hollywood non lo abbia ancora utilizzato come exemplum.

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