mercoledì 18 dicembre 2024

PALO ALTO: NOT ANOTHER TEEN MOVIE

Nonostante una pletore di titoli divenuti iconici nel corso dei decenni, a cominciare da uno dei primi esempi quale Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, Nicholas Ray, 1955), i teen movie sono sempre visti con un certo sospetto, quasi come se vi fosse qualcosa di intrinsecamente sciocco o banale nelle storie aventi come protagonisti gli adolescenti. Discorso che peraltro si riverbera in qualunque medium e non solo nel cinema, dai romanzi passando per la musica. Ciononostante molti autori riconosciuti o giovani promesse si sono cimentate con questa tipologia di racconto. Tra di essi figura anche Gia Coppola, nipote del leggendario autore di Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979) tra gli altri, impegnata quest'anno con The Last Showgirl (2024) ma che esordisce al lungometraggio nel 2013 con Palo Alto, tratto dall'omonima raccolta di racconti brevi a opera di James Franco, qui presente nelle vesti a lui più congeniali di attore. Prodotto con un budget piuttosto basso per gli standard statunitensi, il film viene presentato al Festival di Venezia, dove riceve recensioni perlopiù positive e, successivamente, buoni riscontri anche al box office, aprendo alla nipote d'arte la possibilità di una intrigante carriera nel cinema di fiction.


Ambientata nell'omonima città californiana, la pellicola segue la vita di tutti i giorni di un gruppo di ragazzi, alle prese con scuola, sport, feste a base di alcol e canne, esperienze sessuali spesso occasionali e i primi scontri con l'imminente età adulta. Tra di essi vengono seguiti con particolare attenzione April (Emma Roberts), talento della squadra liceale di calcio che inizia una relazione con il proprio allenatore (James Franco), e Teddy (Jack Kilmer), la cui vocazione artistica viene messa in secondo piano dalle bravate che combina insieme al migliore amico Fred (Nat Wolff).


Uno dei numerosi motivi pregiudizi verso il teen movie a cui accennavo precedentemente è quello di spettacolarizzare la vita dei ragazzi, in un tripudio di glamour e cliché narrativi in cui la caratterizzazione degli stessi finisce per essere estremamente bidimensionale e prevedibile. Palo Alto segue una direzione completamente opposta, non perché si discosti dai tipici problemi e temi legati a quella particolare età, bensì perché porta lo spettatore all'interno della quotidianità di adolescenti qualunque, come lo siamo stati tutti noi. La macchina da presa di Coppola, che dimostra anche un notevole gusto per la composizione delle inquadrature, segue i personaggi con la rara sensibilità di chi vuole conoscere qualcuno senza però finire per giudicarlo, dando vita a una sorta di via di mezzo tra il pedinamento quasi documentaristico di Elephant (Gus Van Sant, 2003) e l'umanesimo ai limiti del realismo magico di Magnolia (Paul Thomas Anderson, 1999). Una scelta narrativa che potenzia notevolmente il coinvolgimento emotivo del fruitore, permettendogli di entrare in contatto con una realtà magari lontana nel tempo, sfidando la tentazione di analizzare a livello sociologico o etico quello che accade sullo schermo, atteggiamento tipicamente adulto e poco adolescenziale. Esemplare di questa volontà è il doppio dialogo che vede protagonisti prima Teddy e un'assistente sociale e successivamente April e il suo coach, nel quale entrambi i giovani esternano una mancanza di consapevolezza di ciò che anima alcune delle loro azioni, mentre la risposta dei più maturi interlocutori li rassicura sul fatto che sia una caratteristica essenziale della giovinezza, nonostante in realtà una motivazione forte sia presente eccome nel momento in cui agiscono.


E certamente tra questi motivi non può non esserci anche la difficoltà nel rapportarsi con gli adulti, che appaiono totalmente distaccati o assenti nei confronti della generazione che li succede, talvolta fisicamente ma spesso anche quando sono presenti almeno da quel punto di vista. Il personaggio di James Franco, ad esempio, che anagraficamente sarebbe il più vicino ai protagonisti, si dimostra tutt'altro che in grado di creare una relazione sana e reciproca con la giovane amante e le altre calciatrici, che tratta esclusivamente come oggetti sessuali e manipola emotivamente con atteggiamenti subdoli quali love bombing o evidenti ammiccamenti che però astutamente evita di trasformare in molestie palesi. La distanza abissale tra teenager e adulti viene evidenziata anche visivamente dall'autrice, attraverso un ampio ricorso da campi lunghi in cui i primi finiscono per essere quasi inghiottiti dalla fredda architettura in cui si muovono, a simboleggiare lo smarrimento quasi metafisico (si pensi ai dipinti di De Chirico) che provano aggirandosi in un mondo che ancora non conoscono abbastanza, senza alcuna guida che possa almeno aiutarli a conoscere meglio sé stessi. Una scelta estetica molto vicina al quasi coevo It Follows (David Robert Mitchell, 2014), che estremizza l'horror vacui della provincia americana in decadimento economico e sociale in un mostro mutaforma ma condivide il medesimo atteggiamento empatico verso i ragazzi della pellicola in analisi, così come anche una colonna musica ricca di suoni elettronici capace di enfatizzare il disorientamento dei personaggi.


Per comprendere la connessione quasi unica tra Palo Alto e l'età che tenta di descrivere basterebbe la scena finale, in cui i destini opposti di Teddy/April e Fred riescono a instillare nello spettatore quei due estremi emotivi che possono convivere solamente quando la vita adulta è un incomprensibile miraggio.



sabato 7 dicembre 2024

BLONDE: LA FABBRICA DEGLI INCUBI

La categoria dei film divisi è sempre stata ricca e lo è ancora di più nell'era dei social, dove solitamente le opinioni si riflettono in una contrapposizione binaria tra poli estremi: o capolavoro o inguardabile, senza vie di mezzo. Spesso sono proprio questo tipo di produzioni a divenire, nel corso degli anni, dei cult, trovando una maggiore comprensione e atteggiamenti meno schierati da parte del pubblico, ed è questa, almeno a mio avviso, la strada sulla quale si sta incamminando Joker: Folie à Dieux (Todd Phillips, 2024). Su un percorso nettamente più tortuoso si trova, d'altro canto, Blonde, il biopic sulla diva per eccellenza, Marilyn Monroe, diretto da Andrew Dominik nel 2022. Opera presentata al Festival di Venezia con ben quattordici minuti di applausi per poi venire gradualmente demolita dal reso della critica al momento della sua distribuzione su Netflix, suscitando persino reazioni scandalizzate di presunte femministe e accuse di propaganda antiabortista. Il simbolo della netta polarizzazione intorno al lungometraggio è la sua presenza, in contemporanea, sia agli Academy Awards che ai Razzie del 2023. Un cortocircuito evidente di cui proverò a sviscerare i motivi.


La pellicola, seguendo un andamento cronologico non prettamente lineare, mette in scena le vicende umane di Norma Jeane, in arte Marilyn Monroe (Ana de Armas) a partire dalla tragica infanzia vissuta tra le grinfie di una madre (Julianne Nicholson) affetta da gravi disturbi psichiatrici e violenta, passando poi per la carriera hollywoodiana e i rapporti con uomini tanto famosi quanto incapaci di amarla e comprenderla, tra cui Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), Arthur Miller (Adrien Brody), i due figli d'arte Cass Chaplin (Xavier Samuel) ed Eddy Robinson Jr. (Evan Williams) e in ultimo il presidente Kennedy (Caspar Phillipson).


Il biopic è da un lato uno dei generi maggiormente in voga degli ultimi anni, come dimostrano i risultati al box office e la crescente percentuale che occupano sia in sala, sia sui palinsesti on demand, eppure soffrono al contempo di una staticità estetico-narrativa che va ben oltre l'usuale dialettica tra rispetto dei canoni e variazioni che contraddistingue il cinema di genere. Escluse poche, notevoli eccezioni, come ad esempio la filmografia di Pablo Larraìn, si limita fin troppo spesso a ricalcare la parabola da manifesto dell'american dream nella quale un individuo partito dal niente riesce, grazie a tenacia e talento fuori dal comune, a scalare la piramide sociale fino al successo, superando anche fasi di vita oscure e complicate. Dominik, d'altro canto, sceglie una vita molto diversa, destrutturando il genere esattamente come aveva fatto in precedenza con il western (The Assassination of Jesse Jamesby the Coward Robert Ford, 2007) e il neo-noir (Killing Them Softly, 2012), a cominciare dalla struttura del racconto, che viene rarefatta divenendo una sorta di collage di momenti uniti tra di loro con un montaggio più vicino a quello di Ejzenstejn che non a quello classico a cui fa riferimento la protagonista stessa durante un dialogo, nel quale sottolinea quanto sia carente la componente creativa degli attori al cinema proprio a causa delle manipolazioni offerte dall'editing. Blonde, difatti, al netto di alcune coordinate temporali fornite da date o dai riferimenti ad alcune delle pellicole più note della carriera di Marilyn Monroe, si sviluppa come un flusso il cui cuore è rappresentato non dalle usuali dinamiche di causa ed effetto, bensì dalla progressiva frantumazione della psiche del personaggio che racconta, il cui punto di non ritorno diviene la nascita proprio del suo alter ego pubblico, che anno dopo anno, film dopo film, si distanzia sempre più dalla vera Norma. Lo sgretolarsi dell'equilibrio tra le due anime che condividono il corpo della diva porta progressivamente la donna sull'orlo del baratro, accelerato dal modo in cui viene oggettificata da qualunque figura maschile entri nella sua vita. Se la sua carriera hollywoodiana comincia con uno stupro da parte di un produttore, anche in seguito, quando l'opinione comune la vorrebbe così ricca e famosa da poter gestire la propria vita in piena autonomia, finisce solamente per essere cannibalizzata da quel pubblico che la tratta come un pezzo di carne per il male gaze, mentre i suoi compagni o mariti vorrebbero solamente plasmarla secondo i propri comodi, arrivando in tanti casi anche picchiarla o violentarla.


Il cinema e Hollywood in particolare rappresentano per il cineasta australiano l'esatto opposto della fabbrica dei sogni con la quale vengono spesso associati, persino nei tanti film di natura metatestuale, tanto da costituire per la protagonista un lungo ed estenuante incubo, dove non esistono linee di demarcazione tra pubblico e privato; gli esseri umani vivono solamente per essere usati, sbranati e digeriti e dietro ogni mito si nasconde solamente l'ennesimo orco. Traendo spunti anche estetici dall'andamento onirico della filmografia lynchiana, soprattutto Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006), non a caso le pellicole più vicine all'horror della stessa e di ambientazione cinematografica, l'autore di Chopper (Andrew Dominik, 2000) demistifica in toto l'alone di fiaba che circonda l'eredità della diva bionda in un caotico viaggio infernale tra violenze domestiche, speranze di incontrare quel padre mai conosciuto e dialoghi immaginari con i feti che la donna ha portato nel grembo prima di una serie di aborti. La razionalità tipica di un genere che pretende una certa oggettività di matrice storiografica cede il passo alla volatilità inquietante dell'incubo e addirittura l'eroe di generazioni di americani, John F. Kennedy, si tramuta nell'ennesimo padre padrone che vede in Norma letteralmente soltanto un buco da riempire del proprio sperma. In questa discesa negli inferi esistenziali dell'attrice interpretata splendidamente da De Armas la perdita dell'innocenza e di ogni coordinata logica si traduce perfino in uno schizofrenico salto continuo tra diversi aspect ratio, tra colore e bianco e nero, lunghi piano sequenza e campi e controcampi sui volti dei personaggi da classicismo americano, inquadrature fisse e macchina a mano nello stile di Terrence Malick.


Come poteva un'opera tanto destabilizzante sotto ogni punto di vista accontentare tutti? Ecco perché Blonde è tra le opere più polarizzanti degli ultimi anni, ma anche una delle più coraggiose e viscerali nel coinvolgimento emotivo dello spettatore e nel ricordarci che, dietro i proclami, gli schieramenti ideologici e i miti collettivi la realtà è ben più complessa e, purtroppo, spaventosa.

lunedì 2 dicembre 2024

JOKER: FOLIE À DEUX: THAT'S ENTERTAINMENT

Il 2019 sembra così lontano ormai, persino i meme si sprecano sull'argomento. L'anno precedente il grande spartiacque della pandemia da COVID-19, del distanziamento sociale, delle videoconferenze e dell'ulteriore spintarella dello streaming verso l'esperienza in sala. L'anno, a proposito di spinte (mi riferisco all'iconica battuta sulla follia di Heath Ledger), di Joker, diretto da un novizio dei cinecomic quale Todd Phillips, capace però di superare il miliardo di dollari al botteghino e di vincere addirittura il Leone d'oro al Festival di Venezia. Un caso più unico che raro da moltissimi punti di vista, esterno al più esteso universo diegetico DC Comics e progettato per restare un unicum ma, come sempre accade, la legge del mercato prevede che a ogni successo corrisponda un seguito: Joker: Folie à Deux, presentato ancora una volta alla kermesse italiana nel 2024. Questa volta però la magia tra film e pubblico non si ripete, portando a un sostanziale insuccesso dello stesso, mentre critica e addetti ai lavori si dividono nettamente tra aspri detrattori e fermi sostenitori.


Ambientato a circa due anni di distanza dal predecessore, il lungometraggio vede Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) internato nel manicomio criminale di Arkham, alle prese con delle perizie mediche che potrebbero stabilire la sua infermità mentale e, conseguentemente, evitargli un processo che quasi sicuramente lo condannerebbe alla pena di morte. Mentre ogni giorno subisce le angherie delle guardie carcerarie, tra cui spicca il violento Jackie (Brendan Gleeson), conosce e si innamora follemente (pun assolutamente intended scusate) di Lee (Lady Gaga), giovane paziente dell'istituto ossessionata dal Joker grazie al film televisivo tratto dalle sue gesta. 


A cominciare dal marketing a essa legata, il titolo della pellicola sembra apparentemente fare riferimento all'iconica coppia del crimine costituita dai due protagonisti, ma, difatti, Joker: Folie à Deux fa della dialettica tra due poli opposti l'essenza di sé e del mondo folle che rappresenta, in primis quella tra Arthur e Joker. Mentre l'avvocato difensore (Catherine Keener) tenta in tutti i modi di dimostrare la dissociazione tra i due, come se fossero due distinte identità all'interno di un unico corpo, il resto del mondo vede nel tragico personaggio unicamente il volto truccato da clown del serial killer capace di generare delle sanguinose rivolte a Gotham con le sue gesta. Harvey Dent, procuratore distrettuale e accusatore dell'uomo, mette in risalto unicamente le vicende delittuose di questi, omettendo volontariamente qualunque traccia del passato da vittima. I tanti sostenitori del protagonista inneggiano unicamente a Joker e lo stesso vale per Lee: l'amore che prova è solamente una morbosa attrazione verso una celebrità oscura e dannata, simile a quella delle tante groupie degli assassini seriali più famigerati o al fenomeno social italico del "malessere". Ancora una volta Arthur è totalmente invisibile alla società di cui dovrebbe far parte e trova un unico metodo per assumere consistenza dinanzi agli occhi  del mondo, ovvero trasformarsi nel rabbioso pagliaccio idolatrato dai disadattati di Gotham.


Tutto come nel potente finale del primo capitolo dunque? Tutt'altro. In primis perché i seguaci del Joker non sono più solamente i reietti, i diversi, gli esclusi che avevano trovato nell'ira funesta di un loro simile un vessillo da seguire, sfogando anni e generazioni intere di repressione da parte degli strati sociali più altolocati e di un sistema politico ed economico iniquo. Sulle stragi di Arthur è stato addirittura girato un film che lo ha reso una vera e propria icona pop, sfondando la distinzione tra diegesi e realtà e facendo dei tanti esaltati che assistono al processo del protagonista dei riflessi di coloro che avevano amato a tal punto la pellicola del 2019 e il noto villain in genere da esaltarlo al pari di un eroe o forse anche più del suo arcinemico Batman. Follia? Semplice delirio di una minoranza di squilibrati? No, il semplice effetto di quella che Guy Debord definisce "società dello spettacolo". Tutto nella contemporaneità perde di significato in sé per trovarne uno solamente nella propria rappresentazione mediatica, filtrata dal linguaggio dell'entertainment e dall'onnipresenza di uno schermo, elementi non a caso onnipresenti nell'opera diretta da Phillips. In questo senso diventa pregnante la scelta di intervallare ai momenti da prison movie e thriller legale dei numeri da musical classico, dove Arthur, nei panni del proprio alter ego, e Lee si esibiscono in canti e danze tipicamente hollywoodiani per esprimere l'amore che li lega. Un amore artefatto, superficiale e stilizzato alla stregua di quelli con happy ending obbligatorio di Vincente Minnelli e Stanley Donen, utilizzati dal cineasta statunitense come emblema stesso dell'imperante mistificazione in cui viviamo tutti noi, nascosti dietro le maschere che creiamo ogni giorno attraverso selfie e stories che postiamo con tale abbondanza da sotterrare il nostro vero io.


A infrangere uno schema tanto razionale e paradigmatico nella sua follia non può essere altri che un diverso quale Arthur, che in un ultimo gesto di titanismo, contrario e affine allo stesso tempo a quello dell'omicidio in diretta tv del primo film, getta via il trucco e si rivolge alla giuria non più come Joker, bensì come quello sfortunato e abbandonato uomo che incarna il Male, banale e strisciante. Quell'Arthur che non interessa neanche al pubblico del mondo reale, quello che è uscito indignato dalle sale di tutto il mondo perché chiedeva ancora una volta un pezzo del principe del crimine di Gotham e non di empatizzare con un uomo comune. Joker: Folie à Deux costituisce il punto di non ritorno del cinema anarchico e nichilista di Phillips, arrivato al punto di girare un blockbuster che decostruisce non solo la propria essenza, quella dei sequel e dei cinecomic, ma soprattutto quella dei fan, in quanto degenerazione ultima degli alienati creati dal capitalismo denunciato da Marx ormai due secoli or sono. Se siete tra coloro che si aspettavano l'ennesimo film rassicurante e accomodante allora dopo la visione dovreste iniziare a porvi qualche quesito, almeno secondo l'autore di Una notte da leoni (The Hangover, 2009).