Nel 2022, a partire da un efficace cortometraggio e con un budget piuttosto risicato per gli standard hollywoodiani, Smile (Parker Finn) si era imposto come un vero e proprio fenomeno, arrivando a incassare una cifra superiore ai 200 milioni di dollari, circa venti volte quanto speso per la realizzazione dell'esordio di Parker Finn. A due anni di distanza da questo inatteso exploit, il regista porta in sala l'inevitabile sequel (Smile 2) ma con idee ben chiare e ambizioni elevate, pronto a smentire chi aveva frettolosamente bollato il predecessore come un mero miracolo del marketing. Seppur meno remunerativo da un punto di vista economico, questo seguito viene accolto da ottime recensioni, stavolta anche nel nostro paese, permettendo a Finn di superare lo scivoloso scoglio della seconda opera, quella della conferma.
Dopo un prologo ambientato a meno di una settimana di distanza dal finale del primo capitolo e che vede il poliziotto Joel (Kyle Gallner) trasmettere la maledizione a uno spacciatore (Lukas Gage), perdendo nel frattempo la vita, il film sposta il proprio focus su Skye Riley (Naomi Scott), popstar appena tornata in sella dopo un gravissimo incidente automobilistico, nel quale ha perso la vita il compagno e attore Paul Hudson (Ray Nicholson). La cantante sta preparando il suo primo tour di concerti, dopo essersi ripresa dalle ferite e dal lungo processo di disintossicazione da alcol e droghe, ma è costretta ad affidarsi proprio al succitato pusher per procurarsi degli antidolorifici a causa delle forti di fitte di dolore alla schiena. Qui assiste impotente all'apparente suicidio del ragazzo, che in questo modo le passa il testimone dell'entità dal sordido sorriso.
Solitamente, specie nelle produzioni dei grandi studios, la filosofia dietro un seguito è quella della reiterazione degli elementi alla base del predecessore ma esasperati all'eccesso. Bigger and louder. Smile 2, pur riproponendo alcuni degli spunti fondamentali del primo capitolo, persino inquadrature quasi identiche (si pensi alle panoramiche con la macchina da presa che volta di 180 gradi sullo skyline), interpreta quel bigger portando l'esplorazione di un fenomeno psicologico estremamente diffuso nella nostra contemporaneità, la cosiddetta smiling depression, all'interno del milieu che ne rappresenta le estreme conseguenze, quello dello spettacolo. Avvicinandosi a pellicole dalla medesima ambientazione come Perfect Blue (Satoshi Kon, 1997) e Il cigno nero (Black Swan, Darren Aronofsky, 2010), Finn rende l'entità trasformista non più solamente una manifestazione (meta)fisica della pressione sociale dilagante a mostrare sempre la versione migliore di sé, nascondendo sotto il tappeto tutto il corredo di problematiche psicologiche delle quali tutti noi soffriamo, bensì un simbolo di quelle più specifiche connesse allo showbiz. Un microsistema sineddoche all'eccesso di qualsiasi caratteristica intrinseca dell'attuale apparato sociologico, sia positiva, sia negativa, nel quale la fama rende qualunque individuo carne da macello, da cui una filiera attinge nutrimento economico fino a prosciugarne l'umanità giorno dopo giorno, esibizione dopo esibizione. Esemplare di questa oggettificazione cui va incontro in questo specifico caso Skye è il personaggio di Elizabeth (Rosemarie DeWitt), una madre che vive solamente in funzione della carriera della figlia e che relega sullo sfondo qualsiasi difficoltà accusata da quest'ultima pur di mantenere lo status economico e sociale acquisito grazie alle fortune della cantante, a costo persino di nasconderne un eventuale ricaduta nelle dipendenze pur di mandare avanti il tour. La protagonista, conseguentemente, si trova a dover sopportare il senso di colpa per quanto accaduto in passato, il ritorno sulle scene con tutto lo stress che comporta, resistere alle tentazioni delle sostanze stupefacenti e in ultimo la persecuzione da parte del villain facendo leva unicamente su sé stessa, poiché priva di qualsivoglia sostegno emotivo reale. L'unica eccezione potrebbe essere costituita dalla sua ex migliore amica (Dylan Gelula), non a caso la sola a essere totalmente estranea alle dinamiche dello spettacolo. Il marasma di pressioni fin qui descritto permette all'autore di giocare ancor più rispetto al passato con il confine tra realtà e immaginazione e la progressiva marginalizzazione del personaggio principale, del cui precipizio psicologico le visioni di uomini e donne sorridenti finiscono per fungere quasi unicamente da goccia che fa traboccare il vaso.
Altro elemento solamente accennato nel predecessore e che in questo secondo capitolo assume un valore ben più centrale è la valenza metacinematografica del meccanismo con cui agisce l'entità. Meccanismo innescato dallo sguardo e in particolare dalla visione di un evento particolarmente violento e tragico (un truculento suicidio) che non può non fare riferimento all'assuefazione dello spettatore al sangue, soprattutto quello appassionato di horror, e che esplode nel riuscitissimo finale, dove si crea una mise en abyme tra pubblico al primo concerto di Skye post-incidente e quello dietro lo schermo, oltre la quarta parete. Se la giovane star è certamente lontana dall'essere senza peccato, dalla final girl pura e immacolata, siamo sicuri di non essere anche noi parte di quei fantasmi che affliggono lei e tutte le vittime del demone al centro del film?
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