sabato 9 novembre 2024

PARTHENOPE: È IMPOSSIBILE ESSERE FELICI NEL POSTO PIÙ BELLO DEL MONDO

Uno dei mantra che ripete, quasi ossessivamente, almeno da qualche anno a questa parte un vate della riflessione filmica nostrana quale è Gianni Canova è che il cinema, come l'arte in genere, deve provocare, dividere e scuotere. Se in Italia qualcuno è ancora capace di farlo, parlando sia al grande pubblico, sia a quello più cinefilo, questi è Paolo Sorrentino. Amato quasi incondizionatamente all'estero, specie negli Stati Uniti, nella madrepatria è al centro di dibattiti all'uscita di ogni sua nuova fatica. Situazione puntualmente verificatasi anche quest'anno, in cui firma Parthenope. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film incontra fin da subito reazioni contrastanti, che estremizzano le posizioni sulla sua filmografia fin qui assunte portando però, in una quasi naturale conseguenza, a buonissimi risultati al botteghino italiano, come spesso accade alle opere divisive.


Ambientato principalmente intorno alla metà degli anni Settanta, il lungometraggio segue il percorso di maturazione dell'omonima protagonista (Celeste Dalla Porta), la cui giovinezza apparentemente perfetta, frutto anche di una bellezza ai limiti del prodigioso, viene totalmente distrutta dal suicidio dell'amato fratello Raimondo (Daniele Rienzo). Il turbolento lutto viene in parte mitigato solamente dai suoi studi di antropologia, che le permettono di conoscere il professor Marotta (Silvio Orlando), che tenta di guidarla tra le acque profonde dell'età adulta.


Limitarsi a recintare la gargantuesca ricchezza di spunti presente in Parthenope tramite una manciata di righe è un compito quanto mai arduo, per cui mi limito a riflettere su uno degli elefanti nella stanza dei pareri scaturiti: di cosa parla? Fin dal titolo e dalla mitologica sequenza della nascita della protagonista è chiaro l'obiettivo di Sorrentino, ossia rendere questo personaggio la personificazione di Napoli e della sua dimensione altrettanto mitologica, figlia delle origini elleniche e di una costante opera di mistificazione e narrazione di cui è contemporaneamente soggetto e oggetto ancora oggi. La giovane, nata dal mare come Afrodite proprio come la stessa città, incarna, attraverso un viatico da Bildungsroman che è solo strumento simbolico, l'intero spettro del variegato rapporto che con lei instaura l'umanità che le gravita intorno e come, nel corso degli anni, questi cambi, a seconda appunto dell'età. Parthenope in gioventù è la perfezione adamantina, la statuaria e folgorante bellezza di un periodo della vita in cui la meschinità della vita adulta è più lontana della linea dell'orizzonte, al punto da risultare persino stupida agli occhi dell'adolescente che vive il capoluogo campano. Come si può andare via quando si ha tutto? Questo lo si può comprendere soltanto alla morte dell'innocenza, rappresentata in questo racconto allegorico da Raimondo, ammaliato dalla luccicanza partenopea fino a sfidare i taboo etici più basilari nello slancio vitalistico della giovinezza, senza però avere le spalle abbastanza larghe da sopportare l'ombra che la luce più fulgida emana. Bello anch'egli come una divinità pagana, intrinsecamente e fatalmente legato alla sorella e oggetto del desiderio, mostra immediatamente quell'attrazione per la easeful death, come cantava un esteta quale John Keats (cantore della bellezza del sud Italia), a cui si riferisce anche il dandy disincantato dal volto stanco ed ebbro di Gary Oldman, che forse simboleggia proprio quello che sarebbe diventato Raimondo se non si fosse lasciato andare (verbo caro alla poetica sorrentiniana e più volte ripetuto durante il film).


Proprio il John Cheever interpretato con folgorante aderenza dal divo britannico introduce quella lunga serie di figure che aprono gli occhi alla protagonista sulle molteplici brutture e tipologie umane (si parla pur sempre di una antropologa) che popolano e gravitano intorno a Napoli e che da essa cercano di carpire fino all'ultima goccia di sangue/bellezza, come quel vampiro cui Oldman aveva regalato una infinita malinconia nel capolavoro di Francis Ford Coppola (Bram Stoker's Dracula, 1992). Persino coloro che non se ne rendono conto o lo fanno senza malizia continuano imperterriti a chiedere un pezzo di Parthenope senza però darle mai niente in cambio, senza mai provare a lenire il dolore viscerale della perdita. Dal seducente e spietato camorrista, dal volto di quel Marlon Joubert che sembra suggerire una sorta di what if sul futuro di Marchino Schisa di È stata la mano di Dio (Paolo Sorrentino, 2021), fino all'eterno spasimante Sandrino (Dario Alta), passando per il luciferino cardinale Tesorone (Peppe Lanzetta), tutti accarezzano il sogno di avere tutta per sé la divina bellezza della città ma privandola di qualunque reciprocità. Lo scandaloso discorso dell'attrice in decadenza Greta Cool (Luisa Ranieri), insieme al suo aspetto tristemente pomposo come nell'esemplificazione dell'umorismo pirandelliano, riassume il peccato originale dell'eterna tristezza che attanaglia Napoli e il popolo napoletano, troppo occupato a succhiarne la linfa vitale e incolpare l'altro per fare concretamente qualcosa che ne lenisce le ferite. Tutto diventa dunque carnevale, folklore finanche mito e mistero ma per mascherare una truffa, in primis verso sé stessi, come quella della liquefazione del sangue di San Gennaro.



Eppure se da millenni chiunque posi gli occhi su quella giovane incompiuta non può fare a meno di innamorarsene follemente un motivo deve esserci e Sorrentino ce lo ricorda, estetizzando agli estremi quella che solo per un occhio distratto può essere una semplice pubblicità di profumi costosi lunga 136 minuti.


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