lunedì 24 gennaio 2022

MATRIX RESURRECTIONS: AMOR OMNIA (ET WARNER BROS) VINCIT

Per chiunque appartenga alle generazioni nate tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta il 1999 è stato un crocevia cinematografico fondamentale, con un'abbondanza di titoli di qualità altissima che raramente si riscontra in una sola annata, all'interno della quale spicca però un cult assolutamente insostituibile: Matrix (The Matrix, Lana e Lilly Wachowski, 1999). Per affrontare in maniera quantomeno consona l'impatto sull'immaginario collettivo di quest'opera non basterebbe un intero saggio, eppure la coda del 2021 ha visto l'arrivo nelle sale di Matrix Resurrections (The Matrix Resurrections, Lana Wachowski) senza un briciolo del clamore scatenato dalla mania per la trilogia dipanatasi nei primi anni Duemila. Un quarto capitolo che, difatti, non si sta rivelando un grande successo al botteghino, complici anche le bizzarre scelte distributive made in Warner Bros in tempi di pandemia, mentre critica e fan storici si trovano divisi, con una leggera preponderanza dei riscontri favorevoli. Parliamo dunque dell'ennesima, discutibile, operazione nostalgica a cui stiamo diventando sempre più assuefatti? Anche di questo ci parla il film stesso.

Ambientato in un inizialmente imprecisato periodo successivo al finale di Matrix Revolutions (Lana e Lilly Wachowski, 2003), il lungometraggio vede Neo (Keanu Reeves) alle prese con una nuova versione della Matrice, in cui torna a vivere nei panni di Thomas Anderson, stavolta come game designer di fama mondiale, grazie proprio a una trilogia videoludica intitolata Matrix. Pur avvertendo di vivere un'esistenza lontana dall'essere davvero reale è soltanto l'arrivo di un gruppo di hacker provenienti dal mondo esterno, tra cui il capitano Bugs (Jessica Henwick) e una versione digitale di Morpheus (Yahya Abdul-Mateen II), a ricordargli chi sia davvero e restituirgli uno scopo: ricongiungersi con l'amata Trinity (Carrie-Anne Moss).

Alla stregua di quanto accaduto nel 1999, rivelare ulteriori brandelli di trama di Matrix Resurrections equivarrebbe a rovinare una parte non indifferente dell'emozione scaturita dallo script di Lana Wachowski, la quale, seppur orfana della sorella per la prima volta sia al cinema che in tv, esplora ancora una volta le tematiche più care alla coppia, riflettendo questa volta anche sulla saga che le ha consacrate al pantheon della settima arte, non senza una dose di notevole irriverenza. La prima metà dell'opera gioca continuamente con le aspettative e i ricordi di coloro che conoscono a menadito i prequel, permettendosi persino una sequenza iniziale speculare a quella del primo capitolo. Un espediente nostalgico fine a se stesso? Tutto l'opposto. La cineasta statunitense recupera l'intero background del passato per sbeffeggiare proprio la tendenza contemporanea al saccheggio di storie ormai classiche per mascherare un horror vacui creativo e umano imperante, dove Hollywood sembra credere che il pubblico sia affamato soltanto di già visto e minime variazioni sul tema. In particolare non può proprio passare inosservata la tagliente ironia con cui viene attaccata, davvero senza alcuna mezza misura, la Warner Bros stessa, rea di aver "costretto" l'autrice a tornare a lavorare alla saga in primo luogo per impedire alla casa di produzione di manipolare l'universo da lei creato, affidandolo a sceneggiatori e registi del tutto estranei a esso. Un vero e proprio atto di ribellione di un creativo verso il business dell'industria dell'intrattenimento fin troppo vicino ai temi di lotta contro il sistema insiti in ogni episodio del franchise e, di conseguenza, capace di fornire un'occasione estremamente ghiotta per fare del signor Anderson il perfetto avatar di Wachowski stessa. 

Siamo dinanzi, allora, a un grosso dito medio verso i perfidi piani alti di Hollywood da parte di un'artista sentitasi depauperata del proprio lavoro e nient'altro? Ecco un altro no. Terminata la prima, più metariflessiva, metà la pellicola si sposta più in profondità all'interno della diegesi inaugurata a cavallo dei due millenni, mostrando quanto continuino a essere spaventosamente attuali i quesiti posti allora dalle due registe ed efficace il percorso cristologico di Neo, stavolta con un ventaglio di influenze narrativo-filosofiche in cui risulta evidente la maturazione personale di Lana in seguito al cambio di sesso e alla creazione di opere fieramente personali come Cloud Atlas (Lana e Lilly Wachowski, Tom Tykwer, 2012) e soprattutto Sense8 (Lana e Lilly Wachowski, J. Michael Straczynski, 2015-2018). Proprio come quest'ultima, Matrix Resurrections mette del tutto o quasi in secondo piano l'epica tradizionale e la spettacolarità legata alle sequenze action (indubbiamente molto più deboli stilisticamente rispetto al passato) in favore dell'esplorazione di temi come l'uguaglianza al di là di qualsivoglia barriera esistenziale e la centralità dell'amore ben oltre ogni forma di violenza. Ecco dunque che la love story tra Neo e Trinity diventa il vero perno su cui si regge l'intera impalcatura del racconto, ricordando anche ai più maliziosi quanto fondamentale fosse l'apporto della più celebre hacker cinematografica in ogni svolta messianica del compagno, facendo sì che il finale risulti totalmente rispettoso non solo della visione anti-binaria dell'autrice, bensì anche della stessa mitologia creata con i prequel.

L'amore sembra essere così l'unica forza in grado di unire uomini e macchine, di abbattere una nuova versione della Matrice ancor più infida della precedente e persino la bieca avidità di alcune case di produzione. Parliamo di un film potente quanto il primo Matrix? Assolutamente no e forse neanche quanto Reloaded (The Matrix Reloaded, Lana e Lilly Wachowski, 2003) ma di un rarissimo esempio di blockbuster dotato di intelligenza, personalità e, soprattutto, amore. E tanto basta, in un biennio di tale aridità sentimentale e solitaria ignavia emozionale, a fare di Matrix Resurrections una delle opere più importanti del 2021.

martedì 4 gennaio 2022

È STATA LA MANO DI DIO: CULMINE E ORIGINE DEL REALISMO MAGICO SORRENTINIANO

Dopo aver raccontato con Le conseguenze dell'amore (Paolo Sorrentino, 2004) l'opera che lo ha confermato tra i migliori talenti del cinema italiano del terzo millennio, non posso esimermi dal dedicare una manciata di righe all'ultima fatica del cineasta partenopeo. È stata la mano di Dio, prodotto da Netflix ma con una discreta distribuzione anche in sala sul finale del 2021, segna il ritorno cinematografico di Sorrentino alla propria città natale, così come un nuovo inizio nel suo rapporto con critica e pubblico, sottolineato da numerose e prestigiose candidature internazionali e da un notevole passaparola tra gli spettatori.

Ambientato nella Napoli degli anni Ottanta, in preda al fervore per l'arrivo di Maradona nella squadra di calcio della città, il film racconta la forzata maturazione di Fabietto Schisa (Filippo Scotti), la cui adolescenza spensierata all'interno di una colorita famiglia borghese, viene sconvolta dall'improvvisa morte, causata da una fuga di gas, degli amati genitori (Toni Servillo e Teresa Saponangelo). Incapace di trovare un senso a quanto accaduto, il ragazzo capisce di potersi aggrappare solamente al suo sogno: diventare regista.

Come affermato a più riprese nel corso della sua promozione, È stata la mano di Dio rappresenta quanto di più autobiografico Sorrentino abbia mai scritto o diretto. Sebbene molto del suo carattere, delle proprie ossessioni e del suo passato fosse presente già nelle opere precedenti, così come molto di ciò che viene portato sullo schermo in questa sua più recente fatica sia del tutto immaginario, la pellicola presenta evidenti punti di contatto con la reale vicenda dell'ancora giovanissimo Paolo, la cui vocazione cinematografica nasce proprio a poca distanza dall'incidente che lo trasforma in orfano. Destino fatale a cui sfugge, proprio come il suo alter ego filmico, grazie all'intervento divino dell'idolo Maradona, a quei biglietti per la partita del Napoli che lo allontanano dal padre e la madre nel lasso temporale più importante.

La familiarità in cui si districa la cinepresa nel corso del lungometraggio no significa però che l'autore de Il divo (2008) perda di vista l'unicità del proprio sguardo e del suo modo di raccontare il mondo. Parafrasando quanto affermato in una delle sequenze chiave dell'opera dal regista Antonio Capuano (Ciro Capano), il director non si disunisce in nome dell'aderenza alla realtà, bensì sfuma il proprio magniloquente senso della composizione e il piacere per la battuta sagace con il vivido ricordo dell'indimenticabile Napoli del primo Scudetto, della spensieratezza precedente la caduta della Prima Repubblica ma anche del contrabbando di sigarette e degli status symbol kitsch assurti a palliativi per una miseria che non ha mai abbandonato l'ex capitale del regno borbonico. La filmografia sorrentiniana vive fin dagli esordi di un crescente realismo magico, fieramente ispirato alla negazione del Neorealismo operata da Fellini (del quale viene, non a caso, menzionata proprio l'affermazione secondo cui la realtà sia scadente) e all'idea di poter individuare sempre elementi di meraviglioso anche all'interno della più meschina delle milieu. In fondo la pellicola vive in primo luogo come riproposizione di ricordi dell'adolescenza del regista e non esiste episodio del passato che la memoria non mitizzi attraverso alterazioni della fattualità, rendendo in tal senso quanto mai opportuno per la narrazione lo stile sempre in bilico tra mondanità e fantasia di Sorrentino.

La grande novità rispetto alla precedente produzione del cineasta napoletano risiede, dunque, nel raccontare non più un uomo nel pieno della maturità e dei rimpianti per un'innocenza perduta molti anni addietro, bensì nel mostrare finalmente il momento esatto di quella perdita e, nel fare ciò, una reazione che, a giudicare dal finale e dall'autobiografismo fin qui descritto, porterà il protagonista a non disunirsi, come invece era successo al giovane Gep prima di inabissarsi nella squallida fauna romana ne La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013). Fabietto, seppur ancora molto insicuro e distrutto dal "tradimento" causato dall'essere stato abbandonato dalle persone che più amava, capisce che il suo grande e forse stupido sogno può aiutarlo a convivere con il dolore, rifiutando l'escapismo del fratello maggiore e l'oblio pronosticatogli dalla baronessa, facendolo diventare finalmente Fabio, un uomo fatto e finito, capace di avere qualcosa di personale da raccontare, con l'aiuto delle tantissime storie che Napoli offre ogni giorno.

Sarebbe impossibile negare alla città, infatti, il ruolo di co-protagonista. Il film inizia con un lungo piano sequenza che parte dalle sponde del mare che la bagnano per arrivare poi nel suo cuore pulsante, fatto, non a caso, da quel misto di sacro e profano, miseria e nobiltà che rendono unico il capoluogo campano. Le strade, gli interni delle case, i costanti riferimenti al mare, non dissimili da quelli dell'unica altra pellicola della filmografia sorrentiniana ambientata nella sua amata terra, L'uomo in più (2001), diventano non solamente una manifestazione dell'interiorità del giovane Schisa (alla stregua della Roma de La grande bellezza), ma liriche disserzioni di una città che ogni suo abitante porta con sè ovunque vada. Solo apprezzando la centralità che questa possiede per il regista assume un senso estremamente pregnante ed emozionante la scelta di Napule è quale unica canzone all'interno dell'intera pellicola.

Fabio/Paolo ha imparato a non disunirsi non soltanto rispetto a se stesso, ai valori insegnatigli dagli amati genitori, al proprio sogno e al "disprezzo" per una realtà scadente, ma anche nei confronti di un luogo dell'anima che soltanto chi non ha mai visitato neanche per un giorno può non amare.