Dopo aver navigato per anni tra i bizzarri territori dei b-movie e delle produzioni di genere indipendenti, James Gunn ha incontrato il meritato riconoscimento di massa solamente attraverso Guardiani della Galassia (Guardians of the Galaxy, 2014), una delle pellicole più irriverenti e singolari all'interno dello standardizzato franchise Marvel. Ciononostante è evidente come in quest'opera e relativo seguito la fantasia e l'ironia politicamente scorretta del regista siano frenati dalle esigenze commerciali di questi blockbuster. Una condizione che non si ripresenta nella sua prima collaborazione con la casa rivale per eccellenza, DC Comics, per la cui divisione cinematografica l'autore di Slither (2006) realizza The Suicide Squad (2021). Al netto di un budget da quasi duecento milioni di dollari e degli ormai ben noti travagli produttivi in seno al DC Extended Universe, il film viene affidato completamente alle mani di Gunn, senza alcun vincolo creativo. Una scelta premiata quasi all'unanimità dalla critica ma non dal botteghino, certamente influenzato sia dalla preferenza popolare verso gli schemi narrativi del MCU che dalla contemporanea distribuzione dell'opera anche su HBO Max, piattaforma di streaming di proprietà Warner.
Il lungometraggio, ambientato in un indefinito periodo successivo all'impresa narrata nel primo Suicide Squad (David Ayer, 2016), vede la gelida Amanda Waller (Viola Davis) assemblare una nuova Task Force X con l'obiettivo di fermare delle presunte armi di origini aliene sviluppate sull'isola di Corto Maltese, alle prese con un colpo di stato avverso dagli Stati Uniti. A guidare le operazioni è il killer su commissione Bloodsport (Idris Elba), insieme ad alcuni membri già visti nel prequel, tra cui Harley Quinn (Margot Robbie) e Rick Flag (Joel Kinnaman), e nuove leve come Peacemaker (John Cena). Dopo uno sbarco in cui perde la vita metà del team, i superstiti si ritrovano invischiati in una serie di terribili intrighi di potere e crimini di guerra, fino a scoprire che la loro missione reale è tutt'altro che nobile come preventivato inizialmente.
L'ambiguità morale non può certo essere considerata una novità per un avventura della squadra suicida e già nel piuttosto edulcorato predecessore aveva una sua centralità, ma The Suicide Squad getta via ogni remora legata all'etica tradizionale americana e rivela il lato più selvaggiamente ironico del proprio autore. Il team assemblato da Gunn, seppur decimato dopo pochi minuti, mostra una galleria di outsider completamente fuori da ogni logica superomistica, tra squali antropomorfi e domatrici di topi, accomunati da due caratteri antitetici soltanto in apparenza: violenza e solitudine. Attraverso una rara capacità di modulare ironia volgare e scorretta con momenti di notevole introspezione, il regista di Saint Louis dona il necessario spazio a ogni personaggio affinché possa entrare in risonanza empatica con il pubblico, piazzando dietro ogni battuta intrisa di black humour una nota agrodolce di incapacità nel rapportarsi con il prossimo. King Shark (doppiato da Sylvester Stallone) spesso appare come macchietta comica a causa del contrasto tra la sua intelligenza da neonato e l'istinto da cannibale, eppure condivide con la giovane Ratcatcher (Daniela Melchior) alcuni momenti di insperata dolcezza. Con l'esclusione dello spietato Peacemaker, chiaro contraltare violento e fascista di Captain America, ogni singolo membro della Task Force porta con sé le cicatrici di un abbandono, di una persona cara morta troppo presto o di una difficile situazione familiare, rendendoli round character raramente riscontrabili nei cast corali di film ad alto budget.
Tutto ciò non significa che la pellicola viva sulla medesima lunghezza d'onda a basse di gravitas e conflitti interiori delle trilogie DC firmate da Christopher Nolan o Zack Snyder, anzi l'ironia greve tipica di Gun stempera costantemente il clima di violenza che permea la stessa, con dei picchi di nonsense che strizzano l'occhio alla gavetta del regista in casa Troma. Una vera rarità all'interni del panorama dei blockbuster hollywoodiani, specialmente se si considera che, rispetto alle battute dissacranti tipiche di Deadpool (Tim Miller, 2016), l'autore di Super (2010) riesce a innestare anche una disincantata critica nei confronti della politica estera americana, ancora oggi fin troppo abituata a mantenere l'egemonia planetaria con metodi eticamente molto discutibili, nascosti dietro l'odiosa menzogna dell'esportazione della democrazia. Ovviamente anche da questo punto di vista il director non si prende mai troppo sul serio, consapevole di aver trasformato i tipici soldati tragicamente sacrificabili di una certa tipologia di war movie in antieroi costantemente oltre il limite dell'assurdo, restando così fedele alla propria visione di cinema. Una rarità per un genere in cui a latitare è quasi sempre la personalità.
Nessun commento:
Posta un commento