La stagione cinematografica del 2019 è stata dominata, quantomeno per ciò che concerne festival e premi della critica, a quasi ogni latitudine da Parasite (Bong Joon-ho, 2019), arrivato persino a strappare le più importanti statuette ai titoli americani nel corso della notte degli Oscar. Prima del trionfo in terra statunitense il film sudcoreano aveva ricevuto anche la Palma d'oro, dando il via proprio a quella ascesa mondiale appena menzionata. Alla suddetta rassegna francese però anche un'altra pellicole ottiene un consenso pressoché unanime e ben due premi, quello per la miglior sceneggiatura e la Queer Palm: mi riferisco a Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu, 2019), scritto e diretto da Céline Sciamma. Un plauso universale che permette all'opera di finire nella lista delle migliori dell'anno redatte da tantissime testate, certificando un successo certamente meno popolare del trionfatore agli Academy ma altrettanto olistico.
La pellicola, ambientata nella Francia del XVIII secolo, all'indomani della rivoluzione, mette in scena l'incontro tra Marianne (Noémie Merlant), pittrice chiamata a ritrarre di nascosto la coetanea Héloise (Adèle Haenel) per conto della madre (Valeria Golino), contessa che, per esigenze economiche e il precedente suicidio dell'altra figlia, ha costretto la ragazza a lasciare il convento in vista di un matrimonio di convenienza con un uomo di Milano. Dopo un primo periodo di convivenza piuttosto teso, culminato nella distruzione del primo ritratto, le due donne, con il sostegno dell'inserviente Sophie (Luàna Bajrami), si avvicinano sempre più, fino a innamorarsi perdutamente, pur sapendo che al ritorno della contessa da un viaggio di alcuni giorni questa relazione è destinata a concludersi.
L'amore proibito è un tema senza alcun dubbio ricorrente nel cinema contemporaneo, sempre più, per fortuna, disinibito nel raccontare rapporti che travalichino gli stereotipi comuni e un repertorio etico che necessita di abbandonare la tendenza all'esclusione di qualunque forma di minoranza. Quanto un argomento diventa così diffuso è inevitabile che a sancire la riuscita della trattazione risulta la qualità dell'opera e il coraggio di usare strumenti personali per affrontarlo, proprio come accade con Ritratto della giovane in fiamme. L'incipit, che crea una cornice posteriore cronologicamente alla love story cuore pulsante dell'opera, mette subito in chiaro le coordinate attraverso cui Sciamma intende scandagliare una relazione esterna alla morale comune: dialettica continua con un ben preciso momento storico per l'Occidente e filtro artistico.
La scelta della seconda metà del Settecento, oltretutto in Francia, inevitabilmente richiama alla mente l'incombente rivoluzione, così come le già ben radicate, almeno all'interno dell'élite culturale, idee illuministe, portatrici di laicismo e rinnovato spirito tollerante nei confronti dei costumi. Un parallelo piuttosto evidente con le vicende di stretta attualità, con i paesi europei ancora divisi tra una porzione di popolazione quanto mai aperta al completo riconoscimento dei diritti di comunità discriminate da secoli e una lieve maggioranza silenziosa ancora troppo ancorata ai modelli culturali imposti dalla tradizione cattolica. All'interno di tale opposizione si muovono destini, aspirazioni, affetti e umori di un gruppo che di minoritario in realtà non ha proprio nulla, le donne. Trattate come pedine per strategie economiche, costrette a spostarsi da una reclusione all'altra e persino a sottoporsi volontariamente a decisioni dolorose, in senso sia fisico che psicologico, solamente dai capricci maschili. Questo è l'orizzonte a cui lo spettatore viene messo dinanzi nel corso della pellicola, spesso anche con scelte estetiche dotate di una certa brutalità, come ben esemplifica la sequenza dell'aborto di Sophie e quella presenza di un bambino al suo fianco che strania con un contrasto tanto sincero quanto crudele. A rompere gli schemi di questo universo patriarcale è la partenza della contessa, che nel film assume dunque un ruolo estremamente ambivalente, assimilabile a quello di Bernarda Alba all'interno della celebre drammaturgia composta da Federico Garcia Lorca, dove è proprio una autoritaria figura femminile a fare le veci dell'autorità maschile. Il personaggio interpretato da Valeria Golino lascia, d'altro canto, trasparire anche attraverso alcune sfumature di dialoghi ed espressioni facciali tutto il dolore per una condizione che gli è stata imposta in maniera del tutto simile a quanto accaduto alla figlia. Un dettaglio che le dona un velo malinconico equiparabile a quello sui volti delle due protagoniste negli anni successivi al loro incontro. In assenza della padrona di casa la triste residenza, orfana anche dell'ultimo baluardo patriarcale, si trasforma per circa una settimana in una sorta di repubblica utopica completamente femminile, priva delle convenzioni sociali rigidamente imposte del protocollo del tempo e del potere degli uomini. Marianne ed Héloise, il cui nome non a caso richiama l'eroina del romanzo filosofico di Rousseau, possono finalmente vivere il proprio amore in libertà, scoprire la bellezza dei loro corpi e delle emozioni che scaturiscono dal contatto con la persona amata e persino una banale partita a carte con la terza donna della casa assume i toni di un'occasione di liberazione e felicità mai esperita. La storia, purtroppo, ci dice da secoli che ogni utopia è destinata a vita breve e quindi anche in questo il sogno d'amore delle due giovani donne somiglia a una di quelle utopie socialiste ed egalitarie relegate all'oblio dai grandi eventi e dall'ingordigia dei centri di potere.
Già nelle righe antecedenti ho accennato ad alcuni riferimenti letterari presenti nel film ma è ogni sua singola inquadratura a rappresentare un inno alla potenza dell'arte come espressione dell'io più autentico dell'individuo, a partire persino dai titoli di testa, realizzati in forma di pennellate su uno sfondo bianco. Le lunghissime inquadrature, spesso prive di movimenti di macchina, assottigliano la discrepanza con il mondo della pittura, già centrale per motivi diegetici, e l'uso di un'illuminazione in gran parte affidata ai raggi del sole o a specifiche fonti immerse nel buio intensificano l'impianto pittorico della messinscena. Una sequenza in particolare, quella del piccolo falò con altre donne del luogo che ispira anche il quadro che dà il titolo al film, con i suoi contrasti cromatici tra il rosso e il giallo del fuoco e la completa oscurità circostante citano con grande dovizia di particolari alcune opere di Francisco Goya, un maestro non solo dei giochi di luce ma anche del loro uso espressivo per dare voce a frange della società solitamente escluse dall'arte accademica. Una scelta estetica che permea l'intero corso del lungometraggio e che non si limita semplicemente ad appagare la vista e l'erudizione del pubblico, bensì esalta un'idea di arte come più pura e inarrestabile forma di ribellione nei confronti delle ingiustizie e delle convenzioni sociali: le rivoluzioni, come quella giacobina, esplodono e nel giro di mesi o anni muoiono, le sommosse vengono spesso soffocate nel sangue ma un atto di sfida al potere costituito degli uomini come un ritratto di famiglia con un dettaglio legato all'amore per un'altra donna non potrà mai perdere il proprio valore libertario. Uno di quei tanti piccolo dettagli che rendono Ritratto della giovane in fiamme un trionfo della potenza di ogni forma d'arte nell'affermare noi stessi, a dispetto di qualsivoglia forma di controllo che tarpa le ali dei nostri sentimenti.
Nessun commento:
Posta un commento