Chiunque abbia una minima dimestichezza con il mondo degli anime, in special misura se nato tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, ha visto o conosce Neon Genesis Evangelion (Hideaki Anno, 1995-1996), grazie anche alle trasmissioni televisive sulla defunta MTV. L'ambiziosa serie, solamente in apparenza legata al sottogenere mecha, anche a causa di un finale solamente abbozzato, ha dato vita a un franchise multimediale, culminato nel film The End of Evangelion (Hideaki Anno, Kazuya Tsurumaki, 1997), opera grandiosa che chiude il cerchio in maniera più esplicita rispetto agli ultimi due episodi dell'anime. Nonostante questo epilogo, peraltro trionfale da ogni punto di vista, lo stesso creatore originale dell'intero intreccio ha deciso di dare vita a una sorta di reboot cinematografico dello stesso; una tetralogia racchiusa sotto il nome di Rebuild of Evangelion e iniziata nel 2007. A distanza di ben quattordici anni gli appassionati di tutto il mondo possono godere finalmente dell'ultimo capitolo di questa ambiziosa riproposizione della saga, intitolato Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time (Hideaki Anno, Kazuya Tsurumaki, Katsuichi Nakayama, 2021). Distribuita in sala solamente in Giappone, la pellicola risulta essere comunque il miglior incasso di sempre per l'intero franchise, con recensioni lusinghiere in tutto il mondo.
Raccontare troppo della trama del film sarebbe un delitto, specie per i numerosi colpi di scena sparsi lungo i suoi 155 minuti di durata, dunque mi limito a riferire come questa riprenda esattamente il filo del discorso lasciato in sospeso con il precedente Evangelion: 3.0 You Can (Not) Redo (Hideaki Anno, Mahiro Maeda, Kazuya Tsurumaki, Masayuki, 2012), mostrando le conseguenze su Shinji e gli altri protagonisti del quasi compiuto Fourth Impact e della morte di Kaworu. Per il giovane pilota di Eva lo shock è difficile da superare ma, attraverso un insperato processo di maturazione e accettazione del dolore, unisce ancora una volta le forze con Asuka, Mari, Misato e gli altri della Wunder per la battaglia finale contro la Nerv, ormai relegata solamente all'imperscrutabile progetto di Kozo Fuyutsuki e Gendo Ikari.
Evitare spoiler e approfondire la tantissima carne a fuoco compressa all'interno di Evangelion 3.0+1.0 è arduo quasi quanto districarsi attraverso i continui rimandi religiosi ed esoterici che pervadono fin dal primo episodio dell'anime la saga in questione ma cercherò di mantenere questa impostazione. Ovviamente per godere appieno della visione è necessario aver visionato almeno la tetralogia cinematografica ma altrettanto importante risulta la visione di The End of Evangelion, poiché molti dei temi centrali di allora tornano in questo nuovo epilogo, come in una sorta di aggiornamento di quanto narrato nel 1997. Certamente i cambiamenti narrativi occorsi già nelle precedenti pellicole rendono molto diverso lo svolgimento dell'intreccio ma guardare a pochi giorni di distanza le due pellicole rende evidente la loro parentela. Un rapporto scandito dall'avvicendarsi degli anni, delle tecnologie, dei mezzi espressivi del medium ma soprattutto del rinnovato stato d'animo del suo autore, a conferma di quanto questo franchise rappresenti, in realtà, un vero e proprio processo di esteriorizzazione del percorso interiore di quest'ultimo. Attraverso i canoni dell'arte che meglio conosce e apprezza, l'animazione a base di robottoni e battaglie per il destino dell'umanità, Anno ha raccontato per anni la propria, personalissima, storia di uomo alle prese con la più machiavellica delle malattie, la depressione, e la tendenza all'isolamento che colpisce chi ne è affetto. Shinji Ikari, ancora una volta alle prese con la sua cronica incapacità di rapportarsi con il mondo esterno, con le altre persone e con la sofferenza che, inevitabilmente, vivere davvero può comportare, incarna ancora una volta le fatiche del suo creatore, stavolta con un cortocircuito metanarrativo ancor più esasperato rispetto a quello già molto potente del lungometraggio summenzionato. In questo caso, infatti, i creatori in questione sono due: oltre al regista è impossibile non fare riferimento anche a Gendo, mai come in questo caso sviscerato in ogni recesso del suo io tormentato e sconvolto dal trauma della perdita dell'amata consorte, l'unico essere umano che avesse scalfito la sua impenetrabile solitudine. Attraverso una lunga sequenza ambientata in una dimensione onirica, che trascende persino la quarta parete, padre e figlio riescono finalmente a dialogare a cuore aperto, rivelando la comune propensione all'isolamento e, di conseguenza, a un'esistenza così egoisticamente autoreferenziale da non poterla neanche definire vita a tutti gli effetti. Con una presa di coscienza ancor più esplicita rispetto a quella vista in passato, è proprio l'adolescente a rompere il guscio in cui entrambi vivono, scegliendo la strada più tortuosa dell'apertura verso l'esterno, il perdono verso gli errori propri e del genitore, accettando quella verità finora negata, ossia che persino una vita costellata di momenti dolorosi vale la pena di essere vissuta, così da godere anche delle gioie che si alternano a questi.
Una svolta tanto ottimistica rispetto al costante nichilismo che avvolgeva la saga, quanto ben orchestrata nel corso della tetralogia e del suo ultimo capitolo, rendendola razionalmente coerente con l'iter narratologico ma, soprattutto, emotivamente appagante come raramente accade dinanzi a uno schermo, probabilmente anche per merito dell'aura di sincerità resa possibile solamente dall'autobiografismo impressogli dall'autore.
A cotanta potenza narrativa, capace di resistere anche agli acciacchi dovuti allo strabordare di nuove informazioni che infarcisce alcuni segmenti della pellicola, si abbina una forma raffinatissima, capace di mescolare ogni possibile tecnica figurativa per esaltare l'azione sfrenata dei combattimenti tra robot, l'idillio momentaneo durante la permanenza a Villaggio-3, l'incontro-scontro emotivo e psicologico tra gli Ikari e il preziosissimo finale, in cui animazione analogica, cgi, riprese live action e bozzetti disegnati a mano si mescolano senza soluzione di continuità. Un pastiche postmoderno che riesce a non eccedere mai nel semplice, seppur apprezzabile, esibizionismo estetico, a dimostrazione dell'avvenuta maturazione di Anno non solo in quanto uomo, bensì come regista e narratore per immagini.
Shinji/Hideaki è diventato un adulto autoconsapevole a tutti gli effetti, in grado di apprezzare le soddisfazioni che il mondo può regalargli e di resistere agli altrettanti colpi che gli infligge, proprio come quel pubblico che nell'arco di più di venti anni ha capito, attraverso questo straordinario racconto transmediale, che chiudersi in se stessi è il peggior torto che un essere umano possa fare a se stesso. Aprirsi al mondo è ciò che può salvarci davvero, persino se questo significa mettere da parte un universo che abbiamo amato tanto come quello di Evangelion.
Nessun commento:
Posta un commento