Ancora oggi, a 2021 ben inoltrato, una fetta tutt'altro che trascurabile dello spettatore medio considera l'animazione un "genere" riservato ai bambini, completamente trascurabile e privo di significanti una volta divenuti adulti. Gli anime, ossia le produzioni di questo tipo di origine giapponese, hanno dimostrato nel corso di almeno tre decenni la falsità di tale convinzione, spingendosi spesso a trattare argomenti taboo in maniera spesso più schietta e coraggiosa rispetto a tante controparti live action. A questo folto gruppo di pellicole appartiene senza alcun dubbio La forma della voce - A Silent Voice (Koe no katachi, Naoko Yamada, 2016), trasposizione dell'omonimo manga acclamato sia in patria che all'estero, arrivando a incassare anche cifre molto elevate al botteghino. Scopriamo adesso i motivi di tale successo, in primo luogo proprio tra quel pubblico maturo che secondo molti dovrebbe smettere di guardare i "cartoni animati".
Il film racconta la problematica adolescenza di Shoya, studente liceale che, in preda a una forte depressione, medita il suicidio. Attraverso un lungo flashback viene mostrato il periodo scatenante tale disturbo: durante le scuole elementari il ragazzo aveva iniziato a prendere di mira una propria compagna sorda insieme ad alcuni amici, finendo però per pagarne in prima persona le conseguenze una volta che gli adulti avevano scoperto gli atti di continuo bullismo. Da quel momento il protagonista si ritrova sempre isolato dal mondo e corroso dai sensi di colpa, fino a quando non incontra nuovamente Shoko, l'ex compagna perseguitata. Shoya tenta di instaurare un rapporto di amicizia con la giovane, arrivando a diventare sempre più vicini e a crearsi anche una piccola cerchia amicale ma il passato continuerà a bussare, tragicamente, alla sua porta.
Arrivato sul grande schermo in Italia sull'onda del successo ottenuto dalle opere di Makoto Shinkai, La forma della voce ne condivide l'intimismo e l'interesse nei confronti dell'adolescenza, distanziandosene però in molti altri aspetti. La pellicola, del tutto priva di elementi fantastici come quelli presenti in Your Name. (Kimi no na wa., Makoto Shinkai, 2016), pur mettendo in scena una love story in divenire si concentra soprattutto sulla rappresentazione per immagini e suoni della depressione. Un male della mente e dell'animo che colpisce i ragazzi molto più frequentemente di quanto i media generalisti vorrebbero far credere e che, proprio a causa della propria natura psicologica, risulta difficilmente filmabile rispetto al decadimento fisico visto in tanto cinema presente e passato. Per poter dare forma al malessere di Shoya la regista nipponica fonde, con grande perizia e sagacia, la libertà immaginifica offerta dai disegni animati alla più qualitativamente elevata tradizione cinematografica legata al tema: la filmografia di Michelangelo Antonioni. Per rappresentare visualmente il disagio del protagonista nei confronti dei rapporti umani e la sua solitudine i volti delle persone con cui non riesce a entrare in contatto vengono coperti da vistose croci, che decadono letteralmente soltanto quando il ragazzo riesce finalmente a interagire con il prossimo. Dal maestro italiano, invece, Yamada recupera l'attenzione per il linguaggio del corpo e l'uso altamente simbolico dello spazio urbano visto, ad esempio, in Deserto rosso (Michelangelo Antonioni, 1964). Proprio come nel lungometraggio con protagonista Monica Vitti, l'anime in analisi sfrutta soprattutto i tic, la gestualità e i movimenti quasi impercettibili del corpo di Shoya per metterne in luce l'evidente difficoltà nell'approccio con gli altri, causate peraltro da un evento traumatico passato trasformatosi in onta sociale esattamente come il tentato suicidio di Giuliana. Anche gli edifici, le strade o le stanze inquadrate con insistenza rievocano l'espressionismo con cui il cineasta ferrarese affidava alla disumanizzata urbanizzazione dell'Italia del boom economico il compito di sintetizzare l'impossibilità dell'uomo di creare autentici rapporti interpersonali all'interno della società postcapitalista.
Tutti gli adolescenti al centro della pellicola, non solamente l'ex bullo e Shoko, vivono un disagio esistenziale dettato in primis da una incapacità di adeguarsi a una società rigidamente impostata su ruoli e classi ben definite, priva di alcuna solidarietà verso i più deboli e possibilità di redenzione per chiunque sbagli, persino da bambino. Yuzuro, sorella minore della ragazza sorda, per esempio mostra notevoli difficoltà a integrarsi nel sistema scolastico, probabilmente anche a causa di un'identità di genere molto labile, dato che per circa metà film si spaccia per un maschio e rifiuta categoricamente l'abbigliamento tradizionalmente associato alla femminilità.
La forma della voce, in conclusione, mette in scena con notevole sensibilità estetica e coraggio formale un tema ancora oggi scabroso come la depressione tra gli adolescenti e i numerosi fattori culturali e sociali che ne contribuiscono alla diffusione, dando vita a un ritratto della sempiterna dialettica tra generazioni mai banale, arricchito da riferimenti che vanno da Neon Genesis Evangelion (Hideaki Anno, 1995-1996) fino ai capolavori di Antonioni. Non male per un cartone animato.
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