"My name is Oliver Queen. For five years, I was stranded on an island with only one goal: survive. Now I will fulfill my father's dying wish - to use the list of names he left me and bring down those who are poisoning my city. To do this, I must become someone else. I must become something else.". Con queste parole, in seguito riutilizzate e riadattate a seconda della diversa stagione, si apre il pilot di Arrow, serial ideato da Greg Berlanti, Marc Guggenheim e Andrew Kreisberg nell'ormai lontano 2012 per CW. Dopo ben otto anni e altrettante stagioni nella serata del 5 maggio 2020 anche gli spettatori italiani assistono all'episodio conclusivo dell'intera opera, un momento quanto mai propizio per spendere qualche parola su di essa.
La serie adatta con una certa libertà le avventure del supereroe Freccia verde, nato sulle pagine degli albi DC Comics nel novembre del 1941 dalla mente del geniale editor Mort Weisinger e dalle mani di George Papp. In questa reinvenzione del personaggio Oliver Queen (Stephen Amell) viene presentato come il rampollo della famiglia più ricca di Starling City, tornato a casa dopo aver trascorso ben cinque anni su un'isola deserta a causa del naufragio dello yacht su cui viaggiava insieme al padre e all'amica Sarah Lance (Caity Lotz). Il ritorno in patria non corrisponde, però, a un salto al passato, verso la vita precedente: il protagonista possiede una lista di nomi, fornitagli dal defunto genitore, corrispondenti ad altrettanti uomini coinvolti in loschi traffici che minano la salvezza di Starling City. Sfruttando le capacità di lotta a mani nude e con arco e freccia imparate nel periodo trascorso su Lian Yu (letteralmente traducibile in purgatorio), Oliver decide di votare la propria vita alla lotta verso le ingiustizie, diventando un vigilante dal volto coperto, inizialmente noto come L'incappucciato e successivamente come Green Arrow.
Riassumere in poche righe il contenuto narrativo di ben otto stagioni, ognuna di esse a sua volta costituita da ventitré episodi (con la sola eccezione dell'ultima), sarebbe un'impresa improba e anche fuori luogo, sia verso i fan della prima ora che nei confronti dei neofiti, eppure ribadire le origini del lungo percorso televisivo vissuto dall'arciere di smeraldo assume un valore estremamente catartico nei giorni immediatamente successivi alla messa in onda di Fadeout, episodio conclusivo di Arrow. Proprio l'incipit di questo serial e in generale l'intera prima stagione rivelano chiaramente le ispirazioni principali per il trio di creator alla testa del franchise. In primis due opere centrali all'interno della mitopoiesi del Freccia verde cartaceo, la miniserie Green Arrow: The Longbow Hunters (Mike Grell, 1987) e Freccia Verde: Anno Uno (2007), di Andy Diggle (citato, non a caso, nel cognome di uno dei personaggi più importanti) e Mark Simpson. Da questi due importantissimi archi narrativi Berlanti e co. traggono in particolare la origin story che trasforma un giovane playboy in un giustiziere e l'indole aggressiva del personaggio, disposto inizialmente persino a uccidere pur di fermare il crimine. Pur mantenendo quelle caratteristiche ereditate da Robin Hood come cappuccio e frecce, il Green Arrow televisivo abdica gran parte del bagaglio proveniente da Golden e Silver Age fumettistiche in favore dell'approccio maggiormente dark e realistico impresso al personaggio da Mike Grell, come dimostra anche la presenza di quelle tematiche sociali piuttosto scottanti introdotte nell'universo DC proprio dalle storie legate all'arciere come droga e corruzione politica.
A questa visione del supereroe, peraltro uno dei pochi a non possedere superpoteri, non può che contribuire anche il successo clamoroso della trilogia di Christopher Nolan dedicata a Batman. Come confermato persino dallo stesso Stephen Amell, il riferimento costante per David Nutter, regista del pilot, e degli showrunner di Arrow è fin dal principio Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, Christopher Nolan, 2008), che condivide con la serie l'idea di inserire la figura del supereroe all'interno di un contesto geopolitico e culturale del tutto coincidente con quello della realtà contemporanea, insieme anche ad alcune tematiche più intimamente legate alla sfera personale del protagonista, come il confine tra giustizia e vendetta o l'abnegazione del singolo per il bene della collettività. Da Batman Begins (Christopher Nolan, 2005), invece, si potrebbe rintracciare l'origine della peculiare struttura narratologica basata su incastri temporali, utilizzati soprattutto per poter tracciare in maniera estremamente dettagliata lo sviluppo psicologico di Oliver Queen, sia come eroe che come essere umano. Certamente nell'alternanza di diversi piani temporali, prima con flashback e poi, nel corso delle stagioni con flashforward, trae ispirazione anche da una pietra miliare della serialità televisiva come Lost (J. J. Abrams, Damon Lindelof, Jeffrey Lieber, ABC, 2004-2010) ma la prevalenza di scene notturne, lo stile di combattimento votato alla furtività e all'utilizzo di tecnologici gadget e l'addestramento alle arti marziali orientali mostrano in maniera inequivocabile l'influenza nolaniana sulla produzione CW.
Nel corso delle sue otto stagioni il serial in analisi è stato capace di accogliere persino le influenze dei blockbuster marveliani, dando vita a un universo narrativo condiviso costituito da spin-off altrettanto amati dal pubblico, come The Flash (Greg Berlanti, Andrew Kreisberg, Geoff Johns, CW, 2014-), che, in maniera non dissimile a quanto accade con le pellicole dedicate agli Avengers, porta per una settimana in ogni stagione verso degli episodi crossover, cresciuti ogni anno in numero di supereroi coinvolti e scala della minaccia affrontata dai protagonisti. Il culmine di questo percorso di convergenza è costituito dall'adattamento , avvenuto nel corso del 2020, del celeberrimo arco narrativo fumettistico Crisi sulle Terre infinite (Crisis of Infinite Earths, George Perez, Dick Giordano, 1985-1986), in cui tutti gli eroi del cosiddetto "Arrowverse" combattono una forza aliena in grado di distruggere tutti gli universi che costituiscono il multiverso DC Comics. Proprio come avvenuto a metà anni Ottanta per le testate cartacee, anche questo crossover televisivo costituisce una sorta di reboot per le serie coinvolte, coincidente non a caso proprio con l'epilogo delle avventure dell'arciere di smeraldo, la cui dipartita diegetica diventa un'appassionata occasione per fornire un commiato metatestuale anche allo show che ha dato origine a un intero conglomerato audiovisivo e a una peculiare idea di supereroismo.
Non potendo, per ovvi motivi di spazio, analizzare ogni singolo episodio attraverso cui si dipana Arrow mi preme porre l'accento proprio sul suo finale, il già citato Fadeout. Girato dallo stuntman James Bamford, il season finale dell'intero serial può essere considerato come una vera e propria sineddoche dello stesso e non soltanto per gli evidenti richiami a tutte le stagioni precedenti e il ritorno in scena della maggior parte dei personaggi più importanti, compresi alcuni ex defunti (gli effetti del reboot si avvertono anche in questo senso) come Moira Queen (Susanna Thompson) e Quentin Lance (Paul Blackthorne). In questo commovente commiato verso un personaggio e una serie, Bamford mette in scena la profonda umanità che alberga dietro le maglie dell'azione e dei superpoteri, nella quale trova un posto centrale il tema della famiglia, soprattutto quella costituita da legami che travalicano il sangue, saldati dalla reciproca collaborazione per il bene comune e accettazione dell'imperfezione insita in ogni essere umano. A tale sostrato prettamente poetico e narratologico, il regista aggiunge una breve sottotrama avventurosa, che funziona principalmente come showcase delle istanze estetiche che distinguono Arrow dalla maggioranza dei prodotti televisivi action: la qualità di matrice cinematografica delle sequenze action, ricche di brutali scontri corpo a corpo, con un gran numero di contendenti, rese ancor più intense e spettacolari dal ricorso sistematico a piani sequenza estremamente complessi, grazie anche a movimenti della mdp di virtuosismo notevole, specie per i canoni di una produzione per il piccolo schermo.
Per poter rendere pienamente giustizia a questi otto anni di lotte per la salvezza di Star City ci vorrebbero molte più pagine, inutile negarlo; nonostante ciò ho voluto tributare un mio personale saluto a Oliver Queen, Laurel Lance (Katie Cassidy) e tutti i personaggi dal 2012 accompagnano le vite di milioni di fan, sparsi per il mondo. Pur con qualche inevitabile caduta (mi riferisco alla quarta stagione) Arrow lascia un ricordo nello spettatore assolutamente positivo e un'eredità che vive nella forza degli altri show dell'Arrowverse, dimostrando che l'arciere smeraldo televisivo non ha assolutamente tradito la figura del supereroe, parafrasando la celebre frase con cui ha sconfitto innumerevoli nemici dell'umanità ("You have failed this city").
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