Nel pieno degli anni Ottanta, dopo il primo tentativo di Umberto Eco con il suo Apocalittici e integrati (1964), una serie di coraggiosi esperimenti in sede DC firmati da personaggi come Alan Moore e Frank Miller aveva finalmente sdoganato la liceità e il valore come forma d'espressione del fumetto. A circa trent'anni di distanza, con una cultura pop letteralmente invasa da quei supereroi nati su carta, Todd Phillips decide di voler testare anche sul cinema supereroistico la carta dell'opera esterna alla serialità tipica del genere e dunque libera di poter esplorare senza alcun limite produttivo o di target commerciali la psicologia di un personaggio iconico della casa di Superman e soci. Con questa precisa intenzione di superare i vincoli del blockbuster e del tipico cinecomic in stile MCU nasce Joker (2019), non a caso ambientato proprio nel decennio segnato da Reagan e Indiana Jones, dalle nuove tensioni tra USA e URSS e la new wave. Il risultato è una storica vittoria del Leone d'oro a Venezia, prima volta in assoluto per un'opera tratta dai comics, e un successo immediato al box office, nonostante alcune polemiche sorte proprio negli Stati Uniti.
Proprio come in uno stand-alone fumettistico fuori continuity, la pellicola rilegge in chiave di atipica origin story la nascita del Joker, il più celebre nemico di Batman. In questa versione il personaggio ha nome e cognome: Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), clown per eventi che vive ancora con la madre e che si trova a dover convivere con alcuni disturbi psicologici, tra cui una sindrome che lo porta ad avere crisi di riso incontrollate e improvvise. Vessato continuamente dal prossimo in una città, Gotham, in preda a una crisi economica nerissima, l'uomo, in una notte in metropolitana, reagisce per la prima volta ai soprusi subiti sparando a tre yuppies che lo avevano aggredito. Sarà l'inizio di una escalation di violenza che cambierà non soltanto la sua vita.
Molti all'annuncio di uno spin-off completamente slegato dall'universo condiviso DC, dalle ambizioni prettamente autoriali e diretto da un regista noto quasi unicamente per commedie molto popolari come Todd Phillips avevano già annunciato il disastro. Spero che molti di questi si siano, con piacere, ricreduti dopo aver visto in sala Joker.
Fin dall'apparizione di una versione vintage del logo della Warner Bros e dalla prima, muta sequenza lo spettatore avverte la sensazione di trovarsi dinanzi a un film non solo diverso dal canone oggi affermatosi dei cinecomic ma, soprattutto, fieramente debitore e coraggiosamente in grado di costruire un ponte tra la contemporaneità e un modello estetico e poetico chiaramente ancorato nella New Hollywood. I riferimenti allo Scorsese di Taxi Driver (1976) e Re per una notte (The King of Comedy, 1983) risultano ben evidenti e, in fondo, non erano mai stati nascosti già nelle interviste rilasciate prima dell'approdo della pellicola a Venezia dallo stesso regista ma sono molteplici i richiami ad altri capisaldi della Hollywood Reinassance, come dimostra la ricostruzione di una Gotham sporca, schiacciata dalla spazzatura e da una violenza dilagante che riportano alla mente la guerriglia urbana de I guerrieri della notte (The Warriors, Walter Hill, 1979) o in generale il clima da contestazione che aveva ispirato persino Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni (1970). Impossibile non notare anche l'influenza delle sommosse antivigilanti che caratterizzano il capolavoro di Alan Moore Watchmen (1986-1987), simbolo non solo di quella autorialità riconosciuta della nona arte esplosa negli anni Ottanta ma, cosa ancor più importante, in maniera più vasta delle ultime propaggini di quel movimento culturale che aveva rivoluzionato il cinema statunitense attraverso la commistione di modelli linguistici europei alle istanze di ribellione dei giovani nei confronti della morale patriarcale dei genitori e di una politica di potenza americana che aveva dato vita all'incubo Vietnam. Arthur non è molto diverso dagli antieroi visti sul grande schermo in quei decenni (da Travis Bickle a Kit Carruthers passando per Sonny Wojtowicz) in quanto, proprio come loro, si pone agli antipodi del tipico eroe del cinema americano classico e, anzi, finisce per sbattere in faccia al pubblico due verità non facilmente digeribili. La prima riguarda, inevitabilmente, il fragile equilibrio sul quale poggia il sistema economico e sociale occidentale, specie in un'epoca storicamente contraddistinta da politiche economiche all'insegna di un liberismo senza freni e conseguentemente fautore di un ingigantimento delle differenze tra le fasce della popolazione più ricche e quelle più umili. Gotham, immaginata con le fattezze di New York, incarna i limiti estremi di questa disuguaglianza sociale inasprita dalla crisi economica finendo per assumere un in sé quelle tensioni e contraddizioni viste nella Detroit reale, distrutta dal fallimento delle storiche aziende automobilistiche.
Come si inserisce Fleck all'interno di questo contesto così complesso? Ebbene l'emaciato comico fallito, interpretato in maniera magistrale dal sempre ottimo Joaquin Phoenix, diventa il simbolo, la bandiera della risposta violenta degli indigenti all'opulenza e all'indifferenza mostrata da Thomas Wayne, a sua volta simbolo della fazione più potente della città. Il protagonista reifica anche la seconda delle due verità a cui alludevo in precedenza, ossia che in tempi in cui le certezze di una società umana così ancorata al lume della ragione iniziano a ballare i folli. Phillips torna in realtà a battere il martello su un chiodo fondamentale della propria poetica, già ricca di personaggi assolutamente fuori da ogni schema razionale che finivano per sovvertire l'ordine costituito e diventare il cuore emotivo delle sue commedie e dei suoi primi lavori più sperimentali, nonostante i loro comportamenti sempre ai limiti, o anche abbondantemente oltre, della morale corrente. I folli danzanti del regista di Una notte da leoni (The Hangover, 2009) riescono sempre a colpire il cuore dello spettatore, a entrare in contatto empatico con lui e dunque a far sì che il pubblico sia sempre, almeno parzialmente, dalla sua parte, persino nel momento in cui il timido Arthur diventa Joker, agente del caos e pluriomicida. Tramite il perfetto connubio tra la scrittura dell'autore statunitense e la performance ricca di sfumature psicologiche ed emotive di Phoenix è impossibile non vivere la trasformazione del protagonista nel celeberrimo nemico del Cavaliere oscuro come l'inevitabile effetto delle ingiustizie subite per una vita intera e perpetrate davvero da chiunque abbia conosciuto, finanche il suo idolo Murray Franklin (Robert De Niro) e l'amata madre.
Anche sul versante squisitamente formale Phillips imposta l'intero film su un registro in sintonia con la sua volontà di omaggiare la New Hollywood, come dimostrano l'ampio ricorso alla camera in spalla per seguire gli spostamenti del protagonista (anche in sinuosi piani sequenza), l'abbondante rifrazione della luce in molte inquadrature e persino citazioni dirette come quella della scala di L'esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973). Questo non significa che la pellicola finisca per diventare un jukebox del cinema passato in stile Tarantino o che non si veda una ricerca personale del director e infatti la scelta di ridurre al minimo le inquadrature ampie va in netto contrasto con molti dei modelli di riferimento, mostrando chiaramente l'intenzione di tenere sempre al centro dell'attenzione Fleck, vero polo d'attrazione dell'intera opera.
Dunque è davvero una rivoluzione questo Joker? Probabilmente no, il cinecomic d'autore esisteva già da decenni (si pensi a Mario Bava) ma uno studio così sottile ed emotivo insieme di un personaggio iconico come il misterioso clown principe del crimine mancava al genere e un'opera così diversa dal canone imposto all'industria intera dai miliardi al box office del MCU è l'ennesima dimostrazione della natura polimorfa del cinecomic, a dispetto di quanto cerchi di far credere Kevin Feige. Senza dimenticare che parliamo, senza se e senza ma, di una di quelle pellicole così potenti da essere difficilmente dimenticate.
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