Da un decennio circa i critici d'oltreoceano si affannano in una specie di caccia all'horror migliore dell'anno pescando tra le produzioni indipendenti che trovano una via di sbocco verso il pubblico generalista tramite festival come il Sundance . It Follows del 2014 (regia di Robert David Mitchell) e The Witch dell'anno successivo (diretto da Robert Eggers) sono solo due esempi di questa tendenza a voler rintracciare delle vie alternative e maggiormente "autoriali" ai successi continui prodotti da Jason Blum, campioni di incassi e spesso anche accolti da recensioni positivi ma mai (o quasi) realmente considerati lavori degni di reale apprezzamento artistico. Lungi da me denigrare i due film appena citati (il primo in particolare resta per me un esordio tra i più folgoranti del terzo millennio) ma mi pare, come giustamente rilevato anche in alcuni articoli italiani, l'atteggiamento degli addetti ai lavori statunitensi una ennesima manifestazione di avversione al genere, incapace secondo loro di sfornare cinema autoriale o di valore universale solo quando tenta di rinnegare i propri topoi. Per fortuna questo pregiudizio ormai atavico ha almeno permesso a molte produzioni a basso costo di pubblicizzarsi proprio tramite campagne di marketing basate su questa pretesa di allontanamento dall'horror più commerciale e "popolare", attirando le attenzioni di quella fetta di pubblico in cerca di qualcosa di diverso e culturalmente di qualità più elevata rispetto alla media. Il risultato di questo nuovo modo di pubblicizzare l'horror è l'ottimo successo al botteghino di Hereditary, primo lungometraggio di Ari Aster, eletto da gran parte della stampa anglosassone il migliori film dell'orrore del 2018.
L'opera in questione segue le vicende della sfortunata (per usare un eufemismo) famiglia Graham, composta da Annie (Toni Collette), Steve (Gabriel Byrne) e i figli Peter e Charlie. Dopo la dipartita e il funerale della matriarca Ellen, madre di Annie, i problemi relazionali all'interno del nucleo familiare esplodono irrimediabilmente, specie dopo che in un incidente causato dal fratello la più giovane di casa perde la vita. La complicata coesistenza tra i sopravvissuti viene ulteriormente intaccata dall'entrata in scena di Joan, che spiega alla donna in lutto come mettersi in contatto con i suoi cari defunti.
Per quanto il marketing da me precedentemente descritto tenti di dipingerlo come un unicum all'interno del panorama attuale Hereditary è un horror a tutti gli effetti e anzi, come tutte le grandi opere di genere, lavora sui punti fermi del filone di appartenenza per poi ribaltarli o renderli maggiormente personali. Non solo, come evidenziato in molte recensioni, gli echi di classici quali Rosemary's Baby (Roman Polanski, 1968) o Shining (Stanley Kubrick, 1980) pervadono l'intero minutaggio della pellicola ma non mancano neanche influenza dal tanto vituperato cinema dell'orrore contemporaneo più "commerciale", come dimostra l'uso sapiente della messa a fuoco e della profondità di campo per creare momenti di enorme tensione ereditato direttamente da James Wan e dai suoi Insidious (2010) e The Conjuring (2013). Aster dimostra dunque di conoscere molto bene il genere, sia nelle sue declinazioni contemporanee che del periodo Hollywood Reinassance, ma risulta altrettanto evidente come per il giovane regista americano il suo primo lungometraggio sia anzitutto un ritratto tanto preciso quanto spietato di una famiglia disfunzionale, recuperando quel tema che già si poneva al centro dei suoi corti e mediometraggi. Prima che nel corso della seconda metà del film la escalation soprannaturale esplode definitivamente lo spettatore assiste in primis al disfacimento di quella che all'apparenza sembra una tipica famiglia borghese americana ma che, in realtà, rivela, dettaglio dopo dettaglio, conflitto irrisolto dopo conflitto irrisolto, tutta la sua fragilità. In particolare su tutte le tragedie che colpiscono Annie e i suoi figli si staglia l'ombra della malattia mentale, una sorta di retaggio che colpisce da generazioni i suoi consanguinei e che pare, fin dalle prime sequenze, affliggere anche la donna (le visioni, il sonnambulismo violento) e forse anche la piccola Charlie, le cui stranezze potrebbero però nascondere "solamente" lo spettro autistico, almeno fino alla inesorabile svolta satanica.
Come già affermato si potrebbe dire che la vena orrorifica della pellicola viene fuori, minuto dopo minuto in maniera sempre più marcata, dopo circa un'ora ma lo spettatore si trova fin dalla prima, magistrale sequenza a vivere la visione in uno stato di costante angoscia e attesa di un male che percepisce come onnipresente. Uno stato d'animo reso possibile non tanto da scelte narrative o da momenti particolarmente sanguinolenti, bensì dalla messinscena di Aster, tanto elegante quanto efficace. Lontano anni luce dalla attuale tendenza al montaggio veloce e al ritmo serrato, lo stile del cineasta statunitense è costellato da long take, campi lunghi, composizione delle inquadrature sempre ben bilanciata e silenzi asfissianti, resi ancor più inquietanti dai movimenti di macchina. Spesso il regista opta per inquadrature fisse ben più lunghe della media del genere ma quando la cinepresa si muove lo fa sempre con carrelli eleganti, quasi impercettibili per la fluidità, che spesso creano l'illusione di fungere da soggettive di qualche entità maligna che domina la vita dei Graham. A tutto ciò si aggiunge, in ultima istanza, un'attenzione verso la recitazione del cast tutt'altro che banale, portando il pubblico a una reale partecipazione emotiva con le sorti dei personaggi, in particolare per quanto concerne le tragiche figure di Annie e Peter (non a caso a scuola il ragazzo assiste a una lezione sul mito di Ifigenia).
Hereditary è certamente uno degli horror più inquietanti del decennio (e non solo forse) e una impietosa testimonianza sull'implosione della famiglia-tipo americana ma mai solamente una di queste componenti o la fredda somma di esse, come vorrebbe farci credere certa critica o il marketing susseguente. Il cinema dell'orrore ha sempre riflettuto l'humus socio-culturale dei suoi tempi e dunque l'opera prima di Ari Aster ne è l'ennesima prova.
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