martedì 19 marzo 2019

BARRY SEAL - UNA STORIA AMERICANA: LA DEFLAGRAZIONE GROTTESCA DELL'AMERICAN DREAM

Benché molti "cinefili" da web 2.0 possano storcere il naso, proprio il famigerato Michael Bay con il suo Pain & Gain (Pain & Gain - Muscoli e denaro) ha aperto la strada nel 2013 a un certo filone filmico in cui storie reali di criminalità statunitense, capaci di mettere in grave imbarazzo i principi cardine del moralismo che sbandiera ormai da decenni, vengono rilette attraverso toni da commedia algida e grottesca, in bilico perenne tra farsa e tragedia. Nel solo anno appena citato hanno raggiunto le sale mondiali infatti anche American Hustle (American Hustle - L'apparenza inganna, David O. Russell), candidato a ben undici Academy Awards, e The Wolf of Wall Street di Scorsese, probabilmente il punto più alto di questa sorta di sottogenere e la pellicola che ha maggiormente ispirato le opere successive, data anche la tutt'altro che velata influenza su questo tipo di lavori da parte di un altro capolavoro scorsesiano quale Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990). Oggi ho scelto di porre alla vostra attenzione Barry Seal - Un storia americana (American Made in originale), regia di Doug Liman risalente al 2017 che si inserisce a pieno in questo trend puramente americano. Sebbene il film possa contare su una star del calibro di Tom Cruise non si può certo definirlo un blockbuster, sia per dimensioni produttive che per marketing, eppure nonostante ciò è riuscito a ottenere incassi notevoli e recensioni molto positive che ne sanciscono una piena riuscita su tutti i fronti.

Il lungometraggio racconta, con grandi licenze ammesse a più riprese da produzione e regista, le assurde ma reali disavventure vissute da Barry Seal (Tom Cruise), pilota di aerei civili che verso la fine degli anni Settanta viene contattato dalla CIA per trasportare armi ai ribelli del Nicaragua che lottano contro il neonato regime comunista. Durante la missione top secret l'uomo viene avvicinato da un trio di potenti narcotrafficanti colombiani che lo convincono ad aiutarli a trasportare centinaia di chili di cocaina negli States. Per quanto incredibile possa sembrare il protagonista si trova a contribuire alla nascita del cartello colombiano guidato da Pablo Escobar e ad alimentare le azioni di guerriglia dei contras nei confronti del governo sandinista mentre accumula ricchezze sempre più incommensurabili. Ovviamente però la carriera criminale dell'ex pilota della TWA non può durare a lungo senza intoppi.

Che American Made sia tutt'altro che uno di quei biopic portatori di grandi messaggi etici da Academy risulta scontato fin dal titolo (purtroppo la scelta della localizzazione italiana annulla l'effetto sarcastico del titolo originale), così come nella scelta di affidare la regia a Liman, capace sì di adattarsi a produzioni molto eterogenee nel corso della sua carriera ma indubbiamente più a suo agio con la commedia caustica. Proprio come nella precedente collaborazione con Tom Cruise (Edge of Tomorrow, 2014), anche in questo suo ultimo lavoro l'autore di The Bourne Identity (2002) rilegge un genere solitamente votato alla serietà (in questo caso il biopic e il crime movie) con una vena ironica che non risparmia colpi bassi e frecciate ben evidenti al militarismo statunitense e alla sua facciata da difensore della democrazia. Certo in questo caso, come già affermato in precedenza, il cineasta newyorkese non inventa poi molto e anzi esibisce in maniera esplicita i numerosi riferimenti al cinema di Scorsese, a cominciare dalla scelta di rendere il protagonista anche narratore del film, come in Quei bravi ragazzi, passando per il periodo storico individuabile negli anni Ottanta reaganiani fino ai colori acidi della fotografia di César Charlone che richiamano, oltre a Traffic (2000) di Soderbergh (non a caso altra opera incentrata sul contrabbando di stupefacenti), il precedentemente menzionato The Wolf of Wall Street. Dunque chi è alla ricerca di chissà quale innovazione folgorante potrebbe restare deluso ma tutti gli altri si troveranno dinanzi a una pellicola dotata di una messinscena molto singolare per l'ambito americano, ricca di passaggi repentini da materiale found footage a ritmate sequenze caratterizzate da un uso preminente di giallo e verde estremamente saturi, passando per le riprese che lo stesso Barry realizza con una telecamera amatoriale, guardando dritto in macchina per poter imprimere su nastro la propria storia. Ecco il vero punto di forza, centro di gravità permanente del lungometraggio: il protagonista. Grazie a una prova eccelsa per autoironia e riflessione sul proprio passato divistico Cruise dona a una figura tutt'altro che moralmente eccepibile quella simpatia da mascalzone adorabile che porta il pubblico a patteggiare sempre per lui e, con una grande intuizione metacinematografica, persino gli altri personaggi, a cominciare dal trio colombiano guidato da Pablo Escobar. Lo stesso Seal più volte resta sorpreso di come ogni situazione finisca sempre per risolversi in un'opportunità per arricchirsi, persino le più tragiche e pericolose, proprio come potrebbe accadere solamente al tipico eroe classico americano, quello che tra anni Ottanta (gli stessi del film) e Novanta l'attore di Syracuse interpretava a ripetizione e che da almeno un decennio invece tende a sbeffeggiare tramite personaggi più ironici (uno su tutti l'esilarante Grossman in Tropic Thunder, girato da Ben Stiller nel 2008).

Insomma in questo Barry Seal è difficile non lasciarsi trasportare dalla crescente assurdità delle disavventure del suo protagonista ma, allo stesso tempo, non si può restare indifferenti a come Liman utilizzi questa figura di criminale per sbaglio alla stregua di un Forrest Gump realmente esistito, capace di avere un ruolo fondamentale nel suo "piccolo" all'interno della grande storia degli USA. Quella Storia con la esse maiuscola in cui però il gigante americano mostra tutta l'ambiguità della sua politica sia interna che esterna, specie nel momento in cui alla presidenza arriva l'ormai famigerato Ronald Reagan. Dietro la sua facciata rassicurante l'ex cowboy si è reso motore di un periodo storico dominato da un liberismo estremo colpevole di una escalation dell'ossessione del cittadino nei riguardi del denaro e del potere, l'unica meta da raggiungere a discapito di ogni remora etica. Allo stesso modo gli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, nonostante le scorie della tragedia vietnamita, si sono resi complici di gravi atti di prevaricazione del diritto internazionale in Nicaragua e in Iran e la pellicola in analisi non lesina nel mettere sul banco degli imputati questa orrenda deformazione dell'american dream e dei principi morali alla base della storia della "terra delle opportunità". Come dimostra millenni fa Aristofane non vi è arma più tagliente per criticare i vizi della società in cui si vive della commedia e anche in questo American Made non delude.

sabato 16 marzo 2019

IN THE HEART OF THE SEA: GLI ABISSI DELL'OCEANO E DELL'ANIMA

Dopo essere entrato nei televisori di tutto il mondo come protagonista di Happy Days (Garry Marshall, 1974-1984) Ron Howard ha trovato la sua consacrazione artistica come regista cinematografico, grazie soprattutto al supporto di George Lucas che ne aveva intuito il talento in American Graffiti (1973). Oggi "Richie Cunningham" può contare su una filmografia di notevole vastità, condita da grandi successi commerciali e riconoscimenti prestigiosi ma anche da taluni tonfi al box office, tra i quali spiccano i suoi ultimi due prodotti. Oggi ho deciso di prendere in esame proprio uno di questi due, ossia In the Heart of the Sea (in Italia Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick), diretto nel 2015 con un budget da blockbuster ma incapace di conquistare il botteghino e gran parte della critica statunitense.

Ispirata all'omonimo romanzo storico scritto da Nathaniel Philbrick nel 2000, la pellicola si dipana attraverso due sezioni spaziotemporali: la prima, ambientata nel 1850, vede il romanziere Herman Melville (Ben Whishaw) fare visita all'ex marinaio Thomas Nickerson (Brendan Gleeson) per poter avere una testimonianza diretta sulla vicenda del naufragio della baleniera Essex; il secondo rappresenta proprio il racconto di quest'ultimo, che vede come protagonista Owen Chase (Chris Hemsworth), baleniere esperto al quale però viene assegnato solamente l'incarico di primo ufficiale della Essex, così da favorire come capitano della spedizione il nobile ma meno affidabile George Polland. Dell'equipaggio in cerca di olio di balena fanno parte anche l'amico fraterno di Chase Matthew Joy (Cillian Murphy) e l'allora novellino Nickerson (Tom Holland). Il viaggio, reso già arduo dalla convivenza tutt'altro che pacifica tra capitano e primo ufficiale, diviene un inferno quando i due decidono di sfidare la sorte avventurandosi in una zona del Pacifico lontanissima dalla civiltà e solcata da un'enorme e agguerrita balena bianca.

A differenza di quanto lasci credere il marketing sotteso al titolo utilizzato dalla distribuzione italiana, In the Heart of the Sea non porta sul grande schermo il romanzo di Melville, bensì la vicenda storica che l'ha ispirato e dunque quella transizione narrativa che porta il fatto a divenire racconto. In questo senso diviene evidente come lo stesso romanziere statunitense rappresenti un doppio del regista stesso, specie nel momento in cui si riflette su quanto la filmografia di Ron Howard sia costellata di trasposizioni di storie realmente accadute, lasciando trasparire l'interesse del regista per la modificazione di tali eventi in una chiave filmica che da un lato guarda al postclassicismo di Clint Eastwood e dall'altro a un'attenzione per le possibilità offerte della tecnologie più recenti che aveva caratterizzato il precedente Rush (2013). Proprio quest'ultimo, al netto della chiara distanza storica e di ambientazione narrativa, diventa il vero metro di paragone con il quale si confronta la pellicola in analisi, quasi come se ne costituisse un seguito spirituale. Anzitutto entrambi i lungometraggi si ispirano a storie realmente accadute e si concentrano su una dialettica duale tra personaggi dotati di personalità e Weltanschauung completamente diverse: se la rivalità tra il pragmatico e fedele a un'unica donna Niki Lauda con il donnaiolo spericolato James Hunt (interpretato anche lui da Hemsworth) domina il cuore di Rush, lo stesso accade per gran parte di In the Heart of the Sea, con tanto di analoghe battaglie all'interno di contesti nei quali le loro vite vengono messe a rischio costantemente e un finale che porta una delle due forti personalità a fare un passo indietro verso l'altra. Allo stesso modo le due coppie si trovano, come spesso accade nei lavori dell'autore di Cocoon (Coocon - L'energia dell'universo, 1985), a dover loro malgrado superare ostacoli imprevisti durante il loro rischioso percorso lavorativo che finiscono per modificarne in parte il temperamento e a mettere da parte le rivalità per la propria sopravvivenza. Ciò che distingue il dualismo Chase-Polland da quello Lauda-Hunt risulta invece l'essenza del suddetto ostacolo, che nel più recente tra i due lungometraggi non è più qualcosa di intangibile (la velocità e la connessa brama di vittoria) ma un sentimento fin troppo umano (una bramosia che diventa ben presto hybris) che viene reificato in una manifestazione inaspettata del terrificante potere della natura: la balena bianca. L'enorme essere marino, pur non potendo raggiungere le vette simboliche presenti nel romanzo di Melville a causa dell'essenza epica dello stesso, fin dalla falsa soggettiva che apre la pellicola entra in ogni inquadratura fagocitandone lo spazio trasmettendo allo spettatore tutta la potenza incontrollabile da parte dell'uomo della quale è dotato, divenendo dunque la manifestazione fisica dei limiti dell'uomo stesso e della vendetta della natura nei confronti del crudele sfruttamento intensivo delle risorse terrestri. L'olio di balena in quanto antesignano del petrolio (non a caso citato nel finale) come combustibile aggiunge una vena di ecologismo che funziona soprattutto come ulteriore valvola di sfogo per l'attacco di Howard alla presunzione umana.
Proprio in questa direzione agisce anche l'impianto formale adottato dal regista e dal direttore della fotografia Anthony Dod Mantle, caratterizzato da una combinazione altamente spettacolare di classicismo con un ricorso abbondante a action cam montate sugli alberi o sul ponte della Essex che elevano la dimensione avventurosa e il senso di aggressione prodotto dall'agente naturale costituito dal mare. Proprio quest'ultimo diventa una sorta di estensione della balena e di tutto il suo carico allegorico: grazie alla color correction particolarmente antinaturalistica e acida adottata l'oceano assume immediatamente connotati particolarmente sinistri che aumentano costantemente con l'inasprirsi dei contrasti tra capitano e primo ufficiale fino a raggiungere un climax durante la strage perpetrata in coppia (ancora una volta ricorre il due) onde marine-balena, per poi mutare nuovamente in una tonalità di blu quasi accecante quando i sopravvissuti al naufragio si trovano a dover rinunciare a ogni remora morale pur di resistere a quel tratto di Pacifico che Nickerson, non a caso, definisce più come un deserto che come distesa d'acqua. Proprio in questa sezione del narrato avviene la svolta che trasforma quella che sembra ormai avere ogni connotato della tragedia attica, ossia la scelta di Chase di non colpire il gigantesco cetaceo con l'arpione quando quest'ultimo compare nuovamente agli stremati marinai; una decisione dettata da un mix di sentimenti contrastanti che sembra essere interpretata dalla divinità dei mari come una riscossa etica da parte di quel manipolo di uomini e che dunque viene premiata con il salvataggio degli ultimi superstiti dell'Essex.

In the Heart of the Sea non raggiunge, come precedentemente affermato, le vette epiche di Moby Dick così come non apporta grandi novità al cinema contemporaneo, eppure dimostra ancora una volta come il cinema di transizione tra passato e presente di Ron Howard funzioni egregiamente anche in dimensioni avventurose oggi poco frequentate e sappia raccontare le pulsioni più viscerali dell'uomo senza perdere mai l'obiettivo dell'impatto emotivo su qualunque tipologia di spettatore.

mercoledì 13 marzo 2019

SENZA SANTI IN PARADISO: UNA LETTERA D'AMORE ALLA NEW HOLLYWOOD

Negli ultimi anni i (più o meno) giovani autori che riescono a raggiungere il mercato mainstream attraverso i successi di critica ottenuti all'interno del filone indipendente americano incarnato dal Sundance sono molti, come può facilmente dimostrare l'esempio eclatante offerto da Ryan Coogler con il suo cinecomic campione di incassi e vincitore di ben tre Academy Awards Black Panther. David Lowery non ha ancora raggiunto vette commerciali di tale livello eppure ha già diretto un lungometraggio ad alto budget per la Disney (Il drago invisibile, Pete's Dragon, 2016) e il commiato al set cinematografico di Robert Redford The Old Man & the Gun (2018); traguardi resi possibili in primis dal film che intendo proporre oggi, Senza santi in paradiso (Ain't Them Bodies Saints). Quest'opera, realizzata nel 2013, è stata presentata proprio al celebre festival patrocinato dal già citato Redford dove ha conquistato immediatamente i favori della critica e la possibilità di una distribuzione internazionale, purtroppo rivelatasi in seguito piuttosto deludente.

Ambientata in un imprecisato momento storico individuabile negli Stati Uniti degli anni Settanta la pellicola ruota attorno alla tormentata storia d'amore tra Bob Muldoon (Casey Affleck) e Ruth Guthrie (Rooney Mara), due giovani che vivono in una piccola comunità di campagna compiendo rapine. Proprio quando la ragazza resta incinta la coppia viene coinvolta in uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine durante il quale l'amico fraterno di Bob, Freddy, resta ucciso e Ruth colpisce a una spalla il poliziotto Patrick Wheeler (Ben Foster). Conscio della gravità della situazione lo stesso Bob decide di arrendersi e di consegnarsi alla polizia, assumendosi la colpa della compagna e dunque finendo condannato al carcere per lei. A circa quattro anni di distanza l'uomo riesce a evadere di prigione nel tentativo di ritrovare la donna amata e la figlia Sylvie ma la situazione è resa ancor più complicata dal rancore che cova nei suoi confronti Skerritt (Keith Carradine), da alcuni uomini intenzionati a uccidere il protagonista e dal rapporto di crescente affetto che viene a crearsi proprio tra Guthrie e Patrick.

Come affermato esplicitamente anche dal regista Senza santi in paradiso non è un film narrativamente complesso, non si focalizza sulla detection o sulla complessità dei piani del racconto. Questa chiara dichiarazione di intenti è la prima prova di come l'opera in questione viva non solo diegeticamente in una dimensione atemporale: non solo le vicende che coinvolgono Bob e Guthrie vengono ambientate in un contesto spaziotemporale imprecisato, che mescola gli ultimi decenni del Novecento a un immaginario western molto forte ma l'intero impianto filmico scelto da Lowery tradisce una rielaborazione certamente contemporanea di un modo di fare cinema passato, più precisamente quel periodo ormai mitico definito New Hollywood o Hollywood Reinassance. Il fatto che una larga fetta di critica statunitense abbia paragonato la pellicola alla prima filmografia di Terrence Malick rappresenta (stranamente per i canoni di questi confronti spesso azzardati) un ulteriore indizio dell'ispirazione visuale e poetica loweriana. In tale direzione si muove anzitutto la decisione di girare in 35 mm in luogo dell'ormai usuale digitale, così come il ricorso costante all'illuminazione naturale, resa ancor più evidente e vivida dalle numerosissime tracce di rifrazione della luce sulla macchina da presa, un marchio distintivo non solo del precedentemente menzionato autore di La rabbia giovane (Badlands, 1973) ma di tutto quel movimento di rinnovamento del cinema americano che sbatteva in faccia alla vecchia Hollywood infrazioni della grammatica classica come questa. Rievocano tale momento storico e culturale anche le musiche di influenze folk composte da Daniel Hart ma soprattutto la tragica love story che si trova al centro della narrazione.
Bob e la sua amata non possono non rievocare il ricordo di Bonnie e Clyde, capaci di aggiornare il mito dell'amore impossibile di Romeo e Giulietta donandogli dei connotati di criminalità moralmente giustificabile e di ribellione giovanile. Certo il finale di Gangster Story (Bonnie and Clyde, Arthur Penn, 1967) sanciva una punizione potremmo dire divina per quella rivolta nei confronti della legge, prima etica e poi penale, e anche Lowery sembrerebbe in un certo senso confermare come il titanismo del personaggio interpretato da Casey Affleck possa portare solamente a una morte prematura, eppure nel frattempo il regista porta attraverso delicati flashback, contraddistinti da long take di grande eleganza, lo spettatore a empatizzare in maniera strenua con lui, con la sua lotta contro il mondo intero per la donna che ama. Allo stesso tempo l'autore di A Ghost Story (2017) fornisce una analoga, se non addirittura superiore, introspezione anche a Gurthie, donna capace di crescere al meglio una bambina da sola nonostante il peso del rimorso per essere la causa dell'incarcerazione dell'uomo della sua vita, la crescente solitudine e il tentativo di celare ogni debolezza per resistere all'estenuante attesa del ritorno di Bob. La donna dunque assume un ruolo ben diverso rispetto al personaggio di Faye Dunaway, figlio anche di una attualità nella quale l'universo femminile ha acquisito una rilevanza e una indipendenza ben maggiore rispetto a quello che poteva percepire Penn, così come di matrice più contemporanea è la presenza di un una terza figura che si interpone tra i due protagonisti. Patrick appare inizialmente quasi come un McGuffin hitchcockiano per poi trasformarsi lentamente in una figura che da un lato rende palpabile, concreto il senso di colpa della bandita col volto di Rooney Mara e dall'altro però finisce per trasformarsi ineluttabilmente in quell'uomo, in quel padre che Bob, ribelle per natura seppur dotato di buon cuore (si pensi a come tenti fino all'ultimo di non uccidere i suoi assalitori), non sarebbe mai potuto essere. Un amico, magari un compagno che certamente possiede codici morali meno progressisti ma che, grazie a una sensibilità resa quasi tangibile dal calore dei colori che monopolizzano le inquadrature in cui appare, sembra voler mostrare una volontà di Lowery di nobilitare un passato più remoto (la Hollywood classica, i valori della famiglia americana) che pur con i suoi limiti ha costituito le radici degli Stati Uniti.

Senza santi in paradiso si pone in definitiva come un lavoro non solo di mirabile bellezza estetica ma soprattutto ricco di strati di significato. analizzabile e apprezzabile su diversi livelli e capace di colpire le corde dell'emozione di qualunque tipo di spettatore. E scusate se è poco.

venerdì 8 marzo 2019

LA CASA DI JACK: RITRATTO DELL'ARTISTA (NON PIÙ DA GIOVANE) LARS VON TRIER

Il mondo del cinema non è certo privo di personaggi contraddittori, capaci di suscitare scandalo sia con le proprie opere che con comportamenti sopra le righe fuori dal set, eppure non credo che esista personalità più controversa, almeno tra i viventi, di Lars von Trier. A sette anni dall'ormai famigerata cacciata dal Festival di Cannes in seguito a dichiarazioni poco felici su Hitler e il nazismo (a mio modesto parere largamente fraintese) il regista danese torna alla rassegna francese nel 2018 con The House That Jack Built, sua ultima fatica che in questi giorni arriva finalmente anche in Italia con il titolo La casa di Jack. Come da facile pronostico la pellicola sconvolge fin dalla prima proiezione gli spettatori, spacca nettamente la critica mondiale e nel nostro paese viene distribuita, in modo assolutamente folle, in due versioni, una censurata e l'altra integrale, entrambe vietate ai minori di 18 anni. Scopriamo se ci troviamo dinanzi a una provocazione fine a se stessa o all'ennesimo grande lavoro dell'autore di Melancholia (2011).

Il lungometraggio si presenta come una lunga conversazione intrattenuta tra Jack (Matt Dillon) e Verge (Bruno Ganz) a proposito dei motivi che hanno spinto il primo a vivere ben dodici anni come serial killer, autore di più di sessanta omicidi sempre più efferati e complessi. Nel raccontare il proprio percorso l'assassino utilizza cinque episodi che definisce incidenti, intramezzati da spiegazioni sulle velleità artistiche dell'uomo che lo avrebbero spinto a rifugiarsi in questa "carriera".

Per quanto perfettamente compiuto in se, sia esteticamente che narrativamente, per poter penetrare e comprendere nella sua totalità l'allucinato viaggio nel male costituito da La casa di Jack è necessario possedere una buona conoscenza della filmografia pregressa del suo autore, poiché è indubbio come il film rappresenti un vero e proprio compendio del cinema di von Trier e soprattutto un'analisi in forma filmica di se. Certamente è facile riconoscere in Jack un alter ego tutt'altro che velato del regista, del quale condivide l'incapacità nel confrontarsi emotivamente con l'altro e la conseguente scelta di rifugiarsi nell'arte, elemento misterico capace di trascendere persino ogni valenza di ordine morale in virtù di un unico principio ordinatore, la bellezza. Proprio come il controverso danese il protagonista del lungometraggio mostra una Weltanschauung particolarmente nichilista, priva dei più elementari sentimenti umani, diffidente verso qualsiasi traccia di bontà nell'animo umano, così come invece resta affascinato da un concetto di creazione artistica totalmente amorale e improntata al lato oscuro nella sua totalità (si pensi all'insistenza sul concetto di negativo e di ombra, sia nelle foto che nella lunga divagazione grafica con l'uomo che cammina sotto i lampioni). All'interno delle numerose espletazioni dell'idea di creazione secondo Jack e su come dunque l'omicidio sia la sua più alta modalità d'espressione, il protagonista rivendica una fascinazione estrema verso l'idea di icona, indentificata però non con un Michelangelo o Dickens, bensì con Speer e altre figure simbolo del nazismo, rievocando in maniera lapalissiana le già citate polemiche sul presunto antisemitismo di von Trier.
Allo stesso modo persino la forma scelta per rappresentare questa sorta di autoanalisi filtrata attraverso la Divina Commedia e il semiautobiografismo di Ritratto dell'artista da giovane di Joyce  riflette l'idea dell'autore di mettere a nudo per intero la propria essenza di uomo e cineasta: nei 155 minuti di durata del film riemergono tutti gli stilemi che hanno contrassegnato il percorso filmico dell'autore di Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996), a partire dalla camera a mano invocata dal manifesto di Dogma 95 fino a un ricorso costante a materiale found footage, all'interno del quale spiccano nientemeno che frammenti dei suoi precedenti lavori. Ecco la prova più esplicita di come La casa di Jack sia l'opera più personale e totale di von Trier, l'unica tra quelle più direttamente influenzate dal proprio mondo interiore nella quale emerge finalmente anche la pars costruens del processo umano e creativo del danese, reificata in Verge. L'ultimo personaggio interpretato dal leggendario Ganz non può che personificare il lato meno distruttivo della concezione artistica del regista, la sua moralità più vera e nascosta, quel lato umano e cinematografico di se rimasto fin troppo a lungo sepolto sotto continue provocazioni pubbliche e pregiudizi di addetti ai lavori perbenisti. Come il principe centauro invocato da Machiavelli il vero io di questo controverso artista non risiede né in Jack, né in Verge/Virgilio ma nella complementazione di entrambi.

Un po' golpe, un po' lione, esattamente come The House That Jack Built.

martedì 5 marzo 2019

AQUAMAN: IL FANTASY ORGIASTICO DI JAMES WAN

Avendo affrontato un'intera tesi di laurea sul fenomeno Superman e in particolare sulla sua versione snyderiana resto sempre molto vigile sulle produzioni Warner tratte dai fumetti DC Comics, così mi sembra naturale portare alla vostra attenzione Aquaman, diretto nel 2018 da quel James Wan capace di spadroneggiare fin da giovanissimo all'interno del filone horror contemporaneo. Con un curriculum che vanta la creazione di franchise da centinaia di milioni di dollari quali Saw e The Conjuring, il regista malaysiano riesce anche nell'ambito supereroistico a imprimere il proprio tocco da Re Mida, dando vita al maggiore incasso dell'universo cinematografico inaugurato da L'uomo d'acciaio (Man of Steel, Zack Snyder, 2013) pur dovendo contare su un personaggio il cui appeal popolare rasentava lo zero prima della realizzazione del film (o quanto meno della sua prima apparizione nel controverso Justice League, realizzato solo in parte da Snyder nel 2017).

La pellicola, ambientata a un anno circa di distanza dalle vicende narrate nel crossover con i maggiori supereroi di casa DC, rappresenta la vera origin story di Arthur Curry/Aquaman (Jason Momoa), svelandone attraverso alcuni flashback la nascita e l'infanzia travagliata a causa della sua essenza di figlio di due mondi: suo padre (Temuera Morrison) è un umile guardiano di un faro mentre sua madre Atlanna (Nicole Kidman) è la regina di Atlantide, fuggita da un matrimonio impostole. Il presente riporta, inaspettatamente, il mondo sommerso materno nella vita del protagonista quando il fratellastro Orm (Patrick Wilson) architetta un mefistofelico piano per muovere guerra agli uomini. Tutti i regni che formano gli abissi marini sembrano assecondare i propositi bellici del reggente atlantideo, con l'eccezione di Vulko (Willem Dafoe) e Mera (Amber Heard) che si rivolgono ad Arthur chiedendogli di reclamare il trono che gli spetta di diritto.

Se da più di dieci anni i cosiddetti cinecomic spopolano al botteghino mondiale e stanno inesorabilmente accaparrandosi fette sempre più consistenti di consenso anche tra gli addetti più intransigenti verso il cinema popolare probabilmente è la capacità di poter incorporare al suo interno canoni estetici e narratologici estremamente eterogenei, provenienti da qualunque tipo di genere o persino dalle produzioni più indipendenti o autoriali. Aquaman nello specifico è un esempio perfetto di questa particolarità del filone supereroistico attuale per la sua capacità di mescolare all'interno di circa due ore e venti topoi provenienti dai generi più disparati, frullandoli con una strafottenza che soltanto un abile orchestratore sarebbe stato capace di rendere digeribile. Senza mai prendersi troppo sul serio la pellicola passa in scioltezza attraverso momenti di pura azione all'avventura di matrice spielberghiana passando per una sezione puramente horror che mostra per la prima volta cosa sarebbe in grado di fare Wan nel suo campo di gioco preferito potendo contare su un budget da blockbuster (ricordo che tutti i suoi successi in ambito orrorifico restano produzioni che difficilmente superano i dieci milioni di dollari di spesa). Mettere insieme in maniera vincente tanti stimoli così distanti non è certo un'impresa semplice ma l'autore di Insidious (2010) dimostra la propria levatura di regista di genere mettendo in primo piano lo stile, rendendo la forma l'ingrediente capace di legare tutti i sapori sparati in faccia allo spettatore. Per ogni sequenza o scena il cineasta riesce sempre a utilizzare i movimenti di macchina più adeguati ad alzare l'asticella della spettacolarità e della fascinazione puramente sensoriale, come dimostrano i piani sequenza di notevole livello estetico ed efficacia attrattiva con cui mette in scena lo scontro tra Atlanna e gli atlantidei o la spericolata lotta che coinvolge Arthur e Mera in Sicilia. In particolare quest'ultima gode del ricorso a carrelli e zoomate digitali che rompono con l'ormai logoro montaggio alternato tipico di scene simili, caricando l'adrenalina dello spettatore come se si trovasse dinanzi ad azioni realizzate con stunt artigianali e non con green screen.
Come Bava e Argento, non a caso citati più volte da Wan come fonti di ispirazione, insegnano il cinema di genere relega in secondo piano la costruzione narrativa di stampo romanzesco per dare vita alle soluzioni più ardite di messinscena ed ecco perché Aquaman presenta un impostazione così improntata alla centralità del visuale ma è altrettanto evidente come la sceneggiatura improntata al disvelamento dell'eroe di matrice epica-cavalleresca risulti una scelta dettata dalla volontà di girare un vero e proprio cinecomic fantasy. All'epopea del re dei mari DC non manca nessuno degli elementi costituenti tale filone narrativo, a cominciare dal nome del protagonista che richiama il più celebre cavaliere dell'epica occidentale, e persino le continue bizzarrie estetizzanti con cui vengono rappresentati gli esotici mondi subacquei richiamano capisaldi del genere, tra i quali spicca per numero di riferimenti la saga di Star Wars, dichiaratamente citata dall'autore e omaggiata attraverso una miriade di invenzioni coloristiche riprese spudoratamente (nella migliore accezione del termine) dalla trilogia prequel (si pensi ad esempio a quanto Atlantide somigli alla Coruscant notturna vista in Star Wars: Episode II - Attack of the Clones del 2002, complici anche i movimenti della mdp digitale molto simili a quelli di George Lucas).

Aquaman non è un film rivoluzionario dunque, non si avventura nei simbolismi e nelle riflessioni mitologico-religiose della trilogia snyderiana su Superman o nei cunicoli dell'io affrontati da Nolan nei suoi lungometraggi su Batman, ma offre al pubblico un concentrato di spettacolo visivo e narrazione essenziale irresistibile, spesso eccessiva ma simpaticamente strafottente, come quelle rockstar che il gigante Momoa richiama con il suo look e l'atteggiamento bonariamente cafone.

domenica 3 marzo 2019

DOGMAN: LA PUMBLEA GIUNGLA CHIAMATA ITALIA

Che Matteo Garrone sia oggi una certezza all'interno del panorama italiano (e non solo) può essere considerato un dato di fatto, sebbene venga regolarmente snobbato dalla critica statunitense in favore di cineasti che possono "vantare" origini ben più esotiche della nostra, ormai, poco affascinante Italia. In Europa, per fortuna, il regista romano gode di una stima ben più in linea con la qualità dei suoi lavori e la dimostrazione si può rintracciare nel grande plauso riservato durante il Festival di Cannes a Dogman (2018), ultima fatica dell'autore de L'imbalsamatore (2002) nonché film che oggi voglio presentarvi.

Ispirata in parte a un sordido episodio di cronaca nera, la pellicola segue la caduta di Marcello (Marcello Fonte), uomo minuto che gestisce un esercizio di toilettatura di cani in una località periferica del Lazio ma che, al contempo, si lascia invischiare in piccoli spacci di cocaina e rapine in villa. Uno dei suoi "clienti, Simone (Edoardo Pesce), in preda a una dipendenza sempre più dannosa, semina il panico tra i commercianti del posto e costringe il protagonista ad assecondare ogni suo piano criminale. Sebbene Marcello abbia una figlia che ama profondamente finisce per lasciarsi invischiare senza possibilità di redenzione nella spirale di violenza di quello che, in modo molto singolare, considera un amico.

All'interno della filmografia è difficile non intravedere alcuni fili che legano prodotti all'apparenza anche molto eterogenei come, ad esempio, Gomorra (2008) e Il racconto dei racconti (Tale of Tales, 2015) ma mi sembra piuttosto evidente come questo Dogman recuperi molti degli elementi fondativi, sia estetici che narrativi, del già citato L'imbalsamatore. La prima e più immediata prova di questo legame così forte risiede nell'ambientazione di periferia degradata messa in scena in entrambi i film, resa ancor più plumbea e fosca da una saturazione dei colori capace di annullare ogni tonalità calda in luogo di una serie di gradazioni di grigio che contrastano con ogni figurazione topica di località tradizionalmente solari quali la provincia napoletana e il lungomare compreso tra Lazio e Campania (anche se è giusto sottolineare come oggi Castel Volturno rappresenti un vero e proprio luogo identitario del neo-noir italiano). All'interno di questo ambiente completamente privato di colore, simbolo di un'umanità che la abita ormai spenta, si muove una coppia di protagonisti costituita da individui quasi opposti per struttura fisica, carattere e condizioni familiari: Simone, un gigante in grado di stendere chiunque con i suoi pugni, e Marcello, basso emaciato e dalla voce ai limiti del cartoonesco, rievocano immediatamente il nano Peppino e il giovane ma aitante Valerio del primo grande successo di Garrone. Nonostante in questo caso sia il più prestante del duo ad attrarre l'altro verso il crimine (o almeno questo è quello che a una prima occhiata appare) anche tra Simone e Marcello si crea un rapporto di ambigua sudditanza del secondo verso il primo che lo porta a compiere scelte apparentemente illogiche, specie considerando la rispettabilità della quale gode e la dolcezza fanciullesca dimostrata a più riprese nei confronti dei cani e della piccola Alida, fino a un sacrificio che assume dimensioni talmente ambigue da rasentare persino un amore malato. Certo nel film in analisi non vi sono tracce di quell'omosessualità che permea l'opera del 2002 ma, al contempo, l'ostinatezza con la quale l'ometto interpretato con grande sensibilità di sguardo da Fonte difende un violento come Simone, guidato solamente dalla dipendenza verso gli stupefacenti, e poi la violenza con cui finisce per reagire al mancato riconoscimento di quest'ultimo per averne preso il posto in galera fanno inevitabilmente pensare a qualcosa che travalica il semplicistico utilitarismo che intossica la periferia italiana attuale, rendendola semmai fosse possibile ancora più torbida.

Garrone in definitiva riesce nella tutt'altro che semplice impresa di aggiornare al 2018 e alla piena maturità raggiunta quelle intuizioni formali e narratologiche che lo avevano portato alla ribalta nazionale agli albori del terzo millennio. Dogman è un film che tramite una bellezza innegabile mostra quanto brutta, sporca e priva di una qualunque legge etica sia oggi una certa realtà del nostro paese, del quale in fondo rappresenta uno specchio capace di rifletterne lo squallore imperante.