All'interno del cinema italiano vi è senza alcun dubbio una notevole effervescenza proveniente dai grandi centri urbani del Meridione e in particolare la scena campana attualmente gode di ottima salute e fortuna, complice anche lo sdoganamento tra grande e piccolo schermo delle narrazioni ambientate tra le violente faide camorristiche. In parte connesso proprio a questo filone crime ma ben diverso per impostazione narratologica e poetica è Perez., secondo lungometraggio, risalente al 2014, di uno dei protagonisti dell'attuale settima arte nostrana, Edoardo De Angelis. Prodotto in parte dal suo protagonista assoluto Luca Zingaretti, il film costituisce un successo sia di critica che di pubblico per il regista partenopeo, candidato a numerosi premi e in grado di confermare il talento del suo autore fino alla definitiva consacrazione con il successivo Indivisibili (2016).
In piena medias res la pellicola mostra l'avvocato napoletano Demetrio Perez (Luca Zingaretti) alle prese con una crisi personale, oltre che lavorativa sempre più grave. Dopo essere stato abbandonato dalla moglie e costretto da nemici potenti a diventare l'ultimo dei difensori d'ufficio l'uomo si trova a doversi districare tra la relazione amorosa che lega la figlia Tea (Simona Tabasco) al figlio di un boss della camorra (Francesco Corvino, interpretato da Marco D'Amore) e le surreali pretese di un suo cliente, il pentito Luca Buglione (Massimiliano Gallo).
In seguito al successo ottenuto nel 2002 da Matteo Garrone con L'imbalsamatore e nel 2005 da Romanzo Criminale di Michele Placido il nostro paese ha conosciuto una fioritura estesa del genere neo-noir e, in parte come accaduto in un paese lontano in ogni accezione possibile della parola come la Corea del sud, in particolare molti autori meridionali hanno adottato gli stilemi di tale postgenere per poter leggere la contemporaneità di ambienti complessi come le metropoli Roma e Napoli. Perez. non rinnega neanche per un secondo la propria discendenza da quel bacino cinematografico sorto agli albori della New Hollywood grazia ad autori quali Don Siegel e William Friedkin, così come la sua evoluzione italiana ma nell'attingere a piene mani da un bagaglio di situazioni e immagini riesce nell'impresa non così banale di trovare una propria strada. De Angelis dimostra fin dalle prime inquadrature di conoscere profondamente il cinema americano decidendo di adattare alla sua poetica e al suo ricercatissimo stile la capacità di alterare, di rendere ambiguo e perturbante l'ambiente tramite un uso antinaturalistico della luce da parte di uno dei maestri assoluti del noir: Robert Siodmak. Esattamente come il regista tedesco trapiantato negli USA l'autore napoletano dipinge un mondo completamente oscuro, tagliato di netto da ombre oblique in grado di trasformare in un luogo sinistro e fantasmatico persino una città meravigliosamente solare e soleggiata quale il capoluogo campano. La macchina da presa di De Angelis si concentra soprattutto sui grattacieli e gli elevati palazzi che costituiscono il centro direzionale, una modernissima zona di Napoli le cui architetture avanguardistiche spiccano quasi come una navicella aliena depositata tra gli edifici storici della città e il degrado di alcune strade limitrofi fino a diventare, grazie all'uso sapiente del chiaroscuro, quasi un tessuto ambientale neogotico di burtoniana memoria. Napoli dunque, insieme a Castelvolturno (luogo topico ormai del cinema crime italiano), diventa co-protagonista del film o meglio un vero e proprio doppio del personaggio interpretato da Zingaretti, la cui nichilistica visione del mondo si traduce nel filtro che trasforma anche i luoghi nei quali si muove, come uno spettro che vaga all'interno di un vecchio castello. La patria di giganti della comicità quali Totò ed Eduardo De Filippo si tramuta in un non-luogo, una magione infestata solamente da fantasmi che si muovono senza sosta, senza vita tentando invano di trovare un contatto che sia realmente umano. All'interno di questo desolato orizzonte ritratto da De Angelis nessuno pare immune al male, né avvocati integerrimi, né giovani volenterosi colpevoli solamente di essere nati nella famiglia sbagliata, eppure una luce di speranza nel finale pare finalmente accendersi: il piano sequenza conclusivo svela inequivocabilmente come l'unica via di uscita da un buio inferno sulla Terra sia l'amore tra un padre e una figlia.
Perez. tirando le somme rappresenta un suggestivo viaggio attraverso l'interiorizzazione e la contemporanea esteriorizzazione del dolore di un uomo e di una città intera, legati indissolubilmente, senza però nascondere cinicamente come sia possibile un certo riscatto, persino tra gli spettri che infestano il centro direzionale napoletano.
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