Molti appassionati oggi abbinano David Ayer solamente alla regia, peraltro molto controversa, di Suicide Squad (2016), cinecomics campione di incassi ma aspramente criticato e in parte rinnegato dallo steso autore a causa di interventi ingenti da parte della produzione sul montaggio finale. Prima dell'incursione nell'universo cinematografico DC il regista dell'Illinois si era però conquistato un posto di una certa rilevanza all'interno del filone crime del cinema hollywoodiano, specialmente grazie alla sceneggiatura di Training Day, pellicola diretta da Antoine Fuqua nel 2001 e candidata a due Academy Awards. All'interno della filmografia da director di Ayer ho deciso oggi di approfondire in particolare End of Watch (End of Watch - Tolleranza zero in Italia), scritto, diretto e prodotto nel 2012. Sebbene da noi il film non sia molto noto in patria si è rivelato un ottimo incasso, specie considerato il budget non molto elevato, e un buon successo di critica, tale da permettere all'autore di poter dirigere un cast di star nel successivo Fury (2014).
Il terzo lungometraggio da regista dello sceneggiatore di Fast and Furious (The Fast and the Furious, Rob Cohen, 2001) segue, con piglio sospeso tra il documentaristico e il reality show, le giornate della coppia di poliziotti di Los Angeles composta da Brian Taylor (Jake Gyllenhaal) e Mike Zavala (Michael Peña). I due si distinguono giorno dopo giorno per la capacità di affrontare con ironia il proprio mestiere e al contempo di mettere a rischio persino le proprie vite pur di assicurare alla legge i tanti delinquenti che popolano i sobborghi della metropoli californiana. Proprio quando Brian incontra e sposa Janet, la donna che ha scoperto di amare (Anna Kendrick), casualmente i protagonisti finiscono per immischiarsi nei loschi traffici di schiavi e droga da parte di un potente cartello colombiano.
Ciò che salta immediatamente all'occhio di qualsiasi tipologia di spettatore alla visione di End of Watch è il peculiare assetto formale scelto da Ayer: un'alternanza tra mockumentary, soggettive dei protagonisti e alcune algide panoramiche della città che ricordano i lavori in digitale di Michael Mann. Una consistente fetta del film viene difatti ripresa attraverso la videocamera di Brian, alle prese con un compito da portare a termine per un corso universitario a carattere cinematografico, così come alcune sequenze incentrate su una gang di criminali ispanici si identifica con le riprese di uno dei suoi membri. Il regista opta per questo mix di registri stilistici, con notevole coraggio, non certo per una sterile esibizione virtuosistica, bensì per ottenere due risultati di notevole impatto poetico ed emotivo. Le forma simile al video amatoriale, molto sfruttata nel terzo millennio dal cinema horror ma anche da Brian De Palma in Redacted (film del 2007 che sicuramente deve aver influenzato Ayer), crea nello spettatore un effetto di verosimiglianza particolarmente elevato rispetto al rispetto della grammatica filmica classica e la giustapposizione di soggettive utilizzate soprattutto nelle sequenze action porta addirittura a una forma quasi da cinema vérité, equiparabile ai crudi reportage di guerra che hanno permesso al pubblico occidentale di conoscere gli orrori reali di conflitti lontani come quelli in Vietnam o in Iraq. In questo modo Ayer, come già dimostrato con altri espedienti narrativi ed estetici in tutta la propria filmografia, sembra voler esclamare a pieni polmoni come la realtà vissuta dagli abitanti dei quartieri più periferici di Los Angeles, città simbolo dei dislivelli sociali americani, sia del tutto equiparabile a quella di nazioni in preda alla guerra (sia essa contro paesi stranieri o intestina) e in particolare poliziotti e bande rivali costituiscono nient'altro che fazioni opposte, eserciti nemici all'interno di un interminabile conflitto. A tale scopo la macchina da presa non risparmia dettagli particolarmente crudi, evitando al contempo di spettacolarizzarli e dunque allontanando ogni elemento glamour tipico del genere crime statunitense dall'opera.
D'altro canto la scelta di affidare gran parte del film a riprese di taglio simil-amatoriale cela in realtà la volontà da parte del cineasta americano di porre la propria lente d'ingrandimento non solo sul versante d'azione e sociologico ma soprattutto sulla quotidianità dei due agenti di polizia, sia durante il lavoro che nella vita civile. Coadiuvato dal lavoro egregio da parte di Jake Gyllenhaal e Michael Peña, il regista riesce nell'impresa non banale di ritrarre due personaggi che, sequenza dopo sequenza, abbattono ogni stereotipo tipico del cinema di genere (le battute sulla "messicanità" di Mike strappano sorrisi genuini e sembrano proprio deridere tali topoi) ed entrano nel cuore dello spettatore, creando un rapporto empatico raramente così potente tra caratteri sullo schermo e pubblico. La leggerezza con cui i due giovani uomini affrontano un lavoro nel quale potrebbero perdere la vita in ogni singolo istante conquista e i momenti di vita quotidiana non concorrono mai a ritrarre degli eroi irreali, bensì persone del tutto simili allo spettatore medio e in particolare è il rapporto d'amicizia tra i due a risaltare grazie a questo approccio. Ayer ha dimostrato nel corso di tutta la sua carriera di tenere particolarmente al tema dell'amicizia tra uomini, specialmente all'interno di contesti lavorativi e sociali impregnati di machismo e ostentazione della virilità, e in questo lungometraggio la particolare forma adottata risulta estremamente efficace nel ritrarre l'amore fraterno tra due uomini in fondo molto diversi tra loro per carattere, origini etnico-culturali e aspirazioni individuali.
End of Watch probabilmente non possiede la forza magnetica di un cattivo come l'Alonzo Harris di Training Day, l'appeal pop degli antieroi di Suicide Squad o il carisma immediato di Brad Pitt in Fury eppure rappresenta un esempio perfetto di aderenza tra forma e contenuto e sintetizza con efficacia cinematografica più che rilevante la poetica di un Autore, non a caso coinvolto nel progetto nelle vesti di regista, sceneggiatore e persino produttore. Insomma questo è David Ayer, l'uomo cresciuto tra i quartieri criminali di LA e che in ogni sua opera ne mette in mostra la grande e sofferente umanità, con i suoi reietti assorti ad antieroi.
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