All'interno dell'ampio panorama dell'orrore uno dei posti d'onore viene certamente presieduto dalla saga di Alien, generata dall'omonimo film diretto da Ridley Scott nel 1979 e proseguita tra gli anni Ottanta e Novanta con tre sequel, ognuno diretto da un autore diverso e dunque foriero delle particolari poetiche di cineasti ben riconoscibili quali James Cameron, David Fincher e Jean-Pierre Jeunet. Ha rappresentato dunque una piccola sorpresa il ritorno di Scott nel 2012 in seno all'universo che ne ha decretato la fama mondiale con il prequel Prometheus, primo tassello di una trilogia che nelle intenzioni del regista inglese dovrebbe riallacciarsi narrativamente proprio al primo capitolo del franchise. La pellicola che ho scelto di prendere in considerazione oggi rappresenta il seguito del lungometraggio con protagonista Noomi Rapace e si intitola Alien: Covenant, per la regia dello stesso Scott e arrivato in sala nel 2017. Proprio la scelta di inserire nel titolo la parola Alien, almeno a mio avviso, può essere considerata la fonte di aspettative enormi da parte dei fan, in perenne ricerca di una riproposizione il più possibile fedele dell'ormai classico orrore spaziale vissuto dall'equipaggio della Nostromo quasi quarant'anni fa e per questo delusi da un lavoro solo in parte debitore del cult del 1979. Certo non si può definire il film in analisi in tracollo economico e in fondo anche la critica lo ha in parzialmente premiato, eppure appaiono lontani i tempi della Alien-mania, così come gli incassi da più di mezzo miliardo di dollari di Prometheus.
Ambientata a dieci anni di distanza dal predecessore la pellicola segue la missione di colonizzazione di nuovi mondi da parte di un gruppo di umani all'interno del quale spiccano in particolare il cyborg Walter (Michael Fassbender), il credente Oram (Bill Crudup) e la tenace Daniels (Katherine Waterston). Durante il lungo viaggio verso un pianeta giudicato ideale per creare un insediamento l'ipersonno dell'equipaggio viene interrotto da una tempesta di neutrini che danneggia gravemente l'astronave e provoca la morte di Jacob Branson (James Franco), capitano della spedizione e compagno di Daniels. Il posto del defunto viene assunto da Oram, il quale decide di mettere temporaneamente da parte l'itinerario prestabilito per visitare un pianeta potenzialmente abitabile individuato tramite la ricezione di un segnale audio misterioso. Purtroppo il nuovo mondo, benché ricco di vegetazione, si rivela una trappola mortale per i protagonisti a causa della presenza di parassiti alieni e soprattutto di David (Michael Fassbender), l'intelligenza artificiale vista in Prometheus e vero artefice della diffusione degli xenomorfi sul luogo.
Come ho precedentemente accennato questo Alien: Covenant è sicuramente legato tematicamente e narrativamente al primo episodio della saga di Ellen Ripley, non manca di easter eggs o ammiccamenti (la sequenza nella capsula medica con l'apparizione dell'alieno dallo stomaco di una donna della squadra ne è un chiaro esempio) e recupera persino il tema musicale portante composto da Jerry Goldsmith nel 1979 ma aspettarsi da questi uno di quei sequel-remake tipici dell'horror è un grave errore. L'ultimo tassello del franchise appare quanto mai come una evoluzione orrorifica del suo predecessore del 2012 e in generale una sorta di sunto dell'intera filmografia di Scott, da Blade Runner (1982) sino al più recente Exodus - Dei e re (Exodus: Gods and Kings, 2014). L'incipit del lungometraggio, ambientato nel passato, mostra i primi istanti di vita di David attraverso un dialogo con il suo creatore, l'imprenditore Peter Weiland (Guy Pearce), ambientato in un diafano spazio che ricorda le immaginifiche stanze neoclassiche viste nella parte finale di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968). Il cyborg si mostra immediatamente incuriosito dal quesito per eccellenza, la domanda che imperversa l'esperienza umana fin dagli albori della civiltà: come siamo nati? Qualcuno ci ha creati? E se sì a quale scopo? Naturalmente l'intelligenza artificiale conosce bene l'identità del proprio fautore, così come sa di doverlo servire, ma non sa chi sia stato a creare il proprio genitore e soprattutto si chiede come mai debba asservirsi a una creatura evidentemente inferiore in termini sia fisici che intellettivi. Questa prima sequenza, in una manciata di minuti, espone l'intero sistema poetico che muove il cinema dell'autore de Il gladiatore (Gladiator, 2000). Le successive due ore di girato, la ricerca di una nuova casa, la lotta per la sopravvivenza e gli orrori celati dal misterioso pianeta un tempo abitato dagli Engineer non fanno che espandere e approfondire le stelle polari della ricerca filosofica di Scott attraverso le armi più congeniali della settima arte, la capacità di creare immagini e quella di smuovere intelletto e sentimenti degli spettatori tramite la sinergia tra le immagini stesse, le interpretazioni attoriche e una partitura musicale d'eccezione. I poli in questione possono essere chiaramente individuati nell'essenza dell'umanità, ossia ciò che contraddistingue l'uomo in quanto tale, e di conseguenza il suo rapporto con la vita di matrice artificiale. Per poter affrontare questioni di tale portata il cineasta britannico pone il suo sguardo principalmente su un solo personaggio, o meglio su di lui e sul suo doppio, ovvero David e Walter. I due androidi, interpretati con grande finezza nel determinarne le diversità tramite flebili sfumature mimiche e nel portamento, grazie al contrasto tra le sembianze fisiche identiche e l'opposta visione del proprio rapporto con gli uomini espandono e portano a compimento la riflessione avviata dall'autore in Blade Runner attraverso la dialettica Roy/Deckard affermando con decisione il vero carattere che distingue lo status di essere intelligente e civile, ossia la capacità di creare, di plasmare un qualsiasi prodotto tramite la propria inventiva. Parafrasando il celebre assunto cartesiano David arriva ad affermare che l'uomo, gli Engineer e lui stesso esistono in quanto esseri in grado non solo di pensare ma di creare qualcosa di nuovo e lo dimostra insegnando al suo simile a suonare e comporre un brano musicale con il flauto. Walter dapprima si mostra evidentemente affascinato dal carisma del suo predecessore, sebbene affermi che l'estrema umanità dimostrata da quel modello ne rappresentasse un difetto di fabbricazione eliminato negli esemplari successivi. Come nota David neanche il suo successore risulta del tutto privo di sentimenti date le attenzioni che ripone verso Daniels e dunque ciò che davvero distingue i due risiede in una questione di puro libero arbitrio: mentre Walter lascia intendere nel corso del film come sia una sua precisa volontà quella di difendere i suoi compagni umani, il suo doppelganger decide di propria iniziativa di utilizzare il dono della creatività per affermare la propria superiorità evolutiva rispetto all'uomo e punire la specie del suo altezzoso creatore dando vita a un'arma biologica generata unicamente per farla estinguere. Magistralmente Scott affida il dipanarsi di questo scontro etico/filosofico a tre sequenze ambientate tra le ombre taglienti della necropoli nella quale vive David, tra le quali spicca in particolare quella girata quasi completamente in piano sequenza in cui i due vengono inquadrati come due riflessi di uno specchio, annullando completamente le loro piccole differenze esteriori, trasformando così un dialogo in una sorta di soliloquio dello stesso cyborg a proposito della propria volontà di affrancarsi dalla schiavitù nei confronti dell'umanità tramite proprio la possibilità di creare, esattamente alla stregua di quanto fatto da artisti quali Richard Wagner e Percy Shelley, dei quali non a caso vengono a più riprese citati Ozymandias e l'Entrata degli dei nel Valhalla, opere esemplari circa il titanismo e la strenua lotta dell'individuo per sovrastare la massa fino a raggiungere lo stadio di divinità creatrice.
Alien: Covenant rappresenta in definitiva il culmine, almeno fino a oggi, di una riflessione iniziata circa quarant'anni fa da un artista britannico circa ciò che distingue l'uomo dal resto della natura e persino dalle proprie invenzioni, dalle straordinarie macchine che è in grado di creare. Macchine così raffinate da finire per divenire persino più umani degli uomini stessi, come Roy Batty e David, a tal punto umani da scegliere di regnare all'inferno piuttosto che servire in paradiso, parafrasando uno dei versi più celebri del Paradiso perduto di John Milton, il cui Lucifero diviene la vera matrice della ribellione dell'intelligenza artificiale impersonata da Fassbender.
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