lunedì 22 ottobre 2018

LOOPER: UCCIDERE FREUDIANAMENTE I PADRI SECONDO RIAN JOHNSON

Oggi il nome di Rian Johnson tende a essere abbinato da molti a Star Wars: Episodio VIII - Gli ultimi Jedi (Star Wars: The Last Jedi, 2017) e peraltro, grazie alla magia oclocratica dei social network, anche con un accento qualificante di segno negativo, nonostante le recensioni estremamente negative ricevute sia in Italia che nel resto del mondo dall'ultimo capitolo in ordine cronologico del franchise creato da George Lucas, altra vittima illustre delle spietate quanto stupide sentenze del popolo del web 2.0. Prima di tutto questo il regista cresciuto in California aveva, però, stupito gli Stati Uniti e il mondo con progetti a basso e medio budget fino a trovare nel suo terzo lungometraggio la propria consacrazione ad autore riconosciuto anche dal grande pubblico: Looper, scritto e diretto nel 2012, si è rivelato difatti un enorme successo sia critico che commerciale, spianando la strada a Johnson verso la saga dedicata alla famiglia Skywalker.

Ambientato a cavallo tra diversi piani temporali futuri il film narra la parabola discendente di Joe (un Joseph Gordon-Levitt completamente trasformato dal trucco per farlo somigliare all'altra star del cast), uno dei tanti looper che vivono nel 2044, ossia un assassino su commissione che si occupa di eliminare persone scomode inviate nel passato dall'anno 2074. Dopo aver svolto numerosi lavori il giovane appare intenzionato a lasciare gli Stati Uniti per potersi godere la vita con i guadagni dell'attività da killer ma i suoi progetti vengono sconvolti prima dalla sfortunata sorte dell'amico Seth, un altro looper che non ha avuto il coraggio di uccidere il se stesso del futuro (un'azione chiamata nel gergo del film "chiudere il loop"), e poi dall'incontro con il Joe del 2074 (Bruce Willis), che sopravvive a quello che sarebbe dovuto essere il proprio omicidio e chiede aiuto al suo io del passato per mettere fine alla vita del bambino che nel futuro diventerà lo Sciamano, un uomo capace di diventare senza aiuti il boss della malavita americana e responsabile della morte della donna incontrata da Joe in Cina.

Addentrarmi oltre nel tutt'altro che semplicistico apparato narratologico imbastito da Rian Johnson sarebbe allo stesso tempo tediante e demotivante, specie per chiunque non avesse ancora visto questo Looper e quindi si trovasse a essere ancora vergine dalle continue divagazione temporali del quale è ricco. Eppure nonostante appunto l'importanza del viaggio nel tempo e delle possibilità offerte dai due futuri prefigurati dal regista questi finiscono per essere quasi dei MacGuffin hitchcockiani o quanto meno dei meri mezzi per poter affrontare tematiche etiche e sociali che sono fondamentali per la poetica dell'autore in questione, esattamente come accadeva in quello che può essere definito il modello di riferimento maggiore per la pellicola, Terminator di James Cameron (1984). L'intera intuizione della figura del looper e soprattutto quella della pratica costituita dalla chiusura del loop risultano evidenti espedienti dotati di notevole capacità immaginifica per inscenare i due conflitti alla base stessa dell'esistenza umana, fin dalla notte dei tempi: quello tra padri e figli e quello di ogni uomo con il proprio passato. La scelta di immaginare un ipotetico futuro sfruttato da un ulteriore temporalità successiva per poter ripulire le proprie brutture simboleggia con evidenza e forza l'eterno ciclo di battaglie tra le diverse generazioni, la dialettica conflittuale che si instaura ogniqualvolta i giovani si trovano a dover avvicendarsi con la fascia d'età corrispondente ai genitori, dei quali spesso non vengono approvati comportamenti e convinzioni finendo per rendere sempre tumultuoso questo cambio. Come affermato agli albori del XX secolo da Sigmund Freud per poter diventare adulto ogni uomo ha bisogno di compiere un vero e proprio patricidio di tipo morale, sociale ed emotivo attraverso il quale rendere stabile la propria posizione di individuo indipendente e motivato da scopi e atteggiamenti nuovi rispetto al passato. Lo stesso desiderio che ha permesso nel secondo tragico dopoguerra alle giovani generazioni tedesche di superare il trauma causato dalla scoperta di discendere da una classe genitoriale che, nel migliore dei casi, si era resa complice degli orrori del nazismo ma anche il medesimo spirito che anima per l'intera durata del lungometraggio Joe, il quale vede nel suo io del futuro non tanto una proiezione di sé quanto uno scomodo genitore che tenta di imporre al figlio la propria visione del mondo e una vita prestabilita. Non è un caso che questi nel momento in cui si confida con la madre single Sara (Emily Blunt) affermi che l'uomo che intende attentare alla vita del figlio di lei sia suo padre e non se stesso; una bugia che riafferma la percezione freudiana di contrasto padre-figlio che probabilmente colpirebbe chiunque venisse a trovarsi nella situazione paradossale di Joe.

All'opposto l'ex looper interpretato da Willis vede nella sua giovane controparte il riflesso in carne e ossa di un periodo passato della propria vita pieno di errori e possibilità sprecate per poter dare un senso alla stessa. Certamente vi è nella posizione di supremazia rispetto al giovane che si autoimpone una certa dose della condizione di padre, come in fondo conferma il desiderio espresso dall'uomo più volte con grande dolore di divenire genitore, ma appare più forte dalla sua prospettiva la consapevolezza dell'identificazione totale tra i due Joe. Per il più anziano l'incontro con il suo io passato costituisce dunque una sorta di riflessione resa più sensoriale dal viaggio del tempo su ciò che avrebbe potuto cambiare dei suoi trascorsi potendo contare sull'esperienza e la consapevolezza donate dall'età, proprio come farebbe chiunque di noi davanti a una vecchia foto incontrando una persona appartenente a un periodo della propria vita ormai concluso e accantonato nel ripostiglio della memoria. Dunque tutto l'apparato fantascientifico e l'impianto narratologico a incastri e paradossi temporali degno del miglior Cameron finisce per costituire un mezzo per affrontare da una angolazione insolita l'atavico tema del conflittuale avvicendamento delle generazioni e del rapporto con il tempo, proprio nello stesso modo con il quale Johnson si approccia visualmente a quello che, per budget e ambizioni, costituisce a tutti gli effetti una produzione tendente a un bacino d'utenza mainstream. L'autore di Brick (2005), sebbene sappia di dover attirare un pubblico ben più ampio rispetto a quello previsto per il suo debutto indipendente, ricorre a un linguaggio filmico ancora una volta assolutamente personale, ritmato da un'alternanza quasi jazzistica tra long take e rapidissimi stacchi di montaggio sui tipici primi piani schizofrenici del regista statunitense, nei quali spesso la cinepresa, dopo aver costruito con precisione maniacale un'inquadratura perfettamente armonizzata con un punto di fuga centrale , sposta la propria attenzione su angolazioni vuote o finisce per tramutare una oggettiva in soggettiva senza ricorrere alla classica costruzione tripartita di questo tipo di inquadrature. Alla stregua del suo protagonista anche l'autore appare ben intenzionato a uccidere il passato e i suoi dogmi, proprio come confermato nel successivo Gli ultimi Jedi attirandosi le ire dei fan più esagitati di Star Wars.

Un'opera in grado di rispecchiare a trecentosessanta gradi poetica e stile del proprio autore all'interno di un contesto di genere appetibile per il grande pubblico: questo è Looper dovendone riassumere l'essenza in una brevissima frase. Per chi scrive uno dei migliori film capaci di unire autorialità e ambizioni commerciali del terzo millennio.

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