Per quei, purtroppo, non tantissimi all'esterno della cerchia degli addetti al settore che ancora ricordano un certo John Boorman tale regista è sinonimo di Un tranquillo weekend di paura (Deliverance), pellicola del 1972 capace di vincere ben tre Academy Awards nonostante la crudezza sia delle immagini che delle tematiche trattate. Nell'arco di meno di dieci anni da quel trionfo assoluto il cineasta inglese dirige solamente altri tre film, l'ultimo dei quali ho scelto di approfondire oggi: Excalibur. Presentato nel 1981 al Festival di Cannes il lungometraggio conquista i favori della critica quasi esclusivamente dal punto di vista della messinscena, guadagnandosi persino un premio speciale alla rassegna transalpina, ma al box office si rivela uno dei maggiori incassi dell'anno. Incredibile come oggi sia così fuori dai radar per la stragrande maggioranza dei "cinefili" cresciuti a pane e Tarantino.
Come intuibile dal titolo l'opera in questione rappresenta una libera trasposizione, co-scritta dallo stesso Boorman, di La morte di Artù, realizzato da Sir Thomas Malory nel XV secolo raccogliendo l'enorme mole di leggende circolate per via orale sul sovrano capace di riunificare la Gran Bretagna amministrandola insieme ai propri fidi cavalieri. Il film ripercorre l'intero percorso di vita di Artù (Nigel Terry), dal suo concepimento propiziato dalla magia di Merlino (Nicol Williamson) passando per l'estrazione dalla roccia della mitica Excalibur, la nascita della tavola rotonda, il tradimento di Ginevra e Lancillotto (Nicholas Clay), la ricerca del Graal per salvare il regno e infine la battaglia decisiva tra il protagonista e quel figlio da lui generato a causa di un incantesimo della sorellastra Morgana (Helen Mirren).
Andare oltre nel riassumere le vicissitudini narrate nella pellicola mi pare alquanto superfluo, dato che oggi, attraverso un mezzo o un altro, conosce a grandi linee il cuore del Ciclo arturiano, uno dei miti fondativi della cultura occidentali, esattamente come i poemi omerici, e dunque fonte di rielaborazioni continue attraverso le più disparate forme di espressione (basti pensare al classico Disney La spada nella roccia, diretto nel 1963 da Wolfgang Reitherman). Esattamente come fatto qualche anno prima da un altro dei maggiori esponenti della Hollywood Reinassance, George Lucas, Boorman abbandona del tutto con questo lavoro la dimensione sociologica tanto cara al movimento di rivoluzione del cinema statunitense per abbracciare il racconto mitico e dunque le origini stesse, le radici dell'atto del narrare. Il regista britannico non tenta neanche di conferire alle vicende arturiane uno sviluppo consono all'idea di matrice romanzesca del racconto, non espande la psicologia dei personaggi fino a renderli capaci di modificarsi nel corso della fabula poiché un'impostazione mitologica prevede caratteri esemplari, facilmente riconoscibili e dunque specificati attraverso poche e inequivocabili caratteristiche. Per questo Lancillotto rappresenta l'uomo a tutto tondo, capace di grandi meraviglie ma anche di cadere in disgrazia a causa delle passioni, Morgana la decadenza di coloro che si macchiano di hybris tentando di trascendere la condizione umana tramite la conoscenza priva di morale, Parsifal il perfetto eroe cristiano, semplice nei modi ma dotato di spirito di sacrificio infinito e così via. Le critiche ricevute dalla pellicola circa una scarsa attenzione ai personaggi o ai dialoghi risultano alla luce di ciò del tutto infondate, basate su una tipologia di narrazione (quella del romanzo e del cinema classico) che nulla ha in comune con quella del mito e della fiaba, forme di racconto primigenie originate da società dotate di tradizioni prevalentemente orali e dunque bisognose di caratteri facilmente riconoscibili e memorizzabili rispetto a figure complesse.
La totale immersione dell'autore di Zardoz (1973) in un contesto mitico non significa che non vi sia nel film alcun elemento di rilettura del patrimonio rappresentato dall'operato di Malory ma anzi, in quanto artista che si esprime attraverso un'arte prima di tutto visuale come il cinema, Boorman libera da ogni vincolo il proprio estro estetico dando vita a un mondo tanto esotico rispetto al nostro da risultare ben più vicino al sogno che al medioevo nel quale sarebbe vissuto Re Artù. Chiara fonte di ispirazione per la grandiosa messinscena della pellicola è prima di tutto la pittura inglese ottocentesca, dal Romanticismo di Turner fino alla grazia preraffaelita di Dante Gabriel Rossetti (si pensi alla sequenza d'amore tra i boschi che coinvolge Ginevra e Lancillotto), fornendo un ulteriore indizio circa la volontà del regista di affrontare il materiale narrativo di partenza con la fascinazione di chiunque si trovi a viaggiare con la propria immaginazione attraverso luoghi lontani nello spazio e nel tempo ascoltando le straordinarie imprese dei cavalieri di Camelot, esattamente lo stesso approccio che aveva portato i maggiori artisti e intellettuali romantici, inglesi e tedeschi, a innamorarsi della fiaba e di un medioevo più mitico che reale, più arturiano che storicamente accurato.
Se cercate in Excalibur una revisione contemporanea del Ciclo arturiano quasi sicuramente rimarrete delusi, detto francamente, ma se la mitologia e la narrazione mitica, così come la straordinaria capacità del cinema di creare immagini in grado di colpire cuore e cervello senza bisogno della parola, vi affascinano allora ecco cosa può offrirvi questa eccezionale opera fin troppo velocemente accantonata.
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