In seguito a numerose delusioni sia a livello commerciale che di critica, proprio nel momento più buio della propria parabola discendente M. Night Shyamalan ha dato un importante segnale di ripresa con l'ottimo horror a basso costo The Visit (da me analizzato qui) nel 2015. A questo punto era lecito aspettarsi un banco di prova che potesse confermare l'effettiva rinascita dell'ex prodigio di Hollywood e così l'anno seguente arriva in sala Split, un altro prodotto a basso costo finanziato dalla Blumhouse di Jason Blume ma soprattutto un successo strepitoso di pubblico molto ben recensito in tutto il mondo. Un trionfo che rilancia definitivamente una carriera che sembrava ormai distrutta per sempre.
Come in ogni opera dell'autore de Il sesto senso (1999) dilungarsi troppo sulla trama priverebbe la visione di una percentuale molto alta e quindi tutto ciò che trovo congruo rivelare è che a centro della narrazione si trova il rapimento improvviso di tre adolescenti, tra cui la problematica ma acuta Casey (Anya Taylor-Joy), da parte di Kevin (James McAvoy), un uomo affetto da un grave disturbo dissociativo dell'identità che lo ha portato a farsi contenitore di ben ventitré (almeno inizialmente) diverse persone.
Se esiste un filo rosso che collega ogni singola pellicola diretta da Shyamalan è la volontà di scardinare dall'interno gli stereotipi e potremmo definire Split il punto di arrivo di questa ricerca. Uno dei concetti chiave del cinema americano, fin dai tempi della Hollywood classica, è il genere e proprio per questo viene pesantemente attaccato sbeffeggiato, tanto da trovare all'interno dell'opera continui salti dal thriller al drama, dall'horror al grottesco passando persino per una sequenza musicale volutamente ridicola. Il cineasta di origini indiane dopo aver sovvertito ogni regola narrativa e formale degli horror found footage proprio dal loro cuore, ossia la Blumhouse, ha esteso insomma la portata del proprio attacco, probabilmente con un certo risentimento verso tutti coloro che avevano tentato di intrappolarlo all'interno delle rigide regole del thriller.
Eppure non resta soltanto metacinematografica la critica espressa, anzi diventa ancor più efficace e toccante per un pubblico di qualsiasi età e istruzione nel momento in cui gli stereotipi presi di mira sono quelli della vita di tutti i giorni, con particolare attenzione per la visione che la società odierna ha di coloro che sono affetti da disturbi mentali. In un mondo come il nostro, basato sulla brama di successo individuale, sul narcisismo spasmodico e sui privilegi di pochi a discapito di molti i diversi divengono nient'altro che appestati, sottouomini da rilegare all'interno di ghetti, talvolta persino fisici, e chi è più diverso dal nostro concetto di normalità del malato? La malattia non costituisce un semplice momento di fragilità, bensì un vero e proprio marchio di infamia e ovviamente quello maggiormente infamante appartiene ai disturbi psicologici a causa della loro natura sfuggente e spesso ancora oscura persino ai ricercatori più avanguardisti. In un clima di tanta diffusa diffidenza nei confronti di chi è affetto da tali patologie assume i contorni di una rivoluzione totale l'esistenza stessa di Kevin, un uomo capace di adattare il proprio fisico a tutto ciò che elabora la sua mente con tanto di conferme scientifiche da parte della propria terapista. Capacità simili accomunano il giovane uomo a nessun altro suo simile poiché nella nostra conoscenza del mondo chi altri può avere tanto potere (spesso il personaggio sottolinea la propria potenza) se non un semidio e nel nostro mondo contemporaneo, soprattutto cinematografico, le forze divine che meglio conosciamo sono i supereroi dei fumetti. Tutto ciò che per gli antichi sono stati Achille, Eracle, Bellerofonte e tutti gli altri semidei del mito oggi è incarnato da personaggi come Superman e in fondo Kevin non è molto diverso dalle riletture maggiormente noir e sofferte di molti personaggi dei comics americani.
La coraggiosa scelta di rendere quasi divina la figura di un uomo disturbato a tal punto da uccidere il prossimo non è che la rottura attraverso la quale il regista di Signs (2002) dichiara la sua posizione affettuosa verso chiunque si senta diverso o venga trattato come tale, un voler trasformare la menomazione in pregio unico con una tenerezza che ricorda gli inizi carriera di Tim Burton.
Da un punto di vista formale la regia non fa che sottolineare la poetica del suo autore attraverso inquadrature fisse che esaltano la similitudine tra gli spazi chiusi e claustrofobici in cui vive l'uomo dalle ventitré personalità e la mente di quest'ultimo, come sottolinea verso il finale il passaggio agli esterni nel momento in cui raggiunge la piena consapevolezza del potere della propria psiche. Altrettanto degna di nota è l'interpretazione di McAvoy, capace di trasformare completamente mimica, gestualità e voce a seconda della personalità che si trova "sotto la luce" al punto da rendere ancora più evidente la componente metacinematografica della pellicola.
In conclusione Split non solo rappresenta la conferma del ritorno sulla strada maestra di un autore unico nel cinema statunitense ma è anche, a tutti gli effetti, uno dei migliori film dell'anno e se fruito insieme al precedente Unbreakable (2000) forma un dittico straordinariamente originale sul mito dei supereroi.
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