Reduce dall'ottimo responso critico di Frank (2014) Lenny Abrahamson dirige nel 2015 Room, tratto dall'omonimo romanzo scritto da Emma Donoghue, la quale si occupa in prima persona dell'adattamento realizzando la sceneggiatura del film. La pellicola diventa un vero e proprio fenomeno all'interno dei festival e conquista a tal punto la critica da portarla a vincere numerosi premi, tra cui un Golden Globe e un Academy Award (entrambi destinati all'attrice protagonista).
L'intera vicenda narrata viene rappresentata dal punto di vista di Jack (Jacob Tremblay), un bambino che ha appena compiuto cinque anni e che ha sempre vissuto rinchiuso in una stanza insieme alla giovane madre (Brie Larson). Per proteggere il figlio dalla durissima verità dietro la loro segregazione Joy (o Ma, come viene chiamata dal piccolo) gli ha fatto credere che fuori non ci sia niente di reale e che la vita inizi e finisca tra quelle quattro mura. In seguito al quinto compleanno la donna decide finalmente di rivelare la verità sul mondo esterno, su "stanza" e sul perché si trovino prigionieri: a non farli uscire è l'uomo che il bambino conosce come Old Nick, il quale ingannò e segregò Joy sette anni prima e grazie a una porta con una serratura elettronica risulta essere l'unico a poter entrare ed uscire dalla suddetta stanza. Durante questi sette anni l'aguzzino ha abusato ogni notte della co-protagonista, portando alla nascita del bimbo. Ormai esasperata la giovane madre elabora un piano per permettere a Jack di uscire e chiamare aiuto fingendosi morto. La strategia si rivela vincente e la polizia riesce a trarre in salvo i due reclusi ma il passaggio alla vita libera non si rivela semplice.
Certamente un motivo come quello di una ragazza segregata e violentata per anni non può che smuovere la sensibilità di qualsiasi essere umano degno di tale appellativo e quindi sarebbe stato molto facile per il regista realizzare un prodotto sensazionalista, colmo di momenti atti a sconvolgere e indignare lo spettatore, un po' come succede in tanti talk show. Abrahamson dimostra ancora una volta di essere un artista di grande spessore e quindi non si limita a evitare questa strada ma addirittura la critica apertamente in una delle sequenze più riuscite, il momento in cui Ma viene intervistata da una conduttrice televisiva che fa di tutto per metterla in difficoltà e mostrarne le presunte colpe nella tragedia capitata a lei e al figlio.
Sarebbe stato più semplice inoltre raccontare la storia scegliendo il punto di vista della donna, esattamente come accade in ogni resoconto di cronaca nera che ci capita di leggere sui giornali o vedere in televisione, ma il cineasta irlandese sconvolge tutti utilizzando come vero protagonista Jack, cosa che trasforma completamente il film sia narrativamente che stilisticamente. Il piccolo ha una visione di ciò che accade condizionata pesantemente dalla bizzarra educazione ricevuta dal genitore, cosa che gli fa vedere la stanza come un intero e sconfinato mondo pieno di magia e giochi da fare, tanto che lo spettatore nei minuti iniziali si ritrova spiazzato da ciò che vede e percepisce soltanto piccoli indizi dell'orrore che vi si cela. L'intera vicenda filtrata attraverso la percezione del bambino, che si esprime addirittura direttamente attraverso brevi monologhi, assume la dimensione della fiaba, di quel viaggio avventuroso affrontato da un giovane per conoscere sé stesso e la vita attraverso il superamento di ostacoli tutt'altro che banali. Una volta acquisita quest'ottica risulta semplice individuare i numerosi riferimenti alle più note fiabe che hanno accompagnato l'infanzia di tutti noi, come il viaggio all'interno del tappeto che richiama Aladino, e assume un valore emotivo ancora più potente la seconda parte della pellicola, nella quale il piccolo eroe si carica sulle spalle ancora una volta il salvataggio di sua madre, minacciata da un nuovo orco, ben più subdolo e sfuggente: la depressione. Proprio un espediente fiabesco, i capelli di Jack in cui secondo lui si trova la fonte della propria forza, riesce a salvare dal baratro la sua amata Ma.
Come ho anticipato poche righe fa l'inedito punto di vista assunto si ripercuote anche sull'aspetto visuale del lungometraggio; le inquadrature si trovano sempre o quasi all'altezza del piccolo protagonista e sottolineano con estrema precisione gli sconvolgimenti e lo stupore che prova persino per le situazioni più comuni. Tutt'altro che la tipica regia a cui siamo abituati per temi tanto cupi, cosa che rende sicuramente i personaggi più umani e vicini alla nostra emotività. Effetto reso incredibilmente efficace dalle strepitose interpretazioni di Brie Larson e Jacob Tremblay, mai eccessive, improntate alla sottrazione e all'interiorizzazione di traumi quasi inimmaginabili per molti di noi.
Alla luce di questa breve analisi spero che chi di voi non abbia mai visto Room possa dargli una chance, soprattutto chi ama il cinema bello esteticamente e ricco allo stesso tempo di emozioni da regalare allo spettatore ma anche per tutti coloro che sono stanchi dell'ipocrisia di chi spettacolarizza i drammi altrui e vuole conoscere il male dal punto di vista più innocente che esista: quello di un bambino.
Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
venerdì 3 febbraio 2017
ROOM: DALLA CRONACA NERA ALLA FIABA
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